lunedì 26 gennaio 2009

Pablo Picasso era un bel testa di cazzo

Uno dei motivi per cui uno dovrebbe prendersi la briga di imparare l’inglese è che, se gli va bene, dopo un paio di anni in terra anglofona, magari un film in inglese non è in grado di vederlo, ma almeno riesce a capire un buon sessantapercento di quello che si dice in una canzone.

Io ai testi ci tengo e se non capissi due parole d'inglese mi sarei perso completamente roba tipo gli Smiths o i Pulp, giusto per buttare là due nomi facili facili. D’altra parte, perché credete che al mondo la gente ascolti i gruppi inglesi? Perché parlano inglese, no? Non ditemi che dallo stivale non potremmo cavare di meglio del 90% di tutti quei gruppetti recenti con "the" davanti.

E a corroborare la tesi vale anche il discorso inverso. I testi beceri li perdoniamo solo quando sono in un’altra lingua, anche se li capiamo. Ci sono centinaia di gruppi di culto, adorati dagli stessi che poi schifano il corrispettivo tradotto in italiano. Prendi i Primal Scream, che tra l’altro mi piacciono anche. Questa volta l’esempio non è a caso, perché sono gli unici che sono riusciti ad infilare “come on pretty baby”, “let’s have a good time” e “sweet rock’n’roll” in una sola canzone. Le stesse parole che in italiano hanno causato l’affossamento dei Litfiba.
Prendi Rock’n’Roll Queen dei Subways, “You are the sun, You are the only one, You are so cool, You are so rock & roll”, ma vai a cagare, dai! Se fossero italiani, saremmo disposti a perdonare tale accrocco di demenza?

La solita lunga introduzione perché ultimamente sono ossessionato da Jonathan Richman (and the Modern Lovers). Jonathan non sarà mai famoso in Italia, perché la sua musica è un roccabillino simpatico, ma niente di particolare. Anche la voce è tanto nasale da far ridere, ma Johnny, la voce, la sa usare piuttosto bene. Lui è un grande recitatore. Più che cantare canzoni, interpreta il testo, così sembra che stia raccontando una storia in prima persona. E tra l’altro lo fa anche con un grande umorismo. E non è tutto amici italiani, è anche facile da capire! Esercitate anche voi il vostro inglese con The Modern Lovers, disco postumo e omonimo, del 1976!

Avete visto Tutti pazzi per Mary? Allora avete visto anche Johnny. È quell’idiota del cantastorie. Quello vestito da giullare. Questo per darvi un’idea del personaggio. Un bravo ragazzo tipo un Ben Stiller appena meno sfigato che canta della sua vita da Ben Stiller meno sfigato ma anche meno celebrity e quindi meno concupito dalle pulzelle. Non come Picasso, che come Ben Stiller un’ottantina d’anni dopo, è più sfigato di Johnny, ma anche più celebrity.



“Some guys try to pick up girls and get called asshole, this never happened to Pablo Picasso”, dice Johnny e aggiunge “Not like you”, ma ovviamente neanche come lui.
E poi via così, fra ragazze che assumono il colorito dell’avocado quando Pablo gira con la sua El Dorado ed amenità varie, il succo del discorso è che a Picasso nessuno dà del testa di cazzo. Tesi che viene peraltro confermata con perizia e inchiodata nella capa con una melodiola piacevolmente sciatta e poco pretenziosa.

Una canzone diversa dal resto dell’album, che delinea il carattere di Jonathan, dolce fino alla tenerezza, pieno di amore per il mondo vecchio e il mondo nuovo (dove vecchio corrisponde agli anni ’50) e per ragazze che stanno con Hippy Johnny, mentre dovrebbero preferire lui, che è straight, cioè un ragazzino pulito.

Tre accordi alla viva il parroco e una storiella semplice e divertente. Questa è la lezione di oggi, fratelli e sorelle.
Johnny l’ha scoperto nel Sottosuolo Vellutato di Lou Reed e l’ha ripetuto tirandosela molto meno.

Ascoltatelo, che è così un bravo ragazzo. Anche se ogni tanto gli scappa una parolaccia, è solo un po’ di invidia, perché è tanto un bravo ragazzo, non è né Ben Stiller, né tantomeno Picasso.
Quel testa di cazzo.

giovedì 22 gennaio 2009

Vita di provincia


Ho appena finito uno dei migliori libri da comodino che abbia mai avuto, “La leggenda dei monti naviganti” di Paolo Rumiz.
Di Rumiz ho già parlato, giornalista di Repubblica con una passione per l’epica del viaggio. Pagato per viaggiare e raccontare cosa vede. Se Iddio o Aladino mi offrissero di scegliermi un lavoro, quello sceglierei. Altro che cantanti, calciatori e pornoattori.

“La leggenda dei monti naviganti” unisce due viaggi, uno lungo le Alpi, dalla Slovenia alla Liguria, e uno a zig zag fra gli Appennini, partendo dove le due catene montuose si incontrano fino a Capo Sud, Calabria. Il tema è la vicinanza fra i monti italiani e il mare, con le montagne che fra Trieste e la Slovenia incontrano l'Adriatico, si incagliano nel Tirreno in Liguria e in Calabria si inabissano fra Ionio e Tirreno. Il resto è navigazione a vista a bordo di una Topolino blu scuro, fra fossili di pesci ad alta quota e paesi che sembrano transatlantici.

