mercoledì 10 dicembre 2008

Laddove ci si diletta col trattar di calzature

Sarà che risaltano con i colori dell'iride, sarà che ci sto cadendo pur io, ma questa delle scarpe sta diventando un po' alla volta un’ossessione.
Giro da settimane per la Kalverstraat, cercando uno ed un solo irreperibile regalo di Natale e solo ora mi accorgo che metà dei negozi sono di scarpe. Scarpe colorate, Adidas, Onitsuka, Converse: sempre uguali di forma, di colori sempre diversi.
La stessa forma adattata per rapper tamarri da Foot Locker o per adolescenti fosforescenti nei negozi di marca. Per adulti responsabili disponibili modelli in pelle nero o marrone castagna. Per il figlio di Mario Rossi trovi le Converse rosse o blu, ma se vuoi puoi permetterti qualsiasi colore, perché Kill Bill ha sdoganato le scarpe colorate.

E ora l’ultimo grido, la Onitsuka le fa che somigliano alle Converse, a quando la restituzione del favore? Sempre nuovo, ma sempre ancorato alle radici, a quello che c'era già. Colore nuovo, ma rispetto per la forma originaria. È così che cambia la società? Forse che anche Barackobaldo si dovrà conformare a questa legge?

È il vecchio che torna nuovo, la casta delle scarpe. Le All Stars mi smottavano il pancreas quando avevo 9 anni. Le esibivano scucite già i Ramones, nel millenovecentosettantacippa. Poi pare che la gente abbia capito e che l’azienda sia stata sul punto di andare in crauti, per essere poi però acquisita e salvata con un’iniezione anabolizzante di marketing da parte dell'acquirente, che ha avuto la trillante idea di pagare gli Strokes per brandirle dal vivo. Su Wikipedia ci metterebbero un bel [Please verify source], ma a me vi tocca credermi sulla parola. E ora piacciono quasi pur a me, vent’anni mi ci sono voluti per adattarmici, ma ce l’ho fatta alfine.

Discorso parallelo per le Onitsuka, all’inizio buone solo per riconoscere i turisti italiani in giro per il centro di Galway, poi, quando ormai gli italiani non erano più gli unici ad indossarle, diventate anche per me un’ossessione, fino al punto in cui sto cercando il mio terzo paio (prima nere in pelle con striscine gialle, ora in jeans, verde chiaro con strisce e lacci bianchi, ma al negozio le ho viste viola shocking con striscia bianca o grigio opaco con striatura in viola lucido). E mica sono solo io. K è una ragazza di saldi principi, ha sempre disapprovato il mio primo paio, poi dopo un mese la trovo a Genova con quelle da donna, nere con motivo giallo e bianco.

E pensare che la qualità è infima. In caso di pioggia si scivola. E non solo se piove. Ricordo a Galway, in Eyre Square c’era una parte rivestita di pietra levigata, dove si rischiava sempre di cappottare. Chissà quanti turisti ci hanno lasciato le culatte. La suola poi è talmente fine che è come camminare a piedi nudi e dopo un paio di mesi la parte dietro il tallone finisce per venire a contatto con il suolo e si consuma fino a bucarsi. Così uno corre a comprarne un altro paio, uguali, ma di colore o materiale diverso.


Ora vedo che le sneakers, come le chiamano gli adolescenti fosforescenti, sono diventate oggetto cult. Un mese fa i primi libri fotografici (sorry, dovrei dire “book”) all’American Book Center, con tanto di presentazione. Poi il dilagare del fenomeno “Pimp my Sneakers”, dove uno porta le scarpe e gli artisti da marciapiede (street artist) gliele pimpano di gusto.
Risale a ieri la colonizzazione della libreria universitaria, che in vetrina esibiva in cartonato l'evoluzione delle Adidas dalle origini ai giorni nostri, sempre per presentare una nuova mirabile opera editoriale.
Nel negozio equo e pure solidale ho visto le Converse etiche, mentre designer meno equi e pure solidali si sbizzarriscono con le imitazioni. Il motivo caratteristico, le tre linee dell'Adidas, le righe intrecciate delle Onitsuka, vengono sottoposte a mille variazioni. Si sprecano le finte Adidas con due, quattro, mille linee, ci sono quelle con due righe incrociate a X, baffi della Nike e basette della Mike, N, V, Y , Z.

E così fra scarpine per bimbi, ibridi di "trainer" e "sneaker", scarpe da ginnastica e scarpette da finta ginnastica, versioni con caviglia alta, basse da ragazza, semiciabatte, stivaletti (!), uno fa della sociologia un gioco studiando il perpetrarsi della variazione di un unico modello.

martedì 9 dicembre 2008

Oi nemo a veder i Deerhoof

Stavolta non sono il solo ad essere da solo. Penso che tutti gli estimatori dei Deerhoof siano soggetti alla mia stessa sindrome, quella da allergia verso il gruppo da parte di tutti gli amici.
Provate a farli ascoltare ad amici e conoscenti e se passano indenni oltre alle basi veloci, dissonanti e frammentarie, ci pensa sicuramente la voce melodiosamente stridula della giapponesina portatile a farli fuggire.

The human version of Hello Kitty, scrive l’Amsterdam Weekly, e sembrerebbe una metafora triste e stereotipata, se non corrispondesse perfettamente alla verità. Più bassa del suo basso a violino stile Paul McCartney, la Satomi è simpatica come uno di quei personaggi dagli occhi enormi.

“’Cazzo c’entra la statura?”, direte voi. Beh, c’entra perché la sua voce è quella di una che è bassa, ma che ci tiene a farsi sentire, altre scuse mi sa che non ne trovo. Comunque è proprio bassa.

Invece Greg Saunier è alto come un pilone dell’ENEL. È il leader indiscusso, che porta la batteria in primo piano sul palco, esegue di persona saluti e ringraziamenti alzandosi dal sediolino, raggiungendo Hello Kitty e chinandosi sul suo microfono.

Attaccano con Milk Man e si capisce subito che sono un gruppo che si esprime al meglio sul palco. Anche Saunier lo sa e per tutto il concerto ha il sorriso di chi conosce il proprio valore, come quei ragazzini americani che crescono con i genitori che gli fanno ripetere davanti allo specchio "io sono speciale".

Ma nonostante ciò è simpatico, perché si contorce sulla sua batteria fragile come un cestista in una Y10, fa smorfie di concentrazione e fatica e aggiusta continuamente la posizione del suo sonoro ambaradan. Una volta tira perfino le pelli dei tamburi. Si vede che la ama, la sua batteria.



E va bene così, perché il gruppo è costruito attorno a lui, con i due chitarristi che sembra stiano facendo una gara per servire al meglio il loro signore. Una potenza enorme. Tutte le canzoni, dal vivo, assumono una carica stratosferica, tanto da farti pensare che avevi sbagliato a giudicarle. Non solo perché pompano di più, ma addirittura la qualità è migliore.

La batteria detta i tempi, le chitarre si sfidano fra arpeggi da ritiro della patente e riff stralunati, con parti melodiche cucite qua e là, giusto per dare un aiutino all’ascoltatore. Per fortuna c'è la Satomi a ricordare ai ragazzi che non sono i Melt Banana e canta con la sua voce fragile, che è la fortuna, ma soprattutto la maledizione, della band, perché riesce a renderli unici, ma soprattutto indigesti per le masse.

Ma proprio per questo l’atmosfera al Melkweg è più familiare, come spesso accade ai concerti dei gruppi meno noti. Familiare e rarefatta, visto che la sala si è riempita in modo sospettoso solo a dieci minuti dall’inizio. Talmente familiare che il leader del gruppo spalla può permettersi di cantare in mezzo al pubblico, dopo aver cantato il primo pezzo nascosto, per poi sbucare dietro la mia schiena. Bravi i Parenthetical Girls, electro rock con un cantante che è la versione alternativa di Mika e ha tanta, tanta voglia di mettersi in mostra, con colpi di teatro come la scena finale, dove tutti i membri del gruppo terminano uno alla volta con il suonare un elemento della batteria.

giovedì 4 dicembre 2008

Tutti gli dEUS del Paradiso

Ieri sera ho finalmente visto i dEUS. Finalmente perché ho comprato il biglietto a luglio. Suonano per tre giorni consecutivi al Paradiso e i biglietti sono andati come il pane, o come l’ultimo modello dell’iPhone.
Questo è il primo della mia serie di concerti in solitaria, che si concluderà sabato con i Deerhoof. K non è venuta, dice che dei dEUS le piace solo Worst Case Scenario.
Considerando che non ha mai sentito In a Bar Under the Sea, è difficile darle torto.

I primi due album, che sono proprio quelli che ho appena nominato, sono diversi dagli altri. Melodie articolate intrecciate con parti più rock, ma intrecciate in modo nervoso, in modo da darsi il cambio al momento più inatteso. Prendete Via, che parte come una canzone per chitarre, per poi interrompersi al culmine con un ponte che non c’entra niente, con gli strumenti che si bloccano, anche se per due secondi la chitarra si ribella. Poi tutto ricomincia.
C’è del jazz: oltre al violino, che i dEUS hanno sempre avuto in formazione, ci sono violoncelli, xilofoni e strumenti più classici, che addolciscono le tinte. C’è una chitarra che sa di Marc Ribot. C’è del cubismo, sia sulle copertine dei dischi che negli spigoli delle melodie e nei testi; surreali, ma senza troppa facile serietà, più degni di Picasso che di Ernst o Tanguy.

Poi due dei chitarristi se ne vanno, uno per creare i Zita Swoon e l'altro per suonare jazz sperimentale. Rimane il leader Tom Barman, ma viene a mancare l’ala eclettica. The Ideal Crash e il nuovo Vantage Point sono dolci, piatti, normali. Senza difetti, ma soprattutto senza pregi. Per fortuna fra i due esce Pocket Revolutions, un disco dilatato, di canzoni in crescendo, roba che piace agli appassionati di post punk. Freddo fuori, ma caldo a sentirlo bene.

E allora andiamoceli a vedere, anche da soli. E lasciatemi dire una cosa banale, ma da soli si notano meglio i particolari. Ad esempio sapevo che il Paradiso in un’incarnazione precedente era stato una chiesa, ma non ricordavo le vetrate nell’abside ristretta, proprio dietro il palco, che per giunta vengono illuminate a ritmo di musica durante il concerto, in un lampo di gusto per l'atroce totalmente nordeuropeo. E non avevo notato le navate con piloni in ferro e decorazioni tipo stazione ferroviaria. Una chiesa in stile Art Deco non l’avevo mai vista, ma l'idea non sembra cattiva come può sembrare.

E comunque non sono l’unico che è arrivato da solo. Una volta però sarei stato in grado di attaccare discorso con chiunque, ma qui non si usa e uno stupido pudore mi blocca, così mi accontento di stringere un’alleanza formale mettendomi vicino ad un altro ragazzo in solitaria, che per lo più assomiglia alla versione magra del mio amico Philipp, il primo a convincermi ad ascoltare i dEUS.



Stendo un pietoso doppio velo sul gruppo spalla, gli Expatriate, australiani vestiti da Vasco che cantano canzonette che fanno “baby I love you” e roba simile per far colpo sulle ragazze e vengo direttamente ai dEUS, che attaccano con i brani più melliflui degli album che mi piacciono meno.
Sul palco non c’è traccia degli archi dei primi dischi. Per i pochi pezzi vecchi usano tracce registrate e il tastierista/violinista sembra confuso e si accontenta di strimpellare le corde del violino senza archetto. La qualità del suono è infima ed è perfino impossibile capire cosa dice Tom Barman quando si rivolge al pubblico. Mauro Pawlowski, nonostante il suo nome che sembra fatto apposta per un musicista, stona spesso, così come il vecchio Tom.

Poi a metà concerto le cose cambiano improvvisamente. Escono i pezzi vecchi e con questi la voglia di suonare. Ci sono Roses, Serpentine e infine arriva Suds & Soda, che è da anni uno dei primi tre titoli che sparo quando mi si chiede quali sono le migliori canzoni di tutti i tempi, praticamente senza tastiera e con una parte che non capisco se è un’improvvisazione giocata su rumori e silenzi o un vuoto da assenza di assolo di tastiera.



Ma poi, a cosa serve suonare bene se si riesce già a comunicare qualcosa? Il pubblico è entusiasta e mi lascio coinvolgere pur io.

lunedì 1 dicembre 2008

Lessons learned from Berlusconi II to Berlusconi III

Sempre in vena di filosofia da €0,99, riconsideravo tempo fa il mio status di italiano da due anni e mezzo all’estero.

Lasciai il patrio suolo alpestre il 23 aprile 2006. Era tempo di grandi eventi. Il governo Berlusconi stava finendo un’intensa legislatura e si era preparato alle elezioni con una formazione che il boss avrebbe calcisticamente disapprovato: un albero di Natale con il suddetto come prima punta e Casini e Bossi, reduce da un lungo infortunio nei panni di mezzepunte arrugginite e poco affiatate. Dietro di loro una mandria di difensori veloci a marcare attentamente a uomo, per poi ripartire in attacco a sostegno del bomber appena possibile.

Dall’altra Prodi era tornato da una serie di stagioni all’estero instaurandosi subito come regista di un attento catenaccio e ideatore di un mercato scoppiettante, che aveva registrato l’acquisto dell’attaccante Bertinotti e del discusso Mastella, spesso accusato di sapersi esprimere al meglio solo giocando in casa (nella provincia di Benevento).

La compagine sinistrorsa aveva accumulato subito un cospicuo vantaggio in classifica, spinta dall’entusiasmo per il ritorno del vecchio capitano, per poi asserragliarsi attentamente nella propria area. Gli altri avevano passato il resto del campionato ad attaccare, avvelenando l’aria per i tifosi delle due compagini, sempre più divisi ad ogni parola del bomber azzurro, che nel corso della partita decisiva era andato molto vicino al cartellino rosso dopo aver insultato la curva dei tifosi ramettati.

Ora ci sto scherzando, ma ai tempi l’atmosfera non faceva affatto ridere. Ne succedeva ogni giorno una, nei bar si parlava solo di politica da bar e la maggior parte di noi attendeva il giorno delle elezioni come a Roma ai tempi della guerra avevano atteso i cioccolatai a stelle e strisce.

Tanto più che Prodi aveva poi sì vinto, ma proprio per un pelo, e sarebbe stato soggetto alle usme dei rappresentanti delle varie sfumature del “non ci sto”. Così stavano le cose al momento della mia partenza.

Poi nel giro di tre mesi mi era quasi venuta voglia di tornare a casa. Prodi teneva, il nuovo presidente della repubblica era un ex partigiano, la Juve era passata dallo Scudetto alla Serie B ed eravamo campioni del mondo. Battendo la Francia e trasformando l’addio di Zidane in estrema unzione.

Tempo due anni però eccoci da capo. La Juve torna in A, Le prendiamo dalla Francia nella prima partita dopo il Mondiale e soprattutto torna l’Innominabile.

A queso punto però avevo iniziato a concepire la politica come nel resto d’Europa, come una cosa piacevolmente, confortevolmente, rinfrescantemente noiosa. Niente imitazioni in televisione, niente urla, opinionisti preparati e comunque sempre chiedere un’opinione a chi è in grado di esprimerla, non ai passanti o a Crepet. Ma soprattutto la prima. L’assenza delle imbarazzanti imitazioni della Guzzanti e degli epiteti di Psicogrillo implicano già una riduzione significativa dell’esposizione mediatica del nostro odiato eroe.

Niente “I am Italian and President Berlusconi in NOT speaking in my name", ché tanto lo sanno tutti che non lo abbiamo votato e comunque nel loro paese a votare ci va sì e no il 50% degli aventi diritto e vi assicuro che se il nostro president non sanno neanche chi sia.

La ricetta è semplice. Basta non votarlo. Per il resto fai finta di non vederlo, proprio come ti dicevano di fare i genitori con il ragazzino bullo nella cassetta della sabbia.

E magari, prima di lamentarti che sono tutti ladri, smettila di stracciarmi metaforicamente il cazzo e vai a pagare quella multa, invece di dire che vivi in un paese di ladri e i caramba se la prendono solo con chi non è in grado di difendersi.

Questo ho imparato, ma forse no, visto che io che a ste cose ci tengo tanto l’ultima volta che sono stato dal barbiere, quando il buon Umberto mi ha chiesto di fare una ricevuta sola fra me e mio fratello, non sono stato in grado di dirgli di no. Io che affitto appartamenti per le vacanze in Val di Sole per conto di uno che è costretto a farlo in nero perché deve pagarsi ancora le multe per l’evasione della sua attività precedente.

mercoledì 26 novembre 2008

Scheletri nell'armadio

È il momento delle confessioni. Dal punto di vista musicale non credo di avere grandi scheletri nell'armadio, a meno che non mi vogliate rinfaccaire l’ossessione per i Queen di un ragazzino di 12 anni.
La mia personale croce è il fatto che se ho superato la mia seconda ossessione, quella per i Beatles (che ora tra parentesi non riesco più a metabolizzare), lo devo soprattutto al duo di critici di Repubblica Ernesto Assante e Gino Castaldo, che per me è praticamente indivisibile. Infatti avrò cura di menzionarli sempre insieme, non sapendo distinguere le gesta dell’uno dagli atti dell’altro.

Magari definendoli come scheletri nell’armadio ho calcato leggermente la mano sul valore del duo. Non si può negare che abbiano letto il loro bravo sussidiario. Non per niente la mia storia ha inizio con la loro Storia del rock americano in 12 CD, pubblicata da Repubblica verso la metà degli anni Novanta e gentilmente sbobinata (siamo in era pre-masterizzazione) dal caro Daniele (ricorderete il già menzionato amico riservato che andrebbe nominato per cognome, ma ci tiene alla privatezza).
Devo ammettere che la portata dell’opus è piuttosto ambiziosa e mentre ai tempi mi lamentavo dell’esclusione di intoccabili del calibro del vecchio Jimi, ora sono grato di aver avuto modo di ascoltare gente come Count Five, Fugs, Dead Boys, Violent Femmes, Wall of Voodoo e Morphine, giusto per buttarvi là qualche nome che fa ganzo.



I 12 CD li ho affrontati in lenta successione, quasi cronologica. Sono partito dal rock californiano (Beach Boys sì, ma anche Spirit e Iron Butterfly), amato il disco sui cantanti folk (senza Bob Dylan!), passando per i due CD sugli anni Sessanta e le avanguardie di Gnuiorche, per terminare con anni Ottanta e Novanta.

I dischi sugli anni Sessanta sono capolavori: niente hippismo mieloso, ma prevalenza del lato oscuro, con Zappa, Box Tops, Count Five, Canned Heat, Quicksilver Messenger System.
Quello sulle avanguardie poi mi ha aiutato a realizzare che non è di virtuosismo che vive la musica, ma di filosofia e atti degli apostoli.

Il duo conosce bene la storia ed è bravo a recitarla. Non so se è per merito o a causa loro che tendenzialmente, più della musica e del suo ritmo, apprezzo le persone che ci stanno dietro e quello che mi vogliono dire. Ma occhio all’avverbio “tendenzialmente”, che suona male e se non avesse la sua importanza non lo avrei mai scritto.

Assante e Castaldo sono guide perfette per uno che vuole conoscere la storia della musica. Ricordo sempre con piacere quando leggevo su Musica di Repubblica le loro recensioni sui tesori nascosti, album in conflitto con le masse come The Modern Dance dei Pere Ubu.
Poi Musica è stato sepolto, probabilmente anche a causa loro.

I nostri eroi infatti non hanno la minima competenza per quanto riguarda la musica moderna. Ci hanno provato, ma non ce l’hanno mai fatta. Li ricordo indicare i Mower o gli Oi Va Voi come la salvezza del rock moderno. C’era un periodo nel quale le due righe del “Raccomandato se vi piace” (esercizio pericolosissimo!) in fondo ad ogni recensione di qualsiasi cosa di vagamente elettronico indicava sti cazzo di Oi Va Voi. E poi si sono dati al mainstream, James Blunt, Alicia Keys e là Musica ha chiuso, compianto da nessuno, anche perché a quel momento erano tutti stufi di sentirsi ripetere i soliti nomi. Oltre ai fenomeni temporaleschi come Oi Va Voi e James Blunt ricorrevano infatti fin troppo spesso i nomi di Springsteen, Prince e Stevie Wonder. Rispetto per i signori, ma spesso pareva che nel mestiere tutto facesse capo ad un membro di tale colorita trimurti.

Ora immagino che i due scrivano su Icselle, il patinato per noiggiovani della casa di Repubblica, che ho sfogliato due volte, per poi fuggire inorridito di fronte a tali e tante esplosioni di acne.
Uno tiene un blog sul sito di Repubblica, credo Assante, ci sono capitato un paio di volte, in una delle quali ricordo si parlava di due band che avrebbero salvato il rock nel corso dell’anno a venire (era gennaio e i nomi non li ricordo). I commenti erano tanti e tutti piuttosto volgari nei confronti dell'autore o di altri partecipanti rei di non capire un cazzo di musica.

Gli amici si sa, a volte imboccano il bivio sbagliato, altre volte si schiantano nello spartitraffico, non sapendo da che parte andare. Altre ancora, se sono fortunati, si fermano in mezzo alla strada a consultare la cartina, come i turisti all’entrata della superstrada di Moncovo.
A me il duo piace ricordarlo così, ben conscio della strada fatta, ma in attesa di capire dove andare.

giovedì 20 novembre 2008

Ho visto i Sigur Rós dal vivo, e anche tre ragazzini olandesi

Volevo scrivere del concerto dei Sigur Rós, ma preferisco quasi parlare di un concerto di un gruppetto olandese che ho visto venerdì sera.
Ho già scritto meno di una settimana fa che non è possibile giudicare un concerto secondo criteri oggettivi e il discorso vale a maggior ragione in questo caso.

Il fatto è che avevo una voglia matta di rivedere i Sigur Rós. Ed è stato un grande concerto, mille volte meglio di quando li avevo visti cinque anni fa. Stavolta hanno organizzato tutto in grande. Senza gli archi degli Amina, che solitamente li accompagnano, ma con maggior talento e una certa cura nella scenografia. Uno schermo con proiezioni video e telecamere puntate sugli strumenti più strani, piogge di coriandoli e il buon Jónsi che brilla con il viso ricoperto di lustrini.

Che poi uno cerca di evitare di dire che sembrano elfi, perché è un po’ la cosa più scontata che si possa fare, ma sembra che loro ci tengano proprio.

E attaccano con Svefn-g-Englar, che è quella che fa “ici-ùù”, ed è un’emozione. Suonano un paio di pezzi di Von. Poi mi perdo. Cerco disperatamente di raccogliere la concentrazione, ma non ce la faccio. Comincio a pensare ad altre cose, poi mi risveglio, cerco di seguire, ma dopo venti secondi sono perso di nuovo. E mi rendo conto che è un peccato, ma ormai sono perso. E ci sanno fare i Sigur Rós, i pezzi suonano diversamente dalla versione su CD, o almeno così credo io, ma c’è chi non è d’accordo. Mi rendo conto di starmi perdendo qualcosa di grande. K è estasiata, ma io sono perso. Inutile, le melodie sono lente, sono un gruppo da gustare da seduti.



Forse non avrei dovuto sprecare preziosi minuti di concentrazione con il gruppo spalla, i For a Minor Reflection, che confermano a voce il mio timore che siano sul palco solo in quanto islandesi (anche il cantante ci rivela che “ai nostri concerti fino a ieri venivano 20 persone”). Bravi, per carità, ma sono una copia degli Stone Martens, e il loro post rock dilatato e in crescendo richiede una concentrazione che dovrei risparmiare per dopo.

Forse invece è normale, la musica dei Sigur Rós è fatta per perdersi. Bah, mettiamola così. Però venerdì… Magari detta così suona come se preferissi un gruppo di dilettanti ai discendenti diretti di Odino. In realtà no, l’ho già scritto che vedere i Sigur Rós dal vivo è sempre un’emozione. L'unica differenza è che venerdì c'erano le chitarre. Anzi no, pensandoci bene non c'erano chitarre, ma solo basso, batteria e l’imitazione di un organo Hammond.
E già qui ammetto la mia parzialità, per me il suono dell'Hammond è nettare d'ambrosia. Comunque quando scrivevo che c’erano le chitarre intendevo che c’era elettricità, energia, cattiveria, rock.
E non voglio neanche dire che i Sigur Rós dovrebbero suonare più pesante, anzi. Penso solo che vadano gustati in pieno relax, da seduti e in piena concentrazione. E dopo una giornata di lavoro, quando ci si avvicina ai trenta, l’unico modo di sentirsi vivi è dedicarsi a qualcosa che pompa.



E mi sa che conta anche l’effetto sorpresa. Degli islandesi conoscevo già tutto, mentre il gruppo di venerdì, che mi rendo conto di non aver ancora chiamato per nome (si chiamano Daily Bread), hanno meno di vent’anni e vengono dalle campagne della Frisia.
Ma di questo non dovrei stupirmi: non serve essere più di tanto forbiti per capire che da quando esistono gli mp3 la musica è arrivata anche negli angoli più remoti, come la Frisia, o la Val di Non, per fare un esempio casuale.

E poi anche il luogo ha la sua importanza. Il Nieuwe Anita è uno squat di assoluto pregio. Si entra in una stanzina che è un soggiorno, poi c’è la sala fumatori e il palco al piano inferiore.
Ci si sente a casa. Invece i Sigur Rós li hanno fatti suonare alla Heineken Music Hall. Un palasport senza sport, in piena zona commerciale. Un po’ di rispetto imporrebbe l’organizzazione di un simile evento in un teatro. O mi sbaglio?

Comunque al Nieuwe Anita c’era una ragazzina timida e bruttognola che ce la metteva tutta, dibattendosi fra Hammond, microfono e cornetta del telefono (amplificata!), mentre il suo batterista si fermava o cambiava tempo quando meno ce lo si aspettava.
“Sexy garage dance” dichiarano i rampolli, facendo un riassunto banale quanto verace dell’andazzo generale delle cose nel campo della musica moderna. Sesso, suoni ruvidi e ballabilità: voce, batteria, basso. Ma niente fighettismo da gruppetto inglese, invece il sudore e la convinzione di una band americana. Unica concessione al glamour, il fatto che a fine concerto non si vendano CD, ma solo magliette fluorescenti.

Eh sì amici, la morale della favola è questa: un po’ di sana energia cruda fa bene all’organismo. Ma la melodia fa bene al cuore, tant’è vero che il ricordo del concerto dei Sigur Rós migliora ogni giorno e credo che domani comprerò i biglietti per i Gotan Project.

mercoledì 12 novembre 2008

L'alcolismo di Saviano

È bello vedere che tutti stanno parlando di Saviano. Io su di lui posso aggiungere una cosa sola: ha praticamente la mia età.

Ho cercato di leggere ogni suo articolo, aprire la sua mente e sfogliarla, come se fosse un giornale appallottolato, pensando sempre che a giorni lo avrei potuto perdere.
Rubandogli le parole ho cercato di spiegare la camorra ai miei amici stranieri evitando i luoghi comuni del settentrionale che parla del Sud e cadendo di sicuro in errore più volte.

E ora all’improvviso mi sembra di capire. Negli ultimi mesi ho parlato molto con qualcuno che stava cercando di eliminare l’alcol dalla sua famiglia. La birra nel Nordeuropa si sa, è una passione. Nei paesi piccoli poi non c’è molto da fare e spesso bere è l'unico hobby. Così l'alcol ha reclamato la sua parte e anche oggi il maschio di famiglia si sente in dovere di manifestare la sua virilità con cadenza settimanale.
E per favore, evitiamo i discorsi su come noi italiani siamo superiori in questo. Anche Casadei cantava “Non beve, non fuma, ma che uomo è”.

Ma fatemi finire. L’alcolismo entra discretamente e quando diventa normalità non ci si accorge neanche della sua presenza. Viene dato per scontato, come la sveglia alle 7, i doveri coniugali o il campionato di calcio. E tutti credono di vivere felici e non pensano neanche che potrebbero avere un problema, semplicemente perché non conoscono la vita senza problema.

Ma il problema esiste, come esiste anche chi si accorge che esiste. E questa persona non ha vita facile. Viene considerata anormale, ingrata per il suo prendere le distanze dalla famiglia, capricciosa, debole, anche se il solo fatto di allontanarsi dai padri implica un coraggio che non accetta compromessi.

Spesso questa persona è donna. Le donne sanno porsi obiettivi e impegnare un’intera vita per raggiungerli. Saviano invece è uomo. Un femminiello, pare scrivano sui muri di Scampia, forse nel senso che ha gli attributi come solo una donna può avere. E anche lui vive in un sistema alcolizzato fino alla cirrosi, talmente abituato al cancro che sono le cellule sane ad essere considerate malate.

E occhio comunque, perché il cancro ha mille metastasi e anche noi crediamo di vivere una vita normale.

domenica 9 novembre 2008

Nel quale mi muovo agevolmente nel mondo della musica live

Recensire un concerto secondo criteri oggettivi non è solo impossibile, ma è anche un’enorme cazzata. Cazzata perché cazzata è non solo il tentativo di giudicare obiettivamente una cosa non logica come la musica, ma anche e forse ancor di più il fatto stesso di provare a farlo.

Si può dire “hanno suonato bene”. Ma pensandoci bene, quanto influisce veramente la qualità dell’esecuzione in un concerto? Per i virtuosisti magari anche tanto, ma per me, e mi permetto di metterci anche la maggior parte di voi, o miei uno lettori, nisba.
Dico che ci metto anche voi perché ho trovato un forum con interventi su un concerto che ho visto recentemente, e una vasta disquisizione sull’acustica ha portato alla sola conclusione che tutti avevano un’opinione diversa. Ne deduco quindi di non essere l’unico a non averne un’idea.

Gli ostacoli all’obiettività sono tanti e benvenuti. Il luogo, la gradazione alcolica del sangue, la stanchezza, la compagnia, la familiarità con i dischi dell’artista. Un concerto di musica classica, se visto in uno stadio, con dieci amici e parecchia birra in corpo, non può che far schifo.

Quante ovvietà, no? Perdonatemi. Mi serve solo per parlare del concerto di venerdì permettendomi di non esprimere un parere che non ho e che non mi interessa avere. O meglio, il mio parere ce l’ho, decisamente positivo, ma mi rendo conto che riflette più la situazione che la prestazione.

La verità è che se non fosse venuto Tomas mi sarei divertito la metà. Tomas è un amico dell'Erasmus, l’Erasmus è finita quasi sei anni fa, ma Tomas e io ci incontriamo ancora più di una volta all’anno, ovunque l’uno o l’altro si trovi al momento. Ci siamo ivisti a Colonia e io sono andato a trovarlo a casa sua in Svezia, mentre lui è venuto a trovarmi dove ho studiato, poi in Toscana, ad Amburgo, a Dublino e ora ad Amsterdam.

Un ottimo amico: uno che sa usare il cervello, ma non si prende mai troppo sul serio. Una dote che spesso a me manca. Uno col quale posso passare una giornata a parlare, oltre che un uomo dalle mille storie. Tanto più stavolta, dopo che è stato sulle prime pagine dei giornali svedesi dopo aver recitato nel ruolo maschile in una storia di mobbing, sesso e sindacati. Roba che in Italia ne basta la metà per essere rispettato, riverito ed invitato in qualche isola piena di brutta gente.

Quando Tomas mi ha detto che sarebbe venuto a trovarmi ai primi di novembre, gli ho risposto che per quel fine settimana avevo già i biglietti per un concerto di un gruppo electropop brasiliano e lui, appassionato di Rufus Wainwright e Billy Bragg, nonché ottimo musicista, ma sempre aperto alle novità, soprattutto quando suonano strano, ha accettato senza pensarci un secondo.

E poi è venuta anche Aurélie, la mia nuova collega francese, che non ce la faceva più a restare da sola nella casa offertale per il primo mese dalla ditta, nella bucolica Ouderkerk aan den Amstel.

E per una volta conoscevo bene le canzoni. I due album dei CSS sono stati per un paio di settimane la colonna sonora perfetta per andare a lavorare in bici. Tant’è che mentre suonavano mi veniva in mente il tratto preciso del tragitto nel quale quella canzone passava, visto che, mettendo sempre l’album quando parto da casa e percorrendo ogni volta lo stesso tragitto, i pezzi successivi iniziano bene o male allo stesso punto.

E la birra era buona. Tomas ci teneva a provare quelle belghe per una volta che era libero dagli stretti vincoli antialcolici scandinavi.

Quindi l’atmosfera era quella giusta. La sala grande del Melkweg era illuminata stile abat-jour di una luce azzurrognola, rilassante e quasi marina. Il gruppo ha suonato solo un’oretta, ma è stata un’ora piacevole, come può essere solo un’ora di musica semplice e ben ritmata, quando si conoscono tutte le canzoni.

Una delle cose che mi piacciono della musica è che anche se uno fa un errore mentre suona, come ne hanno fatti tanti i CSS, l’esibizione non risulta per nulla compromessa. In una gara di pattinaggio artistico basta uno svarione per compromettere la prestazione. In un concerto no. Niente tensione. L’importante è il risultato complessivo. Mi fanno ridere quelli che odiano il calcio e poi giudicano un concerto secondo i criteri puramente sportivi della prestazione. La musica è soggettiva. Puoi aver fatto tre gol per me e magari zero per il mio vicino.

Cosa ricorderò di questo concerto? Che alla fine Aurélie ha perso l’ultimo bus e abbiamo fatto le cinque per farle compagnia, come ai buoni vecchi tempi. Che Tomas e io abbiamo promesso di rivederci sulla Transiberiana. E una delle caratteristiche di Tomas è che ama trasformare in realtà le idee più strane.

domenica 2 novembre 2008

We're a happy family, we're a happy family, we're a happy family, me & my mum and daddy


Cosa fareste se vostro figlio fosse una rock star? Intendo una di quelle vere, quelle tipo sesso, droga e rock’n’roll. Sareste più felici per il vostro pargolo che si realizza o preoccupati per la sua aspettativa di vita?

Non è una domanda facile. I genitori sono stati eliminati dalla biografia del rock. O meglio, c’è la mamma di Elvis, per la quale il figlio ha inciso il primo singolo, la mother Mary di Paul McCartney, quella che dice words of wisdom tipo “let it be”. Ma gli altri?

Che ruolo ingrato, il genitore della rock star. Uno si fa mille grattacapi per le sorti del figlio eroinomane per poi venir completamente epurato dalla sua vita.
O almeno così sembra.
Leggendo il qui già pluricitato "Please Kill Me: The Uncensored Oral History of Punk" ci si accorge che non solo i genitori hanno un ruolo importante nella vita dei figli famosi, ma la loro importanza è maggiore di quanto si possa credere.

Prima di leggere cotanto tomo ero convinto che tutti i musicisti provenissero da realtà degradate, povertà e genitori assenti. Gente che ha dovuto imparare presto a fare tutto per conto suo. In realtà così non è. Vi siete mai chiesti dove un musicista che non lavora perché ripudia la società abbia trovato i soldi per comprare la Fender o la batteria?
La risposta è: dai genitori. La verità è che molti dei musicisti sulla scena gnuiorchese erano bambini viziati (occhio: molti, non tutti). Gente che la famiglia alle spalle non solo l'aveva eccome, ma che non disdegnava di farsi lavare le mutande o partecipare al pranzo domenicale.

Maureen Tucker ricorda come la madre continuasse a sostenerla finanziariamente mentre lei rifiutava di lavorare per suonare la batteria nei Velvet Underground. Così racconta come durante la riunione del gruppo nel 1993 abbia finalmente deciso di portare la madre (e i cinque figli) in tournée in Europa, per ringraziarla del suo supporto.

Ma non tutti sono così riconoscenti. Diversi patemi d'animo deve aver sofferto la signora Asheton di Ann Arbor, madre di Ron e Scotty degli Stooges, che ricordano la maleducazione del vecchio Iggy, che quando gli capitava in casa era solito aprire il frigo e servirsi liberamente, aprendo cartoni di latte e bevendo direttamente dalla bottiglia, o assaggiando ditate di torte appena sfornate.

E cosa avrà detto la madre di Jerry Nolan dei New York Dolls quando il figlio le ha chiesto di far alloggiare l’intero gruppo a casa sua durante una tournée in Florida? Cosa avrà pensato quando Jerrino, luce dei suoi occhi, ha cominciato a sparire nel cesso con quel capellone che si faceva chiamare Johnny Thunders, per poi tornare in stato visibilmente alterato?

Probabilmente è vero che uno per diventare famoso deve avere un grande ego, ma come si può trattare così la propria mamma? Quella che ti ha comprato la chitarra perché una volta hai preso un bel voto e non ti ha mai rinfacciato di essertela cavata con poco?

È rinfrancante scoprire che almeno la brava Moe Tucker ha ripagato la sua mamma portandola a cena a Praga con Lou, i ragazzi e Vaclav Havel, l’uomo della rivoluzione di velluto. Ma gli altri? Anni di tour in giro per il mondo e neanche una cartolina. Neanche il modellino della Torre Eiffel.

Meditate fratres, e quando sarà il vostro turno, pensate alla famiglia.

giovedì 30 ottobre 2008

Italians


La ragione per la quale ho lasciato voi innumerevoli fan in solitudine per un po' è che mi sono messo a fare le cose sul serio.
Riconoscendo che le mie scarse doti di continuità mi impediranno di scrivere il mio primo romanzo ("Tutti i miei coinquilini") e ammettendo le mie scarse doti letterarie, ma non volendo comunque rinunciare a scrivere, mi sono messo a buttar giù racconti brevi.
In particolare, ho scritto un racconto per il concorso per la chiusura di Italians. Ci ho messo del tempo, l'ho letto, riletto, corretto, poi al momento di inoltrarlo ho scoperto che il limite non era 2000 parole, ma 2000 lettere. Accorciarlo era impossibile, così ho deciso di lasciar perdere e basta. Tipico, tipico, tipico.

Ok, ammetto di aver saltato un paio di passi nella spiegazione, quindi vediamo di riparare.
Cos'è Italians? Non ho idea di quanto noto sia in Italia, ma fra gli italiani all'estero si tratta di una specie di passaggio obbligato, anche per chi non ama Beppe Severgnini, il giornalista del Corriere che lo gestisce. Si tratta appunto di una rubrica del sito del Corriere della Sera, una specie di variazione sul tema del forum e del blog. I lettori mandano messaggi di poche centinaia di parole, su qualsiasi argomento di attualità o di non attualità, e ogni giorno ne vengono scelti dieci, alcuni dei quali vengono commentati dal giornalista in persona. La cosa bella a mio parere è il fatto che non sono ammessi commenti e repliche, così uno, invece di leggere mezzo post, inserire un commento offensivo o una cazzata giusto per manifestare la sua esistenza, è costretto a leggere pochi interventi selezionati e se proprio vuole può scrivere all'autore del paio di righe una bella e-mail con motivazioni e demotivazioni.
Già, perché qui niente Puffetta86 o peppe_da_molfetta, qui ci sono nomi, cognomi e indirizzi e-mail.
Come traspare dal nome, la rubrica è indirizzata soprattutto agli italiani all'estero. Spesso si trova qualche intervento volto all'autopromozione (soprattutto verso se stessi), del tipo "sono un Managing Director che abita a Londra dopo una laurea a Harvard e ho dei problemi con la mia personal shopper", ma non solo. Da Italians ci passano studenti, pensionati, turisti sessuali e perfino tanta gente che ancora abita in Italia. Recentemente si parla delle presidenziali americane, ma anche di stage malpagati nel trevigiano e donne che non capiscono gli uomini. Oltre ovviamente al caso dell'automobilista che si lamenta di aver preso la multa quando al mondo c'è chi commette reati ben più gravi, che è sempre un classico e torna periodicamente.

Come già annunciato, non tutti amano Severgnini. Se chiedete a me, scrive cose molto intelligenti, ma ha un gusto per giochi di parole e battute decisamente nerd, che ne tradisce le origini altoborghesi. Ma pazienza per le origini, uno mica se le sceglie, e poi, che c'è di male ad essere figlio di un notaio? Tutta invidia la vostra.

L'importante è che quello che scrive sia intelligente, e come già detto, per lo più lo è. Ed è anche uno decisamente al passo con i tempi, uno che conosce internet e sa ad esempio che mentre i giornali erano tutti a parlare di Second Life, usando parole care a noi giovani come "da sballo" e "lato b", tutti si iscrivevano a Facebook (già da mesi, fra l'altro. In realtà non conosco nessuno che frequenti Second Life. Tutti quelli che conosco, io compreso, si sono fermati alla complicata fase di iscrizione).

Severgnini poi è uno che gira. Proprio grazie alla sua estrazione sociale è stato uno dei primi italiani a poter usufruire di una vacanza-studio in Inghilterra, per poi studiare e lavorare a Bruxelles e negli Stati Unti. È proprio questa dimensione cosmopolita a farlo diventare il santo protettore degli italiani all'estero, anche di quelli che non lo amano.

E quelli che non lo amano sono tanti e qualche volta anche lui si diverte a pubblicare i soliti sempliciotti che vengono fuori con i loro "scommetto che non mi pubblicherai perché parlo male di te" o "sei il solito comunista". Che poi come fai a dare del comunista ad uno che è stato nel vivaio di Montanelli? Ma si sa che oggidì per essere comunisti basta dare contro a Lui. E molta gente non capisce che guardando l'Italia da fuori, senza due fette di San Daniele davanti agli occhi, è impossibile avallare Lui.
Su Italians si parla spesso di Lui. Severgnini non nasconde la sua scarsa passione per il personaggio, ma pubblica spesso lettere di Suoi grandi sostenitori. Lettere che fra l'altro sembrano portare sempre le stesse firme.

Così fra casalinghe di Tortolì e affaristi della City sono passati quasi dieci anni. Dieci anni nei quali il boss ha visitato le numerose comunità di Italians all'estero, organizzando ogni volta una pizza. Quando ero in Irlanda mi sono perso quella di Dublino e ora ho toppato anche quella de L'Aia, organizzata quando io ero in Olanda da 3 giorni.

Per il decimo compleanno della rubrica sono state da tempo annunciate sorprese. La prima è più che altro una sor-presa per il culo: la chiusura del forum. E ci sta. Dopo dieci anni a criticare l'immobilità della nostra società, un minimo di coerenza suggerisce l'autopensionamento.

La seconda sorpresa è un concorso di racconti brevi su un'ora della vita di un Italian. Proprio quello per il quale il vostro fedele scribacchino ha scritto 2000 parole invece di 2000 caratteri.
Ore e ore buttate nel cesso. Così ho detto, dai, pubblichiamolo sul blogghettino del cazzo, quello che non legge mai nessuno. Chissà, magari un giorno qualcuno lo leggerà e lo troverà, come un messaggio in bottiglia buttato nell'oceano dieci anni prima.

Tra l'altro ve lo dico subito, non è un gran racconto. O meglio, mi piace l'inizio, ma poi diventa un po' laconico e pieno di bei sentimenti. Un po' me ne vergogno, ma se i sentimenti che provo sono banali, tanto vale scrivere cose banali, no?

Comunque lo trovate qui.

giovedì 23 ottobre 2008

I Sonic Youth a Bolzano!

Dove eravamo rimasti? Ah sì, il concerto.
Come sottolineato nell'articolo di giornale uscito due giorni dopo sul Trentino, si tratta di un evento che unisce stili e generazioni.
La settimana prima del concerto il mio amico Franz mi manda una mail parlandomi del figlio quindicenne di una sua amica che vorrebbe andare a vedere i Sonic Youth, ma non trova un passaggio in macchina.
Con la mia mente torno alla sua età, quando ascoltavo solo e unicamente i Beatles e in tutta la Valle pochissimi conoscevano il panorama musicale che va oltre i soliti nomi. Quando c'erano i grunge che conoscevano solo i Nirvana, i punk che ascoltavano solo Rancid e i metallari adepti dei Metallica.
Certo, a quei tempi se volevi ascoltare qualcosa dovevi comprare il CD, anche sa da lì a poco sarebbe scoppiata la rivoluzione della masterizzazione, ma i miei amici e io siamo felici di fare questo piacere al ragazzino, sperando di portarlo ancora più vicino al verbo di sonorità diverse dal vascorossismo imperante.

Fra lui e David ci sono più di 20 anni di differenza ed è questo che intendo come unione di stili e generazioni. Si tratta di un evento storico per la musica trentina e altoatesina.
È vero che proprio quest'anno Bob Dylan ha suonato a Trento, ma Dylan lo conoscono tutti e molti sono andati a vederlo per il personaggio, non per la musica. I Sonic Youth invece attirano solo i cultori della musica non eccessivamente orecchiabile.
Si incontra tanta gente che si conosce, è il ritrovo di una comunità che è ristretta e minoritaria nei paesi dai quali proviene, ma che riunita in un unico luogo fa la sua porca figura. Siamo duemila, contro i mille previsti inizialmente, i biglietti sono esauriti e alcuni di noi hanno visto uscire Evol, altri come me sono nati pochi anni prima dell'uscita di Confusion is Sex. Ma la maggior parte è nata ancora dopo, diciamo circa in epoca A Thousand Leaves. C'è chi li conosce attraverso i Nirvana, chi segue la scena noise, qualche nerd appassionato di musica complicata, gente dei centri sociali, artisti pop, forzati dell'alternatività. Fra una cosa e l'altra però ci sono tutti.

Prima e dopo il concerto la comunità si avvicina, si conoscono amici di amici, si incontra l'alunno del famoso prof di religione che per hobby produce gruppi dai nomi satanici (a udienza: signora, dica a suo figlio che hanno ucciso il chitarrista dei Pantera), nella zona industriale di Bolzano si ha modo di meravigliarsi per il numero di persone che indossano la stessa maglietta che di solito ti piace perché ti fa sentire diverso. E si sa, il rock è fondato sulla maglietta.
È uno di quei concerti dove tutti i chitarristi frustrati incontrano un bassista e un batterista e fondano un gruppo. Con un po' di dedizione può nascere una scena locale anche in un posto dove la popolazione è così dispersa.

La Stahlbau Pichler, che non è il nome di un gruppo metal, ma un'acciaieria, alla faccia dell'acciaieria ha un'architettura che neanche Frank O. Gehry.
Oltre ai già citati, sono in compagnia di Daniele, un amico che si interessa di privacy e mi tocca quindi menzionare con il nome di battesimo, nonostante tutti lo chiamino per cognome.
Daniele, anzi, il Daniele, almeno questa concedetemela, conosce i sonicissimi solamente per sentito nominare dalla Fabry e me, ma fra i nostri è probabilmente l'orecchio più raffinato, vantando pluridecennale militanza come trombone nel corpo bandistico dal suo paese.
Varcata la soglia dell'acciaieria, gli immancabili stand di wurstel e birra Forst conferiscono al tutto un'aria più alpestre, per me aria di casa. È proprio in fila per la birra che ci perdiamo metà del gruppo spalla, Golden Juckle Age, che suonano tipo i Tangerine Dream, ma senza sintetizzatori, solo con basso e sassofono dritto (tenore?). A me piacciono. Solo a me, a quanto pare.

E poi attaccano i Sonic Youth. Steve Shelley è l'unico che sembra sentire la senilità, anche se è comunque un altro uomo rispetto a quello che il giorno prima si aggirava con l'aria persa per Bolzano. Anche la voce di Kim non è perfetta, ma come tutti quelli che non leggono Chitarre ben sanno, chissefrega di come suonano, l'importante è che creino un'atmosfera.
E l'atmosfera c'è, un amico di David, ultraquarantenne, parte a pogare. Il tipo vestito da truzzo davanti a me invece sembra spaesato, ma anche interessato.
Thurston si diverte come un bambino a giocare con le bacchette della batteria sulle chitarre (una diversa per ogni pezzo, ognuna con un'accordatura differente), fa quasi tenerezza.



C'è tanto Daydream Nation, compresa l'intera Trilogy, e molto dell'ultimo album. A dire il vero potrebbe sembrare che la memoria dei ragazzi si sia interrotta prima degli ultimi due tour (Rather Ripped e la replica totale di Daydream Nation), se non fosse per un paio di brani del primo album piazzati strategicamente all'inizio e alla fine.



Il bis inizia con due pezzi inediti, No Way e Mars, che mi rifiuto di giudicare prima di sentirli di nuovo, poi 100% è l'unica concessione a chi non conoscendo la band si aspettava i vecchi classici. Poi Kim canta Shaking Hell come farebbe Lydia Lunch e si levano le tende.



Siamo tutti soddisfatti, perché a dire il vero al fatto che i Sonic Youth suonassero davvero a Bolzano non ci credeva nessuno fino all'inizio del concerto.

Ah, dimenticavo, il tipo al basso era Mark Ibold dei Pavement.

mercoledì 15 ottobre 2008

I Sonic Youth a Bolzano?


Quando sei nato in un paese minuscolo in una valle alpina, il fatto che il tuo gruppo musicale preferito decida di suonare in prossimità di casa, per giunta nel giorno del tuo compleanno, non può che sembrare un segno del destino.
Non ci credevo quando ho scoperto che qualcuno aveva portato a Bolzano una mostra su artisti legati ai gloriosi Sonic Youth. Che poi il tutto sarebbe stato coronato con un concerto della band, nel giorno che avrebbe sancito per me l'impossibilità di morire a 27 anni come la maggior parte delle rock star, pareva quasi troppo.
Così dopo neanche troppi giorni di ponderazione ho comprato i biglietti aerei per una settimana a casa.

Un concerto dei Sonic Youth significa trent'anni di discografia fra gruppo e mille progetti collaterali e prima del concerto un ripasso è necessario per chiunque. Nelle settimane precedenti riascolto i primi dischi e l'ultimo, accentuando l'attesa.
Ma non sembro essere il solo ad essere impaziente come un bimbo prima di Natale (o come Pietro Maso in attesa di essere scarcerato). Nei giorni precedenti al concerto si avviano discorsi con altri appassionati su tutti i canali dell'internètt.
Così quando salgo sull'aereo per tornare a casa mi pare di partire io stesso per una tournée.

Quella di tornare a casa per il concerto si rivela una saggia decisione. Sembrava che in Trentino e Alto Adige tutti si fossero convertiti al verbo di Kim Gordon, Thurston Moore e Lee Ranaldo (accompagnati da una fitta ridda di batteristi). Perfino i miei genitori si sono preoccupati di risalire all'identità di questo misterioso gruppo, che poi così male non poteva essere, visto che gli hanno dedicato una mostra d'arte al Museion di Bolzano. Mia madre ha subito identificato la band come "chei da la majéta" (quelli della maglietta), memore di mille lavatrici.
E la mia amica Fabry, benedetta sia fra le donne, che lavora per i colleghi trentini di Museion, è riuscita addirittura ad imbucarmi nella conferenza stampa in corrispondenza dell'inaugurazione della mostra.

L'inaugurazione avviene il giorno prima del concerto. Sulla Skoda bianca di David, il moroso della Fabry, c'è anche l'"inviato" di Rumore (virgolette rese necessarie dalla gratuità della prestazione), che ha prenotato un'intervista con Thurston Moore, suscitando l'invidia di tutti noi e il seguente imboscamento della Fabry, sottoposta per questo alla gogna davanti ai suoi datori di "lavoro".
Dal finestrone della sala conferenze di Museion lo sguardo attraversa l'alta Val d'Adige fino all'Austria, quando appaiono un cinquantenne allampanato, uno stagionato viveur dai capelli pepe e sale, una rispettabile signora e uno spaesato turista americano.
L'impatto con i propri idoli è spesso traumatico, ma la senilità sonica ne esce comunque quantomeno dignitosamente.
Meno dignitosamente ne esce invece il giornalista della tv nazionale austriaca, che appena si accorge che la conferenza viene tradotta solamente in italiano, la interrompe per dichiarare che non è necessaria alcuna traduzione, dall'alto della rispettabilità conferitagli dai suoi baffetti da tredicenne. Avevo già avuto modo di notare come gli austriaci si sentano sempre in dovere di confermare lo stereotipo. Benedetta l'organizzatrice francese della mostra, all'oscuro del prurito linguistico che impregna il Suttirolo.

Tra l'altro lo stesso giornalista pone a Thurston la domanda più stupida possibile, la cui risposta si rivela invece molto interessante.
"Vat zu yu zink of the current art situazio?" Mr Moore risponde che non ne ha idea, perché lui di arte non se ne intende e tutti gli artisti esposti sono stati scelti per amicizia o incontro casuale. Il che conferma quello che noi tutti sappiamo, che quelli famosi non sono per forza gli artisti migliori, ma quelli che per un motivo o l'altro hanno ricevuto maggiore esposizione. Solitamente si tratta di artisti appartenenti a scene, che traggono beneficio da stimoli e fama di chi gli sta vicino.
Sulla fama non mi pronuncio, ma quella degli stimoli offerti dalla scena locale sembra essere una tematica rilevante nella carriera dei Sonic Youth. Dal punto di vista musicale, quella di New York è una fucina di scene, che spesso si contaminano e uniscono nella scena più grande e longeva al mondo, partendo dal primo jazz, passando per la Factory, il free jazz, il punk e la no wave, sporcandosi di arte di ogni genere. Una scena sempre attenta alle avanguardie e alla sperimentazione.
Moore ricorda come nel 1977 tutti gli artisti gnuiorchesi ascoltassero solo la disco, per poi giungere inevitabilmente a contatto con l'allora vivissima scena punk/no wave.
Ricorda anche come si fosse meravigliato ascoltando per la prima volta un artista non musicale discutere di no wave invece che di ballare Disco Inferno. Si trattava di Dan Graham, un placido vecchietto con la barba bianca e un giubbotto milletasche che, anche lui presente, si diletta a parlarci di Teenage Jesus and the Jerks.

Finita la conferenza stampa, mentre aspettiamo che gli altri finiscano di intervistare Thurston Moore, David e io facciamo un giro nella mostra, ancora in via di allestimento.
Riduco al minimo i commenti, non essendo io un esperto. Comunque c'è tanta pop art, ovviamente (dieci anni prima dei Sonic Youth la scena di New York era quella di Andy Warhol), tanti colori, ma anche sangue, pistole, violenza, che sembrano essere inevitabili in qualsiasi manifestazione di americanità. Fotografie originali di supereroi beat (Lee ne è un cultore) e fumetti, installazioni in via di costruzione e una yurta con strumenti per consentire ai visitatori di metterci del loro. O per sottolineare ancora una volta che al posto dei Sonic Youth, potrebbe esserci qualcuno di noi.

Intanto Steve Shelley si aggira ancora per ore timido e sperduto fra il negozio della mostra e il bar sul retro, con un paio di cd in mano. Fa tanta tenerezza, è proprio uno di noi.

Ma mi sa che per oggi ho scritto anche troppo, quindi direi che del concerto ne parliamo alla prossima occasione. Un blog senza lettori può permettersi di aspettare, no?

martedì 7 ottobre 2008

Io e tanta bella gente

"È qui che va la bella gente." È bastato che Er Tinta profferisse queste magiche parole per farmi capire che sarebbe stata una serata difficile. E gli altri "Sì, dai, che è pieno di figa". Al fatto che anch’io sarei una gran figa sotto falde freatiche di trucco nessuno ovviamente ci pensa. Che poi uno usi il termine "bella gente" in senso non derogativo, mi spaventa non poco. Comunque di andare a casa non ne ho voglia, di fare l’asociale nemmeno, quindi che fare? Dai, ci andrò, facciamo sto sforzo, al massimo troverò qualcosa per il mio blogghetto che nessuno ha mai letto.

Ed è subito sospiro di sollievo, perché pare che il buttafuori ci neghi il privilegio di accedere, credo grazie al mio vestiario colorato. Ma poi arriva Er Magnaccia, un deficiccio molto ciccio che prima di lasciarci per gli impegni di cui in seguito fa cenno alle guardie di farci entrare, cercando possibilmente di far notare il suo potere a chiunque nel raggio di svariate miglia marine.
Questo ovviamente solo dopo averci illustrato il suo problema: sarebbe dovuto uscire con cinque fighe, e almeno una gliela avrebbe data di sicuro. Però prima avrebbe dovuto portarle a ballare e la tipa avrebbe ceduto solo verso le 6 di mattina e lui è troppo vecchio poverino per stare in giro fino a quell'ora.
Il primo istinto è quello di indagare se anche uno solo di noi gli crede, o se lui stesso crede che noi gli crediamo, ma gli altri sono già passati al guardaroba e ora puntano già i loro tagli scelti.

È al bancone che capisco che il Veronese è con me. Ma è troppo buono per pensare male e troppo timido per commentare. Allora lui e io ci affidiamo ai simboli e ordiniamo della volgare bbira. I due romani invece solo roba che si serve nei tumbler.
"Qui sono tutte carine" esclama il candido Dà, "Ammazza quanta fregna", ribatte Er Tinta raggiante e si mette a puntare una bionda.
Dopo un po’ la bionda ricambia lo sguardo, così Er Tinta si spaventa e attacca col piano B, rivolgersi a noi per parlare di finanza, anticiparci con disinvoltura merger e acquisizioni.

Il Veronese sembra intuire la densità della situazione e mi chiede se ho voglia di fare un salto con lui in un altro bar a trovare alcuni suoi amici. Il sollievo si dipinge in rapida successione sul mio volto (luce in fondo al tunnel) quello der Tinta (con quelli appresso nun se rimorchia) e quello de Dà (me dispiace, ma sto a cercà l'anima gemella).
Sono sorpreso quando scopro che questi amici nell'altro locale non sono una scusa, ma esistono davvero. La sorpresa aumenta quando al Weber non li troviamo e raggiunge il culmine nel momento nel quale il Veronese proclama convinto di voler tornare al postaccio di prima.

Non dico niente, anche perché, che ci facciamo io e lui soli in un bar strapieno? Tanto stavolta Er Magnaccia nun c'è e sto cazzo che ce fanno entrà. Infatti è così, i buttafuori fanno passare tutti quelli intorno a noi, mentre noi attendiamo. Il Veronese si rivela più candido del previsto, non intuendo il motivo di tale attesa. Poi dopo una mezz'ora i manzi si commuovono per la nostra pazienza, tipo "quei due devono tenerci proprio ad entrare in questo esclusivo buco", e ci aprono le porte. Cerchiamo gli altri. Spero che siano fuggiti con due fighe, ma so che così non può essere.

Temporeggio bevendo spuma, diceva il saggio. Ma qui spuma non ce n'è e provo a ordinare birra, operazione più complicata del previsto. È calca: un'intera generazione di figli di papà, ancora sicuri di essere dei bimbi speciali, fanno prevalere il loro diritto spingendo e schiacciando il sottoscritto insieme ai figli di altri papà. Un trentenne con i capelli di Briatore tira fuori una mazzettona di biglietti da cinquanta e ne porge uno al barista.
Arrivano le birre, i romani non si vedono e allora meditiamo una per me dolce ritirata, che non si rivela facile, impantanati fra schiene nude e blazerini di Armani.

Siamo davanti alla porta, il Veronese è già quasi fuori, io mi giro per un secondo e in un fotogramma vedo dei capelli tinti di nero, seduti al tavolino all'entrata. Non so che mi prende, ma segnalo l'avvistamento e i romani, ormai arresi alla triste realtà, sembrano felici di vederci e ci fanno accomodare.

Nel giro di dieci minuti i romani però si ringalluzziscono e propongono la puntatina in disco. Stavolta non ce la faccio e mi congedo. Il buon Dà sembra non aver capito e insiste un po', ma riesco comunque a svignarmela.
Appena slego la bici mi sento sicuro, fra le vie del centro di Amsterdam. Nelle finestre senza tende degli appartamenti del quartiere dei musei si intravedono le sagome della bella gente, che ha lasciato il locale prima di noi per fare quello che a volte chiama amore. Io tiro dritto e mi fermo solo davanti al cortiletto di casa. Il giorno dopo esco con gli svaccati e andiamo in uno squat. Quando racconto della sera precedente si fanno tutti due grasse risate.

venerdì 26 settembre 2008

We dig repetion

La musica, per fortuna, non è una questione di cervello, ma di cuore o di panza. La si ascolta per motivi diversi, ballare, star meglio, svegliarsi, star peggio o addormentarsi. Sospetto che gli unici che non hanno capito un cazzo siano i maniaci della tennica, gli sportivi del rock’n’roll, quelli che se alle Olimpiadi mettessero l’assolo libero si fionderebbero, cronometro alla mano, a vedere quante note al secondo ci ficca lo Gnigni Malmsteen di turno.
Cazzate, insomma. Per fare qualcosa di bello non serve essere bravi, bisogna saperci fare e basta.

È provato nei migliori laboratuar che qualsiasi variante con accordi di Mi, La e Re non può che suonare bene. Aggiungiamoci un Do e un Si e abbiamo l’intero repertorio degli Stones. Basta alzare il volume e nascono le hit. Quello che conta è spesso il contorno, la voce, la distorsione, il testo, ma anche l’atteggiamento e i vestiti. The singer, not the song, cantavano per l'appunto gli Stones, e direi che abbiamo anche capito perché.
Poi però ci sono anche quelli che oltre a suonare due accordi di numero, li suonano pure maluccio. Suonano canzoni da discount, con strumenti da discount e voce da distilleria. Eppure spesso queste canzoni sono memorabili, della serie che vale più una Louie Louie di mille Stairway to Heaven. Lo sapeva bene Frank Zappa, che ne era ossessionato e l’ha usata per dissacrare l’organo della Royal Albert Hall (non trovo la sua versione e allora vi metto quella dei Sonics).
Ah, a proposito di Led Zeppelin, lo sapevate che tutte le loro canzoni più famose sono in Mi La Re? Black Dog, Heartbreaker, Whole Lotta Love, e sì, anche Stairway to Heaven. Ma qui i semplici accordi vengono smembrati e il discorso cambia. Noi no, noi vogliamo solo quelli che i loro tre accordi non stanno là ad infiocchettarli più di tanto. Eccone alcuni.

Louie Louie, o Wild Thing, che è poi la stessa cosa, ma con l'organo Hammond = 96 Tears



Chi la spunta fra Beatles e Rolling Stones? Per me mille volte i Kinks, che già quando gli altri si rincoglionivano di sottomarini gialli la buttavano giù dura



I Ramones non sapevano suonare, ma lo facevano da dio



Dopo aver salpato i mari, il vecchio Louie si dà all’elettronica



Quando hanno rinfacciato al giovane Neil che le sue canzoni erano tutte uguali, lui ha risposto che per forza, è tutto una canzone sola.



I Fall sono quelli che cantavano "We dig repetition in music and we're never gonna lose it". Questa però è un'altra.



E la roba semplice va di moda anche oggidì. Ecco un gruppetto che ora va per la maggiore quando gioca la nazionale. A differenza di Mameli, anche Camoranesi li canta. Ma questa è di qualche anno prima.



E se ancora non vi siete rotti i coglioni vi ringrazio e vi faccio sentire anche questo, questo, questo e quest'altro

mercoledì 17 settembre 2008

L'Europa in verticale


Uno dei motivi per i quali mi definisco un bastian contrari è che a scuola ero solito studiare i capitoli dei libri di testo che il professore ci aveva concesso di saltare, ma non riuscivo a concentrarmi su quelli che facevano parte del programma.
Non era un impulso nato da razionale disobbedienza, ma una specie di riflesso incondizionato.
Ora che lavoro, le cose non sembrano essere cambiate: continuo a fare fatica a concentrarmi su quello che mi viene imposto di fare. Non si tratta di pigrizia, non passo il tempo a fare nulla, è più che altro una tentazione, costituita da mille blog e rubriche, aggiornati ogni giorno, da leggere sui siti di giornali e riviste internazionali.

Non serve un cervello per constatare che il contenuto dei siti dei maggiori quotidiani è giornalismo al botulino, grammatica scaduta, tematiche marce e linguaggio fermentato. Gossip, chiacchiere, cronaca nera, concorsi di body painting, donne che protestano nude e ogni scusa immaginabile per tentare i nostri istinti più naturali.
Ogni giorno però, per alzare il livello, o più probabilmente per attirare anche un altro tipo di pubblico, vengono pubblicati anche alcuni articoli tratti dal giornale cartaceo, solitamente di ottima qualità.

Ad esempio, su Repubblica è ormai tradizione consolidata riportare i reportage dei viaggi di Paolo Rumiz. Rumiz ha esordito per Repubblica negli anni ‘80 come inviato nei Balcani, posizione nella quale si è fatto un nome durante la guerra in Jugoslavia, per poi spostarsi ulteriormente verso Est durante la guerra in Afghanistan. E l’Est è una tematica ricorrente nei suoi servizi. Nel 2001, sotto l’influenza di birra di quella buona, ha organizzato una pedalata di 2000 km da Trieste ad Istanbul, in compagnia del vignettista Altan e di un certo Emilio Rigatti, cicloturista praticamente professionista. Repubblica ha poi pubblicato un reportage sul viaggio, suddiviso in puntate quotidiane corrispondenti ad ogni tappa.

Rumiz ha poi la dote o il culo di essere sempre al posto giusto; il suo viaggio verso Istanbul ha come tema il contatto fra Europa e Oriente islamico e l’ultima puntata, nella quale Altan arranca verso il centro di Istanbul esclamando “Allah Akhbar” è datata 29 agosto 2001, alle porte del fatal settembre.

Da allora il reportage estivo diventa una tradizione. Io Rumiz l’ho incontrato, almeno metaforicamente, quando ha scelto di percorrere la distanza della Transiberiana in treno senza oltrepassare il confine italiano, accompagnandomi nelle pause pranzo durante un lavoro estivo come guida turistica in alta Val di Non. È stato là che mi sono lasciato coinvolgere dal suo stile descrittivo, lirico, ma dinamico, idealistico al punto da sembrare opera di un diciottenne. Rumiz descrive quello che vedono i suoi occhi e quello che vede la sua mente.

Quest’anno ad agosto la mia azienda ha perso il cliente principale e ho avuto così tutto il tempo necessario per seguire il nuovo reportage. La traversata dell’Europa in verticale, dal Polo ad Istanbul, sempre pochi chilometri al di là del confine dell’Unione Europea, in Russia, Bielorussia, Ucraina, incontrando gente e sovvertendo, fra regali dati e ricevuti, il contenuto di uno zainetto, unico riparo del viaggiatore leggero e senza pena.

Anche qui Rumiz è al posto giusto al momento giusto. Durante il viaggio, ben due persone gli preannunciano l’attacco della Russia in Georgia, avvenuto nel periodo fra la fine del viaggio e la pubblicazione degli articoli. È come se i russi avessero saputo che stava per succedere qualcosa. Le stesse persone che sembrano aver scelto Putin senza sapere che è un mezzo criminale, si rivelano tanto coscienti di quanto sta succedendo, quanto impotenti, proprio come avevano affrontato il mostro sovietico.

All’inizio della lettura mi chiedevo molto ingenuamente cosa ci sarà stato da raccontare di un viaggio attraverso luoghi non segnati sulle guide, poveri di abitanti e ricchi di natura. D’altra parte non si può scrivere per un mese descrivendo alberi e laghi. Invece il nostro eroe è un campione nell’intortare gli sconosciuti, attacca bottone con i passanti e spesso viene ripagato con una storia e un invito a cena. Ama mettere il culo fra le pedate e quando in Ucraina gli capita di seguire una rissa fra criminali locali, si porta ancora più vicino per sondare il terreno.

Così la storia scorre rapida, fra descrizioni dinamiche attraverso i finestrini del treno e incontri più o meno casuali, imprevisti e soluzioni altrettanto impreviste, attraverso Murmansk, la Carelia, le tre repubbliche baltiche fino a Kaliningrad, la Bielorussia e l’Ucraina lungo i Carpazi. Tradizione e modernità, inclusi ed esclusi, est e ovest. E alla fine tutto si unisce, fra treni, natura, gente.

sabato 6 settembre 2008

Please Kill Me: The Oral History of Punk


Ho una strana tendenza a conservare le cose che mi piacciono per godermele in futuro. Così capita ad esempio tutti gli anni che l’ultima stecca di torrone duro alla mandorla finisca verso la fine di giugno.
Il discorso vale ovvimente anche per i dischi: conservo i miei album preferiti per momenti speciali, perché non vorrei mai rovinare i ricordi a loro legati. Non ascolto mai i miei dischi preferiti. Ma ultimamente su questo versante sto migliorando. Mi concedo ampi ascolti di dischi prima intoccabili e, estendendo il discorso ai libri, ho finalmente ordinato, ottenuto e intaccato “Please Kill Me: The Uncensored Oral History of Punk”, di Legs McNeil e Gillian McCain.

L’avevo adocchiato anni fa in un negozio di roba di seconda mano a Colonia e un paio di mesi dopo l’avevo ritrovato, citato e lodato da Wu Ming I come grande ispirazione per il suo romanzo solista “New thing”, altro libricino che in meno di duecento pagine stipa una selva di ispirazione, idee e rimandi a tematiche reali, dal free jazz al black power.

All’epoca, di Please Kill Me non esisteva una traduzione italiana, così appena laureato, lo sbarbato neotraduttore che ero aveva scritto a Minimum Fax, che già deteneva i diritti di traduzione, per proporsi come traduttore per l'opera. Mi viene ancora da ridere a pensare che forse speravo davvero che mi rispondessero, o che addirittura accettassero la proposta. Fatto sta che un annetto e mezzo dopo esce sta benedetta traduzione. Ovviamente non ho la minima presunzione di aver fatto scattare io la molla, credo che Wu Ming I si battesse già da anni, e poi mica vanno ad ascoltare un ragazzino con la sua bella pergamena fresca in mano. Però ogni tanto il mio immodesto ego ama cullarsi fra i “c’ero prima io”.

Legs McNeil è uno che nella scena punk americana c’era immerso fino al collo, avendo lavorato per diverse riviste della scena locale e inventato il termine stesso “punk”. Di racconti memorabili deve averne sentiti raccontare diversi. Tanto è vero che decide di raccoglierli e scrivere la sua versione della storia del punk, mettendo in fila dichiarazioni fatte da diversi protagonisti e lasciando parlare anche chi stava dietro al palco, il che fa sì che i musicisti vengano descritti in modo più naturale, togliendo l’aura di mito e immergendoli nella vita quotidiana.

Emerge fra tutti sto Danny Fields, l’uomo che facendosi della droga del momento è partito dai Velvet Underground (speed) e ha scoperto Doors (whisky), MC5 (marijuana) e Stooges (eroina). Uno che a giudicare dalle sue parole da frocione incallito, questa gentaglia l’ha selezionata più per l’aspetto esteriore che altro.

E questo è tutt’altro che un aspetto marginale. Fields ammette che la musica degli Stooges, prima di incidere album, fosse una cosa assolutamente marginale. Quello che contava era che Iggy vomitasse sul pubblico. Poi è arrivata anche la musica, un buon produttore in uno studio decente può fare miracoli. Per i New York Dolls il discorso è ancora più evidente, sono stati scritturati perché si vestivano da donne (ah, a proposito, erano tutti talmente eterosessuali e Johnny Thunders era terrorizzato dal fatto che la gente potesse pensare che fosse gay) e non per la loro musica.

Non che mi aspettassi che la realtà fosse differente, ma è veramente triste leggere la conferma che praticamente chiunque dotato di una presenza scenica decente (ma forse un bel culo aiuta di più) possa diventare un musicista importante. In pratica quello che conta è il produttore. Stop. Come se nel calcio un buon allenatore potesse portare la Reggina allo scudetto.

Partendo da queste basi, il nostro bel libercolo procede a demolire diverse biografie di cantanti celebri. In pratica, almeno nelle prime 200 pagine, tutti i leader dei gruppi nominati fanno la figura degli egomaniaci. Pare ad esempio che il ruvido Iggy sia in realtà molto più colto dell’intellettualoide Lou Reed, solo che il secondo ama credersi e porsi come uno che sa, per poi pregare uno sconosciuto di cagargli in bocca, ma qui fermiamoci, se no entriamo nel gossip. Soprattutto Jim Morrison, quello a petto nudo, che allarga le braccia sulle magliette, ne esce demolito. Jim è un alcolista fin dai primordi, passa le serate pisciando sul pavimento dei bar perché non riesce neanche a trascinarsi al bagno, si dimena fra le acque di scolo ed è vero che alcuni suoi concerti sono memorabili, ma solo uno su dieci, tanto che ci vuole un po’ per convincere i dirigenti dell’Elektra a scritturarlo. Ah, dimenticavo, pare addirittura che il vecchio Jim non fosse neanche tutto sto grande letterato dopotutto.

Ok, ammetto che da questa descrizione pare che stia leggendo un libro scandalistico. In realtà si parla soprattutto di musica, ma per descrivere al meglio la musica bisogna conoscere il musicista, possibilmente immerso nel suo habitat. In pratica la storia personale e la personalità dei musicisti vengono usate per spiegare il loro stile e la loro attitudine. E il punk è un genere che più di ogni altro nasce dalla personalità del musicista, perché, lo vogliate o no, il punk è immagine ancora prima che musica. Quello che risalta nel punk non è tanto la musica, quanto la personalità. Chi conosce i New York Dolls? Vedo tante mani alzate. Chi conosce le loro canzoni? Così pochi? Chi sa dirmi il titolo di una canzone degli MC5 che non sia quella che tutti sappiamo?

E qui torniamo a Danny Fields. Il punk ha bisogno di un magnaccia come lui, o come l’infame Malcolm McLaren, uno al quale interessa solo l’immagine, uno che della musica se ne frega fino ad un certo punto.
Fino alla fine degli anni ’60 il rock era tutto sommato basato sulla musica. La personalità degli artisti contava fino ad un certo punto. Dei Byrds, degli Animals, dei Jefferson Airplane, si conoscono le canzoni, non la biografia. Elvis, i Beatles, gli Stones sono i primi a costruirsi un’immagine, ma dai Velvet Underground in poi la cornice comincia a contare più del contenuto. E non sto qui a dirvi che così non dovrebbe essere, perché non sta a me. Anche lo stile ha la sua importanza, non lo nego.

Il succo del discorso è che al musicista punk non basta cantare canzoni, le deve anche vivere fuori dal palco.

Detto questo, che pare molto romantico, Legs ci insegna anche che per farlo bisogna essere dei bei cazzoni. Sul musicista come testa di cazzo sentenzierò a breve.

martedì 2 settembre 2008

Jon Spencer: come taroccare il blues e uscirne alla grande


La musica di Jon Spencer mi è entrata come un cavallo di Troia.
Era la seconda metà degli anni 90, mio padre ci aveva appena trasformati in pionieri della tv satellitare e mi nutrivo di canali musicali tedeschi. Preferivo le trasmissioni moderate da cinquantenni con i capelli grigi, l’orecchino e il giubbotto di pelle, ma ogni tanto gettavo l’occhio su qualche video recente, se non altro per capire cosa ci trovassero i miei compagni del liceo.
Il cavallo di Troia di Jon Spencer è stato il nome Blues Explosion. Blues = tradizione, quindi leggevo nel nostro un tentativo di educare i coetanei alla musica degna di essere ascoltata. Intuivo uno sforzo missionario che gli imponeva di ridipingere la tradizione afroamericana con un paio di effetti moderni per il bene della vera musica, l’unica degna di essere ascoltata. La canzone era Talking about the Blues, il cui testo dice “we don’t play no blues, we play rock’n’roll”, ma non si può pretendere che uno che avrà sì e no 17 anni capisca anche l’inglese, no?
Negli anni a seguire mi sono informato meglio, ma Jon è rimasto un mio pallino, con la sua musica sporca, lavata col marsiglia sull’asse di legno, così quando ho visto che avrebbe suonato al Melkweg sono corso col mio fiets sotto la pioggia a comprare i biglietti per me e per la morosa, che lo Spencerismo non lo capiva, ma confidavo nella prestazione dal vivo per una conversione, cosa peraltro portata a termine con successo.
Da buon secchione del rock’n’roll arrivo al concerto con mezz’ora d’anticipo e faccio per prima cosa sosta al banchetto del merchandising, dove vedo un poster con la copertina di un fantomatico nuovo album, che raffigura il buon Jon in forma di fumetto, mentre scava una tomba dalla quale escono dischi con i nomi di gruppi tipo Stone Temple Pilots, Lemonheads, Hole e, orrore degli orrori, Red Hot Chili Peppers. Per fortuna il tipo alla cassa mi rassicura, dicendomi che sono tutti nomi di gruppi che Jon odia. Bene così, anche se magari Pearl Jam e Pixies li avrei risparmiati. Bisogna comunque ammettere che l’omonimo di Bud e Diana ne ha di coraggio, per sputare in faccia a tutti questi colleghi: non per i colleghi in sé, quanto per i loro fan incazzati. Mai sottovalutare la furia di un fan incazzato, è l’abc del rochenrolle.
Ma lasciamo la musica parlata e veniamo alla musica giocata, perché è giocare che piace al nostro. Due chitarre, una batteria e un microfono distorto, dal quale urlare un paio di banalità divertenti, solitamente prendendo per il culo le poche frasi del repertorio del bluesman professionista. “I woke up one morning” e via, Jon e Judah Bauer all'altra chitarra si scambiano i ruoli di accompagnatore e solista, accennando riff delle loro canzoni per qualche decina di secondi, senza mai portarne a termine una intera. Il concerto è un susseguirsi di riff, con qualche breve assolo, per un’ora dalla quale i Rolling Stones avrebbero potuto estrarre abbastanza riff da rifarsi completamente la discografia.
È una strana jam session, fatta di frammenti di canzoni. Qualche volta si riconosce qualcosa, ma dopo pochi secondi la musica cambia di nuovo. E per tutto il tempo il ritmo rimane coinvolgente, quasi ballabile. Sarà forse anche per questo che una percentuale molto alta del pubblico è femminile.
Il bis è come un altro concerto, non solo per la durata, ma anche per il fatto che stavolta le canzoni vengono suonate per intero, concedendoci un metro di paragone per farci capire quanto i tre ci sappiano fare.
Dopo aver sciolto il gruppo per dedicarsi agli Heavy Trash e a collaborazioni varie, tra le quali quella non degna di menzione con Eros Ramazzotti, Jon torna dai suoi ragazzi come un amante pentito e ce la mette tutta per farsi perdonare. Andateveli a vedere.

giovedì 28 agosto 2008

I Tinariwen sono l'Africa meno Peter Gabriel


Da quando ho iniziato ad ascoltare dosi controllate di musica africana comincio a sospettare che un giorno anch’io diventerò uno di quegli adulti responsabili che ascoltano Peter Gabriel su impianti stereo pagati cifre a diversi nove.
Intanto però sabato, al concerto dei Tinariwen, ho potuto tirare un sospiro di sollievo.
I Tinariwen vengono dal Mali o giù di lì, o forse è meglio dire dal Sahara, sono Touareg e orgogliosi di esserlo, suonano il tishoumaren, la musica dei disoccupati, e stando ai giornali vantano un passato di guerriglia.
Ma niente seghe da world music. La descrizione migliore è una fotografia in un servizio di un supplemento domenicale dell’Observer di un paio di anni fa: una grande tenda nel deserto a proteggere dalla sabbia amplificatori Marshall e chitarre elettriche issati sulla schiena di cammelli.
I Tinariwen suonano la loro musica con i nostri strumenti. Rinunciano a piccole dosi tradizione, senza compromettere la genuinità.

Avevo sentito dire anche che sono un gruppo da gustare fresco, così sabato ho investito una ventina d’euro, lasciato la morosa a casa in compagnia del Machiavelli e mi sono chiuso nel Paradiso, solo in mezzo a centinaia di gruppi di persone.
Ho capito subito le ragioni che fanno del Paradiso uno dei templi europei della musica live: una scatola nera per pochi fortunati e un’atmosfera intima, rilassata e concentrata sul palco.
I Tinariwen hanno sfruttato al meglio queste caratteristiche, coinvolgendo il pubblico in un battito di mani continuo, che per un gruppo che disdegna le percussioni è la base del ritmo.
Lasciamole ai rasta del Caribe le percussioni, sembra sia il messaggio, ma il ritmo non manca, viene da un piccolo djembe sul palco e da coriste pagate per battere le mani quanto basta per dirigere il pubblico.
E il djembe, che molti conosceranno come "giambé" è anche l’unico strumento africano. Per il resto un basso che se John Entwistle è Ox, questo è uno zebù e un paio di chitarristi, per lo più elettrici, secondo uno schema decisamente americano, ma basato su melodie che dicono Africa.

Il cantante principale sembra un Santana sdentato con i capelli di Phil Lynott e si fa sentire con arpeggi e assoli cordiali e affettati. L’altro cantante suona occasionalmente l'acustica e non ci si accorgerebbe del suo stile orginale e pulito se non uscisse da solo per il secondo bis, suonando una specie di folk alla sabbia rossa in lingua tamasheq, forse la cosa più bella che abbia mai sentito suonare dal vivo su sei corde di metallo e due vocali.

Torno a casa attraversando il Vondelpark di notte. Qualche barbecue ancora non si è arreso ai primi freddi. E la mia lampada riempie la stanza dei colori del deserto.

domenica 17 agosto 2008

Jin e Jang o come cazzo si dice: stimoli e impulsi


Leggere un libro o guardare un film è un’attività nobile o un semplice modo per evadere dalla realtà?
Spesso mi rendo conto che per me leggere libri di viaggio è un modo per essere in Africa non rinunciando alla doccia mattutina e senza spostarmi dal letto.
Credo comunque che il confine fra le due cose corrisponda a quello fra intrattenimento e approfondimento. Ogni film o libro contiene entrambi gli elementi in gradazioni differenti.