giovedì 26 marzo 2009

Tettonica in me

Credo che qualcuno mi abbia rimproverato, senza proferire parola, di non essere abbastanza autobiografico. Questo qualcuno include il coinquilino del mio corpo, quel pigro, presuntuoso, megalomane moltopiccoloborghese che a piccoli passi si sta impossessando di sto coso e non sopporta il nome Bastian Contreras. Dice che fa troppo punk adolescenziale e minaccia di trovarsi un altro alter ego. Ormai è evidente che si vergogna di me, si è preso anche il nome del coso.

La sua sfortuna è che non ha molto da dire. Il suo articoletto sugli uccelli non era malaccio, un po' patetico se guardato dalla prospettiva dello starci dentro, ma in fin dei conti passabile. Ma là ha sparato tutti i suoi colpi. Cos’altro può avere da raccontare uno che si sveglia alle 7.31 o 32, 29 se si deve fare la barba, che poi immaginati che differenza fa un minuto quando uno si deve fare la barba, doccia e colazione, fra le 8.36 e le 8.41 sale in bici, si gode il paesaggio maledicendone la ripetitività, arriva in ufficio verso le 9.13, ne emerge fra le 17.31 (perché diciassette sono, non cinque del pomeriggio, nel suo mondo moltopiccoloborghese) e le 18.00. Torna indietro lungo la stessa strada e passa la serata a leggere, scrivere e guardare partite o film, chatta con la morosa su Gmail e poi legge libri di viaggi a letto fra le 23.39 e le 0.08 (neanche le 24 dico io, le zero!). Ditemi voi se questo è un uomo, anche se ammetto che citare 1° Levi, considerando i contesti, convince quasi del contrario.

E comunque vedere come si bea quest’uomo, nella sua mediocrità. Vorrebbe fare cose, ma gli mancano pazienza, costanza e talento. In dieci anni non ha mai imparato ad accordare una chitarra a orecchio. È stato alla mostra di Avedon e crede di capire tutto di arte, ma non è che diventi fotografo da un giorno all’altro, colleone. Ma la peggio la dovete ancora sentire. Adesso fa pure l’attore. Solo perché sabato ha recitato in un corto diretto da un amico per un corso di cinema.
E dovreste vedere quanto era fiero, nella sua patetica mediocrità, in mutande davanti alla telecamera.

Questa persona che scrive gli status update divertenti su Facebook e non riesce a fare a meno di sventolare davanti alla sua centotrentina di amici sfusi i cinque migliori dischi della storia e i cinque dischi che ti hanno formato. Patetico. Ah, e sentite l’ultima, pare stia traducendo i testi di Bob Dylan in dialetto. Son tutti artisti, col culo degli altri.

E questa è la persona che mi dà il pane, che mi spinge ad una pulsione che non so se è affetto familiare o omosessualità, o forse sono io che sono femmina, ma Sebastiana sarebbo troppo un nome di merda. Una persona che magari non ne sa quanto me con il mio nome da panchettino adolescente, ma in fondo non è neanche peggio di te, che chissà quali altri difetti moltopiccoloborghesi c’hai, tu che magari hai un lavoro con un nome inglese e le maiuscole e non hai neanche il tempo di leggerti un libro prima di andare a letto e magari periodicamente mi esci con parole tipo “proattivo”. Oppure lavori nel callcentro per 400 euro al mese, che non fa differenza. Il difetto di questa persona, la fonte della sua meschinità, è essere come te, né un winner, né un loser, ma un eterno paregger, ché drawer fa troppo cassetto. Che sia per questo che la sua la chiamavano la generazione X, al tempo in cui si giocava ancora la schedina? Poco importa, ora Severgnini li chiama gli Ottantini e fra di loro i vincitori è difficile individuarli, mentre i perdenti muoiono di inedia, così rimangono solo quelli come te, lui e Trapattoni, con cinque in difesa e un solo attaccante a giocare di contropiede, sperando che un dio gliela mandi buona. E ora è lui a scrivere mi sa, una metafora che sa dei liquami della piana di Ligabue. Patetico è dir poco.

martedì 24 marzo 2009

Parabole di montagna

Noi tutti qui per anni ad aspettare la rivoluzione mentre perdiamo tempo fra le distrazioni della rete. E solo dopo una decina di anni, ricordandoci come eravamo allora, ci accorgiamo che la rivoluzione è passata, noi c’eravamo in mezzo e ci è sgusciata fra fianchi e lombi, ci ha lambito le maniglie dell’amore e ci ha pizzicati sull’inguine, ci ha coinvolti più sì che no, ne siamo stati parte sì e no in egual misura e adesso che quello che sognavamo è reale ci dispiace quasi. Ci dispiace perché è successo quello che volevamo, ma noi non ci siamo, abbiamo cambiato canale perché sul Due c'era un film più bello, siamo tornati durante la pubblicità e ci siamo visti un finale che quasi ci dispiace di aver cambiato canale.

Succedeva dieci anni fa che ci si guardava intorno. Dal Brenta si vedeva la valle e si capiva che c’erano due scelte. C’era chi giocava a calcio e chi suonava la chitarra. Stranamente e forse per caso le due cose si escludevano. Un chitarrista poteva leggere la Gazza, ma non giocare a calcio. I chitarristi erano tanti, così finiva che per forza di cose qualcuno doveva accontentarsi di quattro corde o abbandonare completamente il manico. Quarantamila abitanti, un migliaio di calciatori e sai quanti chitarristi? Tanti. Tanti facevano schifo, tanti avevano talento, tanti facevano schifo e avevano talento. Quelli che non facevano schifo e avevano talento condannati a perdersi cercando di imitare in scala 1:1 le cover dei Deep Purple. Quelli che facevano schifo era perché non sapevano suonare. Erano tanti e di solito avevano parecchio talento. In cassetta giravano i Marlene Kuntz e quelli di Seattle e io li ripudiavo, pensando che da noi ce n’erano a decine che erano meglio di loro.

Poi, una notte di settembre me ne andai. Non che all’università fossi al centro del mondo, ma almeno Videomusic si prendeva. La cosa che stupiva era che tutti ne sapevano di musica. Lascia stare le migliaia di chitarristi, ma in Valle la musica era roba da iniziati. Iniziati che si dividevano rigorosamente fra Metallari, Punk e Grunge, dove G = M+P. I metallari avevano i Metallica, i punk i Sex Pistols, i Nirvana erano patrimonio di tutti e io odiavo tutto ciò perché sapevo che c’era altro. Il che era poi un’illusione, perché Altro non andava molto oltre ai Pink Floyd. In realtà a casa avevano tutti la stessa decina di dischi.
Così arrivi in un posto nuovo e ti accorgi che chiunque ne sa più di te, ma non è del tuo status di intenditore che ti preoccupi, ma della tua patria seclusa. Ti accorgi che se solo a casa fosse arrivata la musica, allora sì era altro che Seattle. Ma prima doveva fare sto sforzo e arrivare, la signora musica.

E poi con la patria seclusa perdi contatto, ci torni solo fisicamente e solo dopo un cinque anni decidi che in fondo le vuoi bene e ti va di uscire con lei. Nei bar un sacco di facce nuove. La tua generazione sta lasciando il passo, ma soprattutto gli iniziati sono aumentati alla X. C’è un gruppo che suona trip-hop. Trip-hop in una baita di montagna. Quando eri partito i Massive Attack non erano arrivati oltre la Val d’Adige. Li conoscevi di nome, ma la musica suonava tipo roba da discotecari. E poi trovi anche un ragazzino di diciottanni che ti parla dei Pavement e ti accorgi che qualcosa non va, ma nel senso positivo. Era successo questo, era successo che Emtivvì, il satellite e soprattutto internet avevano portato la musica nelle valli del Trentino. Non una Seattle agreste, ma almeno ora se uno c’aveva il cervello poteva trovava stimoli e idee e la possibilità di farsi sentire anche sottorocchetta e oltretonale.

E infatti ora succede. Doppiamente, all’italiana. In radio quelli che fanno le cover dei Deep Purple finanziati da colui che siede in Provincia e millanta parentele con me, candidati come peggior canzone dell’anno. I presunti rappresentanti del bene invece a sostenere i valligiani d’Italia nei reality show.

E poco poco spiace, perché nel momento in cui il bene trionfa non sai neanche chi lo rappresenta, il bene.

mercoledì 18 marzo 2009

Morte su Facebook

Stamattina ho detto alla mia collega francese che secondo me lei è una di quelle persone che se non hanno problemi se li vanno a cercare, perché senza non saprebbero che fare.
Ci è rimasta di stucco, ci ha pensato un po’, mi ha guardato male, ma non è riuscita a negare l’evidenza. E durante la pausa pranzo non ha parlato molto, mi sa che ci stava ancora pensando.
È stata la mia buona azione quotidiana, le ho trovato un problema a cui pensare.

Per quanto mi riguarda, invece, uno dei problemi più interessanti che mi siano venuti in mente in questo mondo moderno è “cosa devo fare se un mio amico di Facebook muore?"
Non parlo di censure o profili cancellati, ma di morte reale, che fino a prova contraria esiste ancora ed è in grado di prendere il sopravvento sul mondo virtuale.

Me lo sono chiesto per un po’ e continuerò a chiedermelo, anche se solo per poco tempo.
Per poco tempo perché un mio quasi coetaneo, stessa (unica) scuola media, paese vicino al mio, amici in comune, ha avuto un incidente in moto ed è partito per frutteti più verdi in quelli che prima della rivoluzione agricola erano i pascoli del cielo.

Non mi va di sparare parole di circostanza su di lui. Pochi ricordi, tutti positivi, ma odio la retorica post mortem che va per la maggiore in Italia.

Rimane però la macabra curiosità su cosa ne sarà del suo profilo su Facebook. Qualcuno avvertirà il signor Zuckerberg che il proprietario è deceduto? Oppure sta agli amici cancellarlo dai contatti? E con quale coraggio uno cancella un “amico” (ecco perché preferisco parlare di “contatti”), soprattutto dopo che è morto? Qualcuno ha visto un pulsante “report as dead” da qualche parte?
La triste notizia apparirà nella pagina del feedback? “X is now listed as dead”, oppure sarà una cosa di basso profilo e il contatto svanirà senza lasciare traccia? E qualcuno prima o poi avrà il fegato di inventare l'applicazione Cimitero, dove puoi andare a trovare gli amici morti? Magari si potrà creare un profilo per gli avi defunti e metterli direttamente nel cimitero. Ma i contatti defunti faranno numero? Perché in questo caso conosco un paio di persone che sarebbero in grado di ingaggiare quegli esperti che trovi ai banconi delle fiere e sono in grado di risalire ai tuoi trisavoli medievali. Gli stessi esperti per i quali chiunque ha sangue bluastro e uno stemma di famiglia.
Al giorno d’oggi una cotta d’armi non si nega a nessuno, si sa.

Ma torniamo dalle fiere ai fiori. Per ora mi sono imposto di non cercare il suo profilo per vedere cosa ne è stato. Spero solo di riuscire a trattenermi.

lunedì 16 marzo 2009

Je ne parle pas neomelodique

Ultimamente non ho scritto molto perché oltre ad un periodico attacco di vuoto mentale ho dovuto preparare la presentatie (pron: preshentaazie) per il corso di olandese.
Tutto questo mentre sto per piombare di nuovo nella crisi franco/olandese. Il succo della crisi è: perché sto studiando una lingua parlata da manco venti milioni di persone al mondo, quando potrei studiarne una più utile?

Le risposte ci sono. È cosa buona e giusta parlare la lingua del paese che ti dà lavoro, fa molto persona responsabile e gli olandesi amano le persone responsabili e quelli che non lo sono li chiamano asocial (asossiàl). Poi non è vero che i nederlandici parlano tutti inglese, provate ad andare per uffici ad Ouderkerk aan de Amstel. E poi l’olandese è una gran botta di autostima. Se parli un pelo di tedesco ti aiuta a convincerti che imparare una lingua non è così difficile. Ma questo magari non ditelo agli olandesi.

Tutte motivazioni valide, non fosse per le pressioni provenienti da dietro il Belgio. Il francese dovrei studiare, altro che. Cosa farei se un giorno l’assessore e noto mecenate delle cause perse che si spaccia per parente di mio nonno mi trovasse lavoro a Bruxella? O se decidessi di emigrare in un paese remoto, vivendo di traduzioni fatte su banda larga a bassissimo costo? L’Olanda ha Suriname, Sint Maarten, Aruba, Curaçao. Non male, ma non impazzisco per i Caraibi. Vuoi mettere la Francia? A parte il fatto che la loro brava Guyana ce l’hanno pure loro (“una Guyana non si nega a nessuno”, anche gli inglesi ne hanno avuta una), ma vuoi mettere con una lingua parlata da lemuri e aye-aye in Madagascar, alci canadesi, presunti marsupiali della Nuova Caledonia, madonne di Lourdes, moscimbecchi di Tangeri e Leoni Indomabili del Camerun?

Mettendo a confronto le due favelle la Francia sarebbe in grado di ribaltare il 4-1 subito contro gli arancioni all’ultimo Europeo. Ma non ce la faccio. È più forte di me. Con i francesi ci sono sempre andato d’accordo, almeno dopo che Materazzi, santo patrono degli italiani all’estero, ha ristabilito le gerarchie. Sono colti, hanno una grande letteratura (per quel poco che ho letto) e un grande cinema (per quel poco che ho visto), si interessano di rugby come i veri gentiluomini, ma è la lingua signori miei, che te li farebbe prendere a schiaffi.

A parte le bocche contorte che costringe i suoi parlanti ad assumere e il fatto che a casa mia se avessi parlato con bocca semichiusa e aria di sufficienza sarei stato dovutamente redarguito (si fa per dire, in realtà come educazione ho dieci anni di anticipo sui giovani d'oggi), la lingua francese suona troppo neomelodica per me.

Ho sempre pensato che le lingue suonino come generi musicali. L’inglese ha tutta la casualità e le dissonanze del punk, con qualche traccia di emo nelle versioni con cadenza britannica, tra l’altro molto orecchiabile. Lo spagnolo ha un ritmo unza unza con una spigolosità liscia e melodica degna dei Talking Heads, come se Goran Bregovic facesse Born under punches, il tedesco è decisamente metal con la seriosità e l’oscurità del suo accento, strutture grammaticali che sono puro virtuosismo fine a se stesso e le B che sono P e sono scoppi da Einstürzende Neubauten. Il tutto arrangiato con la finezza di Warren Ellis dei Bad Seeds.

A ragione le lingue scandinave dovrebbero essere profondissimo death metal, ma forse con l’eccezione del ruvido danese non vanno oltre il pop più formaggioso. Lo svedese però è assolutamente una lingua da cantare. Ascoltatevi i Dungen o l'accento di Karin Dreijer dei Knife in What else is there dei Royksöpp.
Il finnico invece ha semplicità e minimalismo degni di Woody Guthrie e del vecchio Bobbo. I testi ovviamente sono molto impegnati.

Il polacco è hardcore punk e qui non mi sembra ci sia molto da spiegare, il portoghese es bossanova e isto è muito natural. L’olandese è tremendamente pop. ma un pop non immediato. Mi verrebbe da citare Scott Walker o Neil Hannon, ma no, l’olandese è troppo spigoloso per il pop da camera. È più buttato giù male, anzi direi che suona decisamente simile ai Pavement. Ma con archi e ottoni, per un effetto che richiede diversi ascolti per farci l'orecchio.

L'italiano boh, direi che dipende dall’accento. Dalla musica classica di Firenze al rock blues di Scampia, passando per il rock progressive siciliano (intendo i Genesis, non i Dream Theater) e il gotico piemontese. In Liguria parlano il lento e in Romagna un tango stonato. Nel Nord-Est vige un thrash che va scemando verso ovest, raggiungendo toni stoner dalle parti della Val Seriana.

Fatto sta che continuerò a studiare l'olandese. Per la musica c'è sempre lo stereo e il francese no perché no.

giovedì 12 marzo 2009

Ornithology


Eintagsfrühling, dice la radio tedesca, come le Eintagsfliegen, gli insetti che nascono, consumano, producono e crepano in un solo giorno, la notte il loro inverno e la luce la loro estate. Una primavera di due giorni, una caparra versata su quella vera, che arriverà fra uno o due mesi.

Ma basta per svegliare me e svariate altre creature, che s’involano ma anche no al passare della mia bici sulla strada verso il mio ufficio di campagna, che ogni giorno mi costringe a tornare alla natura, per seguire i suoi cicli e le sue usme, bestemmiare nel vento e bearmi al sole, intelarmi nella pioggia e dare di dinamo di notte.
Un percorso placido, addirittura selvatico nonostante i palazzoni di Amstelveen mi guardino dall’alto da una parte del fiume che si chiama come la birra e lo stadio dell’Ajax in simmetria dall’altra.

E nonostante tutto, lo stesso percorso, se pedalato dieci volte ogni settimana, dopo un po’ finisce per dare ai nervi. La monotonia è una brutta bestia, ma per fortuna ci sono centinaia di uccelli divertenti a spezzarla.

Gli uccelli segnano il tempo per il ciclista agreste. I germani reali, noiosi nella loro onnipresenza, sono rimasti tutto l’inverno. Non lo avrei mai detto, ma ce l’hanno fatta. Li vedevi barcollare sul fiume ghiacciato, con la testa sprofondata nel loro bomber di piume. In tedesco si chiamano Stockente, l’anatra bastone, forse perché si spostano con un bastone in culo.

Con loro le mie amiche folaghe, che d’inverno sembrano ancora più nere, con il naso adunco ancora più bianco. Gonfie, le folaghe, devono aver messo via parecchio grasso. Mi è venuto in mente vedendone una stecchita in mezzo alla strada, con le zampe rigide puntate verso l’alto, come i polli del furgoncino del lunedì mattina in paese. Le mancava solo il vassoietto di polistirolo e il cellofàn etichettato.


Anche gli aironi cinerini ce l’hanno fatta. Quest’inverno se ne vedevano a decine, con quel fare da soprammobili per case di anziani, fissi lungo l’argine dei canali come badili in attesa della stagione operativa. Anche loro ogni tanto finivano sotto il SUV di qualche ricco oudecherchiano, che li trasformava in fossili di pterodattili e faceva una certa impressione passare con la bici sopra un metro buono di bestia, capace da morta di incutere una specie di timore ancestrale. Più allegri i fagiani, dal passo lungo e l’andatura trafelata. Non si sono visti per tutta l’estate, poi un giorno ne ho beccati sei insieme in un campo appena arato, poi saltuariamente qualcuno isolato lungo i fossi.

Belli, ti viene da fermarti a guardarli, perché sembrano finti, esemplari da esposizione, appena dipinti e pettinati. Sembrano alpini, cappello verde e pennacchio (sulla coda però), una camicia da taglialegna e l’occhio rosso ad indicare il rituale abuso d’alcol. Ti viene da chiedergli che cazzo se ne facciano di un corpo di colore mimetico, se poi si sputtanano tutto l’effetto sorpresa con quel bollo rosso su verde. Lo sanno anche i putelotti delle medie che rosso e verde sono colori contrastanti.

E ora è primavera, almeno per un paio di giorni, che intanto vanno avanti da una settimana. Arrivano ogni giorno nuovi uccelli esotici per un uomo alpestre come me. Per prime le folaghe deluxe, quelle con carrozzeria blu elettrico e becco rosso, innovate anche nel design, più dinamiche e compatte. Poi sono tornate le beccacce di mare, già il primo giorno ne ho viste subito una decina nell’arco di 500 metri. Simpaticissime anche loro, polli bianconeri su trampoli, con un lungo becco rosso arancione che le fa sembrare affabili e spensierate.


Credo sia proprio per via del becco che gli uccelli mi sono sempre stati simpatici. Gli dà personalità, gli dipinge in faccia un’espressione che tendiamo ad interpretare con criteri antropologici ovviamente sbagliati. Così la cazzuola larga dei germani reali li fa sembrare tonti, le folaghe invece passano per grandi intellettuali con la loro tenuta sobria e il naso adunco. Gli aironi sono James Dean, con il becco dinamico e il ciuffo da belli e maledetti.

K gli uccelli li ha studiati e li riconosce dal verso. Ogni tanto per strada si ferma, sorride e mi chiede se l’ho sentito. Io l’ho sentito, ma non so cosa sia. A K piacciono i Kiebitz, un nome bellissimo per quelle che da noi si chiamano pavoncelle. Lei ne vede a migliaia, io non ne ho mai beccata una, e dire che ci terrei.
Comunque, parlando di nomi, l’uccello col nome più bello è l’usignolo. Non in italiano, ma nelle altre lingue: Nachtigall, nightingale, rossignol. K mi ha raccontato che qualcuno ha provato a mettere insieme usignoli europei e cinesi, per vedere se possono riprodursi. Pare che l’operazione sia fallita per incompatibilità linguistica. La femmina non apprezzava il canto della variante transcontinentale. Un po’ come quelli a cui non piacciono le ragazze che hanno gusti musicali diversi.
Anch’io mi sa che con una metallara non mi ci metterei mai.

domenica 8 marzo 2009

Mondi perfetti


In un mondo perfetto, dove la giustizia trionfa sempre, nei cinema italiani ci sarebbe un film che si chiama “A voce alta” oppure “Der Vorleser”, ma non “The Reader”. Se il romanzo, bello, dolce, fa quasi venire voglia di andare con donne mature, ma qualsiasi mio giudizio non può essere che parziale perché me lo ha fatto leggere il Kircher nell’atmosfera rarefatta della mia Erasmus. Se il romanzo, si diceva, lo ha scritto un autore tedesco, perché usare il titolo in inglese?

In un altro mondo perfetto, o anche nello stesso mondo perfetto, il tipo russo che si fa chiamare Scribonius e la sera prima di andare a letto si legge la biografia di Galeazzo Ciano, non avrebbe lasciato il posto di lavoro per inforcare la sua BMW (in Olanda vige la dittatura della bicicletta e i mezzi di trasporto si inforcano), cercare per un’ora un posto dove si potesse vedere la carcassa dell’aereo turco precipitato e fare fotografie. O almeno non ce lo avrebbe raccontato con un sorriso che sa di gulag e non avrebbe concluso manifestando la sua delusione per non aver visto i morti.


Ma in un mondo perfetto tutto va come deve e si sa sempre come finirà. Un mondo perfetto sarebbe alienante e le partite le vincerebbe sempre la squadra che merita. La gente sarebbe normale e sarebbe impossibile prenderla per il culo, mentre i treni arriverebbero in orario e non si potrebbero giustificare i propri ritardi. Quanto a me, verrei multato ogni volta che attraverso la strada col rosso, anche se probabilmente il semaforo di Ouderkerk non mi farebbe aspettare ogni volta tre minuti.

Di questo siamo qui oggi per convincerci, fratelli e sorelle. Un mondo perfetto non è auspicabile.

A me ultimamente piace l'imperfezione come la dipinge Lucian Freud.

giovedì 5 marzo 2009

L'unico reggae che reggo

Non mi è mai piaciuto particolarmente il reggae. Ho sempre preferito la musica che si evolve, cambia ritmo, si alza, accelera, rallenta. Il regghi è statico, claustrofobico, dice “sì, potremmo uscire a fare un giro, ma anche no, magari fra cinque minuti".

Il reggae mi ricorda le serate passate in Valle, quando si partiva per incontrare esseri umani e si finiva chiusi nella taverna di qualcuno a farsi le canne. Non che si ascoltasse regghe allora, ma l’atmosfera era quella. Avevo voglia di uscire, parlare con il mondo, ma no, i veri fighi non parlano con la gente, si chiudono in taverna ad allargare i confini della propria mente.
Sarà anche per quello che alla storia delle porte della percezione non ci ho mai creduto. Ho passato anni ad ascoltare e leggere solo roba che avesse a che fare con gli anni Sessanta, ma poi mi sono reso conto una volta per tutte che i fiori non mi interessavano e che i loro figli probabilmente erano lo stesso tipo di gente di quelli che ora fanno i punkabbestia.

Me ne sono convinto ieri guardando Un sacco bello di Verdone. C’è questo fricchettone che parla con lo stesso tono dei modeni portatori di cane e catene. Cioè, oh, voglio dì. Lo stesso gergo dal quale deriva la parola noiggiovani. Mi sa che se fossi nato negli anni Sessanta, per pura ribellione sarei diventato un banchiere. Che poi anche la prole delle piante per lo più ora lavora in banca, ma ovviamente allora non lo avrei saputo.

Tre l’altro ho sempre considerato stirpe botanica e sessantottini come la stessa cosa, ma K dice che almeno da lei non è così. Pare che la differenza fondamentale sia che in Alemannia il clan dei vivaisti snobbasse la politica, dedicandosi ad una vita edonistica fatta di camper, campeggi, amore libero e sandali. Se ci pensate, il quadro corrisponde allo stereotipo del nordeuropeo in ferie in Bella Italia, che tuttora a 50 anni tiene i capelli lunghi a fare da aureola alla pelata e brandisce quello che tutti noi conosciamo come “baffo da turista tedesco” (per me che ormai conosco l’ambiente, “baffo da austriaco”). Quindi dev’essere vero. I polleggiati in ferie al mare e gli altri a casa a manifestare per portare avanti la baracca.

Da un po’ mi chiedo se anche in Italia era così, ma a pelle direi di no. Da noi quelli che giravano l’Europa in camper erano gli stessi che il mese prima tenevano comizi in facoltà. Oserei teorizzare che nelle comuni italiane più che scopazzare liberamente si complottassero spese proletarie. Ma ora mi viene davvero il dubbio. In fondo ai tempi qualcuno cantava che “il figlio dei fiori non pensa al domani”. Però d’altra parte gli scioperanti di Pietrangeli “di libero amore facean professione". Aiutatemi a chiarire questo arcano, ne va della mia concezione della storia d’Italia.

Forse il gruppo si è diviso più tardi. Qualcuno è andato Alla rivoluzione sulla Due Cavalli (film leggero, dolce e simpatico) e gli altri sono rimasti al campeggio a farsi le canne.
Poi sono arrivati i punkabbestia, che dalla politica hanno preso la A cerchiata e dalla natura il cane, per poi scegliere di fregarsene di qualsiasi tematica o ideale.

E pensare che volevo parlare di reggae, di come non mi esalti, per passare poi alla mia più recente ossessione: 54-46 was my number, di Toots & the Maytals. Succede che tempo fa mi sono guardato This is England in flusso dati (streaming), il video non si caricava e mi sono sorbito l’inizio del film una ventina di volte. Ogni volta un secondo in più, ogni volta ad ascoltare la storia recitata all’inizio della canzone, ogni volta a chiedermi come sarebbe proseguita. Pare che alla fine il tipo vada in prigione al posto di un altro, perché altrimenti questo gli avrebbe rovinato la vita che altro che un paio di anni di galera. Sullo sfondo immagini dell’Inghilterra all’inizio degli anni ’80, chi se ne frega dell’Inghilterra, ma la Thatcher sul trattore a ritmo di regghi è divertente e poi il film è fatto bene, ti spiega com’è che uno che non ce n’ha idea possa diventare nazista per caso. Un rischio che il punkabbestia non corre, ligio al suo scarso interesse per qualsiasi cosa non possa essere avvolta nelle Rizla.



Comunque più del film è rimasta la canzone. K dice che mi piace più la musica recitata di quella cantata. Io aggiungo che è perché io di musica tennicamente parlando non ci capisco una beata.
E così dovreste vedermi la mattina verso le nove e un paio di minuti, mentre faccio il mio ingresso a Chiesavecchia sull’Amstel a colpi d’ippodio, rimbalzando sul sellino e pedalando in una traiettoria deciamente regghe, canticchiando bapadadidodadadidodadadì dabidabi daba dedo, dedo, dada, dada.

domenica 1 marzo 2009

Eroi della sfiga

Su Facebook hanno creato un gruppo dedicato a “Falcone, Borsellino e gli altri eroi”. Mi ha dato un fastidio enorme vedere la muffolenta parola “eroi” accostata ai nomi di Falcone e Borsellino, come se fossero due Quattrocchi qualsiasi, come se potessero essere ricodotti nei ranghi di quei personaggi che sono morti perché hanno avuto la sfiga di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Falcone e Borsellino non hanno avuto nessuna sfiga, perché non sono andati a giocarsi la vita in cerca di gloria o denaro, ma hanno pagato un prezzo solo leggermente più salato del previsto per un impegno in qualcosa di importante, sapendo di giocarsi tutto er cucuzzaro.

Quindi va bene la definizione classica di eroe, ma non quella mediatica. E come i non linguisti sanno meglio di noi linguisti, la lingua che conta usa la Crusca solo per muovere l’intestino. Quindi l’italiano è il linguaggio della tivvù e per la tivvù per essere eroi basta morire, possibilmente in terra nemica e in divisa.

Dovremmo trovare un nuovo termine noi, che abbiamo studiato l’Orlando Furioso ed He-Man e per riconoscerti come eroe ti chiediamo come minimo di farti un po’ di mazzo per una giusta causa. In compenso però non serve che muori, anzi sai che ti dico, se sei vivo vali anche di più, perché se no rischi di passarmi da eroe a mito, dal tiggì alle magliette, come Jim Morrison o il Che.

Proprio in ragione di questa memoria cavalleresca il termine eroe ci aleggia sulle gonadi. Come nei licei si tende a promuovere tutti, come il numero chiuso perde di fronte ai ricorsi al TAR, mentre possono diventare santi anche i papi cattivi e le medaglie olimpiche e il numero dei ministri aumentano di continuo, così non è una sorpresa che anche i criteri per l’eroismo diventino più telegenici e accessibili.
Il problema è che se tutti possono essere eroi, si penalizzano quelli che lo sono davvero. Ma quelli sono pochi e la democrazia è il dominio delle masse, quindi nei paesi democratici come il nostro sono le masse a decidere e la soluzione giusta è quella che accontenta più elettori.

E le masse comunque tifano per i valori di massa, per le persone come loro. I migliori sono antipatici perché non sopportiamo di sentirci inferiori. Allora celebriamo chiunque muoia, ché magari un giorno potrebbe capitare anche noi di diventare eroi.