Rumiz passa a un paio di chilometri da casa mia, nomina addirittura gente che conosco, incontra "il Corona" (Mauro), ma sono le tappe appenniniche ad affascinare veramente.
Si scopre un mondo che non si può dire perduto, per il semplice motivo che non è mai stato scoperto: paesi sconosciuti che non hanno mai avuto squadre in serie A o B (ok, tranne il Castel di Sangro), la profonda provincia.

Ed è bello leggere della provincia perché l’Italia è soprattutto provincia. Per fortuna in Italia non abbiamo metropoli, solo Milano, forse Torino, magari Genova. Roma, Napoli e Palermo hanno troppa personalità locale per essere metropoli. I muscoli dell’Italia economica e industriale li trovi alla Fiat di Torino, ma l’anima e il cuore sono a Maranello (MO).

Un altro grande viaggiatore con carta e penna, Ryszard Kapuściński, scrive che "provinciale è una persona la cui visione del mondo è delineata da una particolare zona marginale alla quale ascrive un'importanza eccessiva, universalizzando erroneamente il particolare". È così dappertutto. Un milanese dà troppa importanza a Milano, un molisano immagina che il mondo ruoti attorno a Isernia. E allora forse l'unico modo per uscire dalla provincia è venire a contatto con i forestieri. Oppure essere forestieri, ma questo è un altro discorso.

Ma poi, chi ha detto che essere provinciali sia una cosa negativa? Beh, lo è nell'accezione citata in precedenza, ma la cosa ha anche i suoi lati positivi. L'isolamento porta a sviluppare una visione personale del mondo, quindi a tante province corrispondono tante culture diverse.

In fondo, anche a chi abita in città piace la provincia, solo che invece di "provinciale" dice "etnico". Quanto sono etnici polenta, fegatelli e arancini! Altro che il sushi nella versione che i giapponesi di New York passano a quelli di Milano. Quanto sono world music i cori sardi e quelli alpini, che non si prestano ad abomini stile Buddha bar.

La polenta e i cori alpini sono provinciali in quanto espressioni di una cultura particolare, locale. Il sushi è stato preso dal locale e reso internazionale contaminandolo. E non è una cosa negativa, solo che per continuare ad internazionalizzare servono idee locali sempre nuove. Sul Buddha bar invece stendiamo il solito pietoso doppio velo.

Comunque per me il bello della provincia sono le idee. A casa mia c'è tutta una serie di personaggi che incarnano lo spirito locale, vivendo in modo inedito, personale, privo di stimoli esterni. È gente molto intelligente, che non ha avuto gli stimoli per sviluppare questa intelligenza verso l'esterno e allora ha sfruttato al massimo i pochi spunti locali che aveva a disposizione, secondo canoni che sono personali in quanto privi di influenze esterne.

Ne scrive anche Rumiz: in Italia i geni sono posizionati male, fuori da istituti e università, ma nel giardino di casa a costruire marchingegni e opere d'arte da regalare a sconosciuti. Ci sono centinaia di geni chiusi in un cortile lungo un ruscello.
L'esempio più ovvio è il Corona, che scolpisce e scrive come solo uno che vive nei boschi potrebbe fare. Ma anche solo nel mio paese c'è tutta una serie di personaggi con una visione della vita degna di essere espressa, ma ai quali non verrebbe mai in mente di scrivere o scolpire. Mi viene in mente un tipo che ora è morto. Nei suoi ultimi anni di vita si era appropriato di un angolo quasi impenetrabile di bosco, in fondo alla valle, lungo il nostro fiume che la gente chiama torrente, aveva trasformato una sorgente in fontana e pulito il bosco, creandosi una specie di giardino segreto. La casa di un artista. Solo che nessuno gli aveva mai detto che avrebbe potuto essere un artista. E comunque probabilmente non gliene sarebbe fregato più di tanto, perché gli artisti sono tutti matti, buoni solo se fanno ridere.

Queste persone sono spesso anziane, perché i giovani hanno ampliato la loro visione del mondo con tv e mezzi elettronici.
Ad esempio, è piuttosto evidente come internet e lo scaricamento gratuito di musica abbiano influenzato la scena locale.
Ai miei tempi i metallari conoscevano solo i Metallica, i punk solo i Sex Pistols e i grunge mescolavano i due precedenti con dosi industriali di Nirvana. Altro non c'era. Alle feste giravano i soliti cinque o sei cd. E comunque era già molto di più di quello che avevano a disposizione le generazioni precedenti.
Ora invece ogni volta che torno a casa mi stupisco, gente che suona trip-hop (l'elettronica raffinata non era mai esistita nelle Valli, vigeva l'equazione elettronico = tamarro e quindi tamarro duro o niente) e in generale tutti quei generi musicali non estremi che prima non avevano mai avuto successo (pop-rock, art rock ecc.)
Meglio che mi costringa a fermarmi qui sull'argomento, se no rischio di andare avanti per pagine.

La provincia è la prima frontiera. Il che lo ammetto, potrebbe suonare strano detto da uno che ha passato le ultime settimane parlando solo di uscire dall’Europa. Solo non vedo l’ora di confrontare la provincia di Ulan Bator con quella di Trento.
Il che poi risulta ancora più comodo se fatto dalla comodità di una capitale europea come Amsterdamia.

lunedì 19 gennaio 2009

E stavolta si parte davvero


5 gennaio si diceva e scusatemi per l’interruzione senza neanche dire dove vado. Non che volessi creare suspense, perché lo so che nessuno dei miei forse due o tre lettori è rimasto in trepidante attesa. Volevo solo spezzare un pensiero lungo e visto che c’ero ho pensato che visto che c’ero quasi quasi potevo giocarmi l’effetto letterario.

Comunque torniamo al 5 gennaio. E torniamo a me, alla ricerca di un compagno di viaggio. Per primo mi viene in mente Federico. Federico è uno dal quale impari mille cose solo guardandolo. Una persona buona e infelice perché è destinato a soffrire la cattiveria degli altri. Un poeta che non scrive e non conosce metrica. Federico ha viaggiato per tutta l’Europa per amore. Ha guidato da Savona a Siviglia, in piena estate. neopatentato e privo di radio e clima, per vedere una ragazza per cinque minuti e sentirsi dire “non posso vederti, ma restiamo insieme, anche se io me ne torno in Russia e ci vediamo boh”. Ha imparato il russo al telefono e quando si era già organizzato per visitare Voronezh sul Don si è sentito dire “forse è meglio se vengo io in Italia, ma mi dovresti pagare il viaggio”. Per fortuna poi non se n’è fatto niente, perché lui aveva detto di sì. Poi, dopo anni di spola con Anversa, dove andava periodicamente a farsi prendere per il culo da una ragazzetta viziata (perfino la di lei sorella l’aveva messo in guardia), ha scoperto la sua vocazione per la Scandinavia prima, la Germania poi e infine è tornato a Genova con un’espressione un po’ così.
Federico è uno che ama viaggiare, soprattutto in circostanze tragiche o estreme e sarebbe stato il compagno ideale per un po’ di ascesi e scomodità. Ma lui ha anche la sfortuna di vivere e lavorare in una nazione dove chiedere ferie è un affronto e così a malincuore ha dovuto dire no.

Rimaneva solo Tomas, il mio fratello d’Erasmus, che avevo già nominato laddove lui mi proponeva di imbarcarci sulla Transiberiana. Ora, io non sopporto quando la birra ti fa dire che farai una cosa e la mattina dopo pensi che c’hai troppo mal di testa per pensarci e poi non ci pensi più. Però qualcuno ha idea di quanto costi volare fino a Mosca e poi tornare da Pechino*? Così gli espongo le mie motivazioni, porgo un garbato diniego e propongo come compensazione Parigi-Antananarivo per pochi euri, Amsterdam-Fortaleza per qualche euro in più, ma alloggio gratuito a casa dell’amico di mia zia matta (un giorno vi racconto di quando stava col batterista dei Big Audio Dynamite) oppure Paramaribo e poi giù verso l’Amazzonia (come già fatto da Sir Vidia Naipaul).

Tomas è svedese, ma credo nell’applicabilità degli stereotipi solo su di un 20% della popolazione alla quale fanno riferimento, così rimango stupito quando scopro che aveva già pensato a tutto. Amsterdam - Mosca, 29 agosto, Pechino - Amsterdam, 19 settembre, €544.
La mattina dopo ci incontriamo in chat e ne parliamo. Dopo 2 ore una piccola sede delle Casse Rurali del Trentino registra un versamento di €544 a beneficio di Austrian Airlines. E da parte mia va un sentito grazie all’aquila asburgica per questa possibilità di farci bere nuovamente insieme al cosacco (per l’arcano rimando, cfr. questa poesiola qui).

E mi è bastato un secondo. Appena apparsa la pagina di conferma dell’acquisto del biglietto sono rimasto stupito da quanto sia stato facile comprarlo. Prima, quando pensavo al mio grande viaggio, rimanevo sempre bloccato al momento di occuparmi del biglietto. Tutti i dubbi e le preoccupazioni, visti, malattie, fatica, scomodità, mi cadevano sulle spalle appena si trattava di cercare un volo. Stavolta, dopo aver pagato, sconfitta l’immobilità, i problemi mi sono apparsi improvvisamente molto meno seri e non solo perché ho otto mesi per risolverli, ma anche perché i problemi sono problemi, ma almeno sono diversi dai soliti. La prima cosa a colpirmi è stata quanto era ovvio che avevo bisogno di fare questo viaggio e mi è salita un’euforia che rimane ancora due settimane più tardi.






* Notare il tipico ragionamento italiano già più volte condannato: disapprovo, ma ho buoni motivi per farlo lo stesso. Notare anche come abbia adottato il ragionamento doppiamente, condannandolo, ma applicandolo ugualmente.

sabato 17 gennaio 2009

Touch iron, America

Braccobama rischia di diventare il più grande portasfiga della storia.
Manca una cosa come tre giorni ad un esordio che in quanto ad attesa rischia di affossare anche quello di Beckham con la maglia del Milan.

Ma c’è un che di macabro, qualcosa che suscita istinti primordiali come superstizione o semplice voglia di toccarsi le palle.
Il fatto è che già da un anno il nostro eroe dei tre mondi vive in un pianeta simile a quello dove opera lo sciamanino Renato Brunetta, un pianeta dove uno proclama la sua missione e la gente comincia subito ad esultare come se l’avesse già compiuta. Pare che Baracco sia in grado do ritirare le truppe dall'Irak mentre sistema la finanza, rifonda il sistema del welfare, demolisce Putin a tennis e incide un singolo rap.

Il mistero è come sia possibile che la gente creda sulla parola ad un politico, quando solitamente ai politici non ci crede nessuno.
La spiegazione più ovvia contempla la magia, la pronuncia di formule magiche, parole speciali che hanno una forza divina. Il “fannulloni” dell’intrepido ministro quadrato ha sicuramente più forza del “liberalizzare” del tondeggiante Bersani. Ma l’esempio più ovvio è l’obamistico “Yes we can” contrapposto al “Si può fare” weltroniano. Qui si tratta di un urlo doppiamente positivo (“Yes” e “we can”), uno slogan lanciato da un marine con le alghe in faccia prima di saltare contro l’avanposto dei musi gialli, contro tre parole che sono il sunto di un placido “guarda che secondo me se ci potrebbero anche essere le condizioni e se tutto va bene magari ci va di culo”.

Baracco c’ha dei numeri, he got game. Gli hanno creato un’icona simile a quella del Che, con il suo profilo nero su sfondo rossoblu, e sembra che tutti lo amino perché chi non lo supporta tace per non fare lo sfigato. Questi sono gli elementi che aprono la strada al mito, signori e signore.

E nei film americani il mito vince sempre. Così tutti danno per scontato il successo, tanto che gente come Springsteen pare abbia già scritto una canzone per celebrarne le gesta, dando adito alla pratica dei già citati gesti scaramantici.

Un successo comunque arriverà quasi di sicuro. Il ritiro dall’Irak è giusto, facile e telegenico.
Poi però sarà il turno della roba noiosa, roba da secchioni, manovre finanziarie e schifezze del genere. E qui la gente cambierà canale, sicura che il suo supereroe di fiducia risolverà la situazione.

E se quando la gente avrà finito lo zapping il presidente rivoluzionario non avrà sistemato tutto, beh, signori miei, saranno cazzi acidi.

Per tutti questi motivi, ma soprattutto per non portare sfiga, ho voluto finora esimermi dal celebrare la figura del primo presidente abbronzato* degli Stati Unti.

Tocca ferro, America! Noi toccheremo le nostre esigue risorse minerarie per voi.



* Quello di Kennedy era solo cerone.

lunedì 12 gennaio 2009

Chilometri su carta

Il 6 gennaio avevo già esaudito il mio proposto per il nuovo anno. Almeno in parte, quella meno complicata, ma decisiva, il punto di non ritorno.
Era la prima volta che mi ponevo un obiettivo per il nuovo anno e in realtà ci rimuginavo già da qualche mese. E il fatto che fosse legato alla scadenza annuale non deriva dal concetto psicologico di anno, ma da quello fisico di praticabilità solo in determinate stagioni.

L’obiettivo era quello di viaggiare finalmente oltre i confini europei. Lo so, non ci vuole tanto. Il fatto è che non mi sarebbe bastato prendere un volo per New York o Sharm-el-Sheik. L’obiettivo non era la destinazione, ma il viaggio stesso.
Non tanto il viaggio come avventura o prova di sé stessi, ma come fonte di stimoli visivi sempre diversi e come percorso, storia.
Un viaggio ha una struttura quasi narrativa, magari lineare, ma come molte opere racconta un percorso per raggiungere un traguardo.
Se vuole, sta al protagonista e narratore trovare un tema, un percorso che non sia solo geografico. E se è difficile da trovare è solo perché in potenza ce ne sono centinaia, intrecciati e mescolati. Un viaggio insegna sempre qualcosa. Uno ben assestato ti cambia facilmente la vita

Quando abitavo a Galway ho imparato ad affrontare la tristezza del tempo irlandese chiudendomi in casa a leggere letteratura di viaggio. Anzi, la parte più bella era andare da Charlie Byrne’s, sfogliare e annusare libri vecchi e sceglierne uno. Poi appunto, mi chiudevo in camera per immedesimarmi in quanto leggevo.

Un film non sarebbe bastato. Un film è già completo di immagini, mentre un libro invita a ricostruire mentalmente lo scenario. Trovo che gustarsi un piatto pronto su schermo sia un’attività molto passiva. Anche perché un film non dura più di due ore, mentre un libro ti accompagna per mesi, soprattutto se lo leggi con la mia andatura, cercando di non trascurare neanche un aggettivo.

Negli ultimi anni credo di aver idealizzato dentro di me l’idea del viaggio. La narrativa peregrina può essere umoristica o superficiale, ma contiene sempre qualcosa di poetico, romantico, decisamente fuori dai tempi. C’è sempre una ricerca, un obiettivo, quello che chiamo il tema del viaggio, che può essere spirituale, la prova di se stessi, curiosità verso l’altro, voglia di vedere cose nuove, rilassarsi, non annoiarsi, divertirsi, vantarsi con gli amici oppure ovviamente una miscela di questi ingredienti. Comunque resta il fatto che se uno è completamente soddisfatto di quello che ha, difficilmente sceglierà di isolarsi per un mese nel Serengeti. Magari andrà in vacanza a Sharm, ma come si diceva, se l’obiettivo è quello di bearsi ai raggi del sole, beh, lo poteva fare anche a Caorle. Non si tratta di viaggiare, ma di andare.

Il tutto detto con ironia, ma anche con il massimo rispetto, perché anche di sole e relax ha bisogno l’uomo. Se uno si fa un culo così per un anno davanti ad una putrellatrice o gestendo fondi d’investimento gli conviene andare a riposarsi in spiaggia, ma resta il fatto che se poi scrive un libro sulla sua vacanza al mare, non si tratta di letteratura di viaggio, perché la parte fondamentale della narrazione non è il viaggio, ma la meta.

La letteratura peregrina è un genere molto vasto, popolare soprattutto nei paesi di mentalità anglosassone. Inglesi, irlandesi e australiani sono grandi viaggiatori. L’inglese medio conosce pochissimo l’Europa, ma è stato sicuramente in India, Africa o Sudamerica. In realtà fra gli inglesi ci sono anche moltissimi viaggiatori superficiali, quelli che viaggiano come l’affascinante cazzaro Hemingway, per dimostrare qualcosa a se stessi o per vantarsi con gli amici, ma anglosassone (inclusi molti americani di estrazione anglosassone) è anche la maggior parte dei moderni pellegrini ad inchiostro. Tornerò sull'argomento in futuro.

Per me però i libri di viaggio sono un po’ come la fantascienza. Non sono mai uscito dall’Europa. Non riesco a concepire un paese dove i treni non arrivino relativamente in orario, dove serva un visto per essere ammessi e sia necessario stare attenti a cosa si ordina quando si mangia in un ristorante.

Per questo, con l’idea di fare un viaggio ci ho giocato per anni. Non ho mai avuto fretta. Temevo che il giorno in cui avrei varcato il confine per me la lettura avrebbe perso il suo fascino. Ma un po' alla volta la tentazione di trasformare la fantasia in realtà è diventata sempre più forte. Due anni fa mi sono concesso un ottimo palliativo con dieci giorni sulle strade del nord del Portogallo con un amico, ma forse anche per il fatto che l'anno scorso ho preso ferie solo per tornare nel mio utero alpino, questa volta ho deciso che il prossimo ciclo di stagioni sarà per forza quello giusto.

Così ho iniziato a pensarci sempre più seriamente. Il problema è che i posti dove vorrei andare sono troppi. Anzi, più che il luogo è il percorso che conta. E allora Camerun interiore a piedi come Dervla Murphy, che però l’ha fatto a cavallo, Sud-Est asiatico senza volare, come Terzani, Patagonia come un certo Max Mauro che se l’è fatta in bicicletta (Chatwin invece l’ho letto anni fa e mi ha annoiato la sua scientificità), la provincia statunitense di Bill Bryson, per quella va bene anche la macchina, in fondo non c’è nulla di più americano, la Guyana e il Madagascar degli animali di Durrell che mi leggeva mia madre quando ero bambino, vagare per l’Etiopia con Paul Theroux, lo Yemen o il Kurdistan che mi racconta la mia zia matta, troppo altro.

Ma non volevo andare da solo, per paura della solitudine. Avevo bisogno di un amico che si sapesse adattare ad un viaggio scomodo. Non scomodo per senso dell’avventura. Vorrei chiarire da subito che la ricerca di avventura fine a se stessa mi repelle. Scomodo invece perché come prima o poi tutti i libri che ho letto rivelano, è nelle situazioni più difficili che si incontrano le persone giuste e che si viene a contatto con lo spirito del luogo.

Scomodo però significa anche pericoloso. Io non sono uno di quei pazzi che si gettano incoscienti in qualsiasi impresa. Anzi, confesso di avere una specie di terrore di essere derubato, più un senso di violazione psicologica che timore per la perdita della sporca pecunia. E devo confessare una limitazione ancora più grave. Sono vergognosamente schizzinoso, la persona più schizzinosa che conosco, dopo mio fratello. Mi sto impegnando da anni a sconfiggere la paura di tutto il cibo che ha un aspetto molliccio e un odore forte. Ho ottenuto risultati, ma ancora fatico a tollerare il formaggio e la carne proveniente da parti bizzarre del corpo dell’animale. Soprattutto quest’ultimo ostacolo mi sembra rilevante, vista l’apparente propensione delle culture più radicate nella tradizione per zampe di gallina, stomaco di marmotta e amenità simili.

Ma non sopporto che a bloccarmi sia la paura di qualcosa che ha relativamente poche possibilità di accadere o una limitazione personale come l’apriorismo anticulinario, così cerco di farmi coraggio. Penso che essere derubati sia una grande lezione di vita e soprattutto di modestia, una dote che cerco di insegnarmi da autodidatta. E anche per il cibo sono riuscito a motivarmi pensando che sono già sopravvissuto diverse volte alla Francia, patria par excellence dei cibi strani ed olezzosi. E se poi fossi sfortunato, la fame mi potrà insegnare importanti lezioni di vita. Chissà sarei disposto a mangiare carne di serpente dopo due giorni senza masticare?

Così già a fine dicembre ho cominciato a cercare voli, inserendo destinazioni quasi casuali nei motori di ricerca, sperando di trovare l’offerta da ora o mai più.
Ma soprattutto ho cominciato a cercare compagni di viaggio, impresa ancora più ardua.

E poi ho trovato tutto: meta, compagno, volo, ispirazione, il 5 di gennaio. Il giorno dopo avevo già prenotato il volo.

lunedì 5 gennaio 2009

Speranza

Signori c'è speranza.

Il primo è stato San Paolo. Saulo era un gabelliere, esattore o qualcosa del genere, poi è stato fulminato sulla via di Damasco e ha cambiato idea e nome d'arte.

Poi è stata la volta di mille altri esattori illuminati, come tale Zaccheo o il più titolato San Marco Evangelista.

Dopo Millenni è arrivato Giovanni Lindo Ferretti, passato dagli Huligani Dangereux, fedeli alla linea anche quando la linea era già stata sniffata dal popolo incazzato, alla redenzione e al conseguente passaggio "dalle pere a Pera", come recita un famoso graffito spruzzato vicino a casa sua.

E che dire di Bill Gates che si dà alla beneficenza?

Qualcuno mormora che anche Gramsci si sia convertito al Bene in punto di morte, anche se per me boh.

Che sia ora il turno del Bassissimo? Che possa ancora raggiungere l'Illuminazione anche senza aggrapparsi al lampadario, riconoscendo di aver talvolta peccato, lasciando milioni d'italiani a chiedersi "E ora che faccio?"

In fondo spero di no, non sopporterei mai di vederlo lasciare il demonio per la casacca nerazzurra di suo cugino.

venerdì 2 gennaio 2009

Quotidiani su internet: t*tt* e la*o B sotto la foto

Da quando vivo all’estero la mia Italia è confinata a qualche indirizzo internet: un paio di blog, Raiclick e tre quotidiani, in rigido ordine di consultazione: Gazzetta, Corriere, Repubblica.
I tre quotidiani mi servono per rimanere aggiornato su politici (da non confondere con politica), calcio parlato, stragi e polemiche, il curriculum minimo per potermi ancora presentare alla gente come campione del mondo.

Ora, risparmiamo la Gazza e parliamo di Repubblica e Corriere. Porto il massimo rispetto per le versioni cartacee, secondo me alcuni dei migliori esempi in Europa di compromesso fra qualità e roba che a nessuno piace ma tutti leggono.
Mi fa ridere la fama e l’autorevolezza dei quotidiani inglesi. Independent, Observer & Guardian hanno un'ossessione per quello che passa in televisione, oltre all'albionica abitudine di concentrarsi su personalità individuali, dalla quale nasce la passione dei sudditi di sua maestà (non a caso una personalità) per le chiacchiere, che lassù si chiamano gossip. Nelle rubriche di opinione si parla solo di celebrity cooks e altri inquilini del piccolo scherno. È difficile seguire queste rubriche senza conoscere quello che passa mamma Bibbiccì.

I tedeschi invece sono tedeschi, pensano che la vita sia una cosa seria e stampano questa filosofia nel testo fitto e nelle poche fotografie della Süddeutsche Zeitung. L'uso di tabelle esplicative o grafici svilirebbe di certo l'importanza di certi argomenti.
La lettura risulta tanto noiosa quanto informativa.

Glissando sugl’ispanici, che non conosco, La Repubblica, Il Corriere e Le Monde sembrano gli unici giornali dove si trova di tutto un po’ e che stimolano la lettura. E ribadisco che mi riferisco alle versioni in carta stampata.

Il discorso è molto diverso quando si passa ai siti internet, che sono notoriamente un cataplasma di mucillaggine, con qualche perla nascosta fra le alghe più irritanti. Severgnini sul Corriere è solitamente confinato a collegamenti a fondo pagina e gli articoli di Rumiz e Mura su Repubblica di solito vanno ricercati nel motore di ricerca o dalla pagina di Wikipedia relativa al giornalista.

Ma non voglio perdermi a parlare di contenuto. Da bravo italiano, è la forma che mi interessa.
È perché c'è una cosa che mi turba da un po': davvero in Italia la gente chiama il culo "lato b"? O sono solo i giornali, come sospetto? Temo che l'uso di questo termine possa diventare un fenomeno simile a quello che impone ai giornali di abusare del termine "sballo", nonostante sia uscito dal linguaggio parlato prima della diffusione dell’ecstasy, o peggio, chiamare le sigarette "bionde", metafora che deve aver fatto il '68 con i giornalisti di Repubblica, perché io non l'ho mai sentito pronunciare nell'arco della mia non più troppo breve vita.

Queste cose sembrano cazzate, ma ci mostrano quanto i giornalisti siano fuori dal tempo. Magari non tutti, ma sicuramente quelli che il convento passa nelle messe diurne.

Gli articoli poi sono pieni di tematiche e termini ricorrenti. Si parla di "vergogna" per uno "scandalo", per poi passare nel giro di una settimana alla constatazione dell'"equivoco", "fraintendimento", "malinteso" o "complotto", spesso "in mala fede" e terminare con "assoluzione" o "perdono". E vi consiglio di meditare sul numero di termini disponibili per la seconda fase.
L'importante è che alla fine si emerga come "vittima" o "martire", quest'ultimo chiamato anche "eroe". Notare lo spostamento semantico del termine "eroe" da "persona che per eccezionali virtù di coraggio o abnegazione si impone all'ammirazione di tutti" (Devoto Oli) a "persona che ha avuto la sfiga di morire in un paese in stato di guerra" (definizione personale).



Come promesso, da qui in poi si parla di tete e fiba. Se avete saltato la prima parte avete il dovere morale di smetterla di criticare la qualità degli articoli sui siti di Corriere e Repubblica.

Gli articoli sulle tatte (la fiva non è ancora stata sdoganata) sono quelli più esilaranti dal punto di vista linguistico. Il filone mammario si divide in quattro: "calendari", "protesta nuda", "body painting", e "moda", con l'occasionale aggiunta di "bagno nudo fra i ghiacci" e "Spencer Tunick".

Si tratta ovviamente di articoli fotografici, quindi il testo è poco, ma la parte interessante sono i titoli. Uno dei principi del giornalismo è il carattere di novità e originalità della notizia. In questi casi questi principî si fanno da parte in favore dell'erotismo e ci si trova ad aver già utilizzato tutti i titoli possibili per una notizia che si ripete sempre identica. Per questo motivo anche i titoli tendono ad essere ripetitivi.

Nel genere "calendari" si giustifica la scelta della notizia citando il lato artistico dell'operazione e se ne maschera la frivolezza usando il magico termine "trash", che giustifica qualsiasi eccesso dando l'idea che sia stato fatto con consapevolezza.
Un titolo molto diffuso è ad esempio "Il calendario di XYZ, fra eros e trash".
Il discorso è molto simile per "body painting", dove però stranamente si parla raramente di trash. A differenza del calendario, il regno del body painting sono fiere e saloni, dedicati e non. Nei titoli per i saloni appositamente ideati per pitturare la carne è sufficiente indicare il luogo, mentre per eventi dedicati ad altri temi si può concedersi qualche gioco di parole. Un titolo che appare ogni anno è "Bellezze e motori: body painting al MotorShow di Bologna".

Per "protesta nuda" la giustificazione è nel fine della protesta, che è l'unico elemento che occorre specificare nel titolo. Il formato è semplice: "XYZ protestano nudi in favore/contro ABC", laddove XYZ sono studentesse, hostess, casalinghe e ABC è la causa.

"Moda" è l'unico dei quattro filoni nel quale non sempre appare nudità, perché si tratta dell'unico argomento che può destare interesse indipendentemente da tefte e culi. Per questo quando la nudità appare è importante specificarlo. La scusa più semplice e funzionale è la provocazione. Il titolo più gettonato "Provocazione in passerella: le modelle di XYZ sfilano nude ad ABC".

Se vi interessa avere la conferma di quanto ho scritto, oppure volete avere un'ottima scusa per guardare un po' di totte, ecco un elenco dei titoli disponibili in questo momento (purtroppo dovrete fare a meno del link, perché sono al lavoro):

www.repubblica.it

- A Bruxelles c'è un maniaco che fotografa solo le pance
- Le foto delle donne che allattano rimosse da Facebook: è protesta (il mio preferito)
- Sheyla, maggiorata al silicone, li misure sono da Guinness dei primati ("Guinness dei primati" è un altro filone secondario molto interessante)
- Bellezze, solidarietà, arte, amatoriali e trash, sfogliate i nostri 294 calendari (notare la presenza delle giustificazioni "arte", "trash" e "solidarietà"


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- Facebook censura le foto delle mamme che allattano (più elegante della versione di Repubblica, senza la fastidiosa pausa creata dai due punti)
- Chi fa il bagno (gelato) a Capodanno...
- Immigrati in posa per il calendario clandestino (per donne!)
- Linda Santaguida, stile anni '70 (non la conosco, magari è una suora, ma chissà cosa mi dice di no)

giovedì 1 gennaio 2009

Il superclassificacchio

Stavo per chiosare sulle classifiche dei migliori dischi dell’anno, ma poi ho pensato che nessuno ha mai preteso di prenderle sul serio. E allora perché renderle serie ridicolizzandole?

Stendiamo un pietoso velo di bianchetto e cominciamo da capo. Diciamo che anche se avessi ascoltato abbastanza roba nuova da poter buttar giù una classifica, credo che non avrei avuto la voglia di rovinarmi l’ascolto chiedendomi se un pezzo è meglio o peggio di un altro di tutt'altro genere.

Perciò cambiamo gioco. Una sola canzone, ma una per ogni mese. Spesso non la più ascoltata, ma quella più significativa, e qualche volta immagino ci scapperà qualcosa che manco mi piace. Una specie di calendario per impotenti, con gli spartiti al posto delle tette.

Gennaio è Bandiera bianca di Battiato. L’unico evento del mio ultimo inverno irlandese è stato incontrare Tomas a Dublino. In corriera, sul tragitto eterno che sega Ibernia in orizzontale, ho sviluppato una specie di ossessione per testo e musica di questa canzone. Battiato ha delle frasi fulminanti. Se provi a leggerle nel contesto della canzone di solito non significano una mazza, ma se le prendi singolarmente sono geniali. E poi anch’io a Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata.

Febbraio è difficile. Ricordo solo che il 20 gennaio le radio dicevano che qualche ricercatore aveva stabilito che era il giorno più deprimente dell’anno e io pensavo che era vero. Cazzo dico? Ora ricordo! La prima metà di febbraio l'ho passata a Londra, in missione per conto dell'azienda. Lo avevo rimosso, ma quella è stata la fine del periodo deprimente. Tredici strani giorni, perso da solo nei musei la notte, dopo lavoro. Vicino a Covent Garden realizzo una volta per tutte di non sopportare più le isole grigie. E che comunque c’è isola grigia e isola grigia e anche nella più grigia c’è grigio e grigio. Sfiga vuole che sia capitato proprio nel punto più grigio. Piuttosto che l’Irlanda è meglio la Mongolia. È Tabula Rasa Elettrificata, ma soprattutto M’importa ‘na sega.

Marzo se lo aggiudica Please, please, please, let me get what I want degli Smiths. Giovedì sera dopo lavoro, ricerca veloce di altro posto di lavoro e partitella con i colleghi. Pioggia, neve, vento. Nulla ci ferma, siamo irlandesi. In macchina, solo, nelle campagne scure che separano la mia bucolica città dalla collina dei campetti, mi perdo ancora dopo un anno che faccio la stessa strada e canto l’unica canzone che la mia voce bassa mi concede. Non si sta così male qui, ma è comunque ora di levarsi di mezzo.

Ad aprile giunge la lieta novella. Ho trovato lavoro in Olanda. Passo da generale a soldato semplice, guadagno un bel po’ meno, ma la cosa non mi tange. Nell’ultimo mese di lavoro non sono concesse ferie, ma mi concedo la pazzia di rompere le palle ai miei boss perché mi lascino tornare in Italia per mettere una X sul simbolo di un partito che non ha speranza. “Non tornerò mai dov’ero già, non tornerò mai a prima mai” vale doppio per me. Aprile va ad Irata dei CSI, che ha anche la dose di malinconia adatta per un addio, per quanto atteso.

Il 9 maggio sono in Olanda. La mia musica diventa quella che ascolto nei 70 minuti quotidiani verso l’ufficio e di ritorno. Musica rapida per svegliarmi la mattina e qualcosa in italiano che mi racconti la storia della buonanotte al ritorno. Il nuovo disco dei Baustelle a tratti fa pena, ma spesso è geniale. La scelta di scendere di grado pur di levarmi dai coglioni paga fin dall’inizio e Il capitalismo ha i giorni contati.

Le giornate di giugno sono lunghe, verso le venitrè il sole concede all'elettricità la sua parte di luce ed è blues portare una sedia sul terrazzo, aprire una Palm e leggere Mark Twain ascoltando Heartattack and Vine di Tommaso Aspetta.

A luglio finalmente ordino quel libro che aspettavo di leggere da anni. Please Kill Me, the Oral History of Punk di Legs McNeil diventa un’ossessione (vedi svariati post precedenti) e, come direbbero i migliori viggei di Emtivì, ora ci becchiamo Love Comes in Spurts di Richard Hell e i suoi Vuotoidi.

Arriva agosto e cerco un po’ d’Africa in giardino. Dervla Murphy (Travels with Egbert) è irlandese e talmente alcolizzata da ubriacarsi spensieratamente ogni sera anche nell’entroterra del Camerun, sola con la figlia e il cavallo. Fra Bamenda e il deserto dei Tinariwen c’è qualche migliaio di chilometri, ma ho la scusa di prepararmi per il concerto. Il miglior concerto dell’anno. Amassakoul è la prescelta.

A settembre la grande rimpatriata. Per il matrimonio di Tobias e per ritrovare Federico, vado in Francia, a Vesoul, già decantata da Jacques Brel nell’omonima canzone. Comunque pare che ci sia una Vesoul anche in Belgio.

Ottobre è per forza di cose il mese dei Sonic Youth. Decidono di suonare a Bolzano il giorno del mio compleanno. E che, non ci vado? Ci vado, ci vado. The Diamond Sea la spunta su The Empty Page e Disconnection Notice.

Fra una cosa e l’altra quest’anno ho ascoltato parecchio Capossela. Ma ci vuole del tempo per superare il mio pregiudizio verso uno che ai tempi dell'università era il grande idolo dei più stereotipati dei centrosocialisti. All’inizio mi sembra che scriva testi stereotipati su basi jazz e blues che sanno di standard. Ma a novembre mi accorgo di sbagliarmi di brutto, oh quanto mi sbaglio. La nomination va all’Accolita dei rancorosi.

Dicembre dovrebbe andare a Three Sisters di Jim Carroll. Invece no, va a Suds & Soda dei dEUS, indipendentemente dal fatto che li abbia visti in concerto in questo mese. Suds & Soda è la canzone dell’anno. È l’unico esempio a me noto di brano perfetto, la struttura varia di continuo con parti decisamente eterogenee, ma integrate perfettamente. I violini, il secondo chitarrista che ripete "Friday" ad libitum (qualcuno si è preso la briga di contare, pare che lo urli circa 250 volte), l’assolo di tastiera, il testo assurdo che parla di acqua minerale saponata che si miscela perfettamente con la birra, sono tutte trovate geniali per un pezzo che da solo è in grado di mettermi la tachicardia peggio di sette caffè corretto vecchia. Grazie agli dEUS, nel giorno che tutti noi secchioni musicali attendiamo, quello in cui qualcuno ci chiederà "qual'è la tua canzone preferita di sempre?" io sarò l’unico a sapere cosa rispondere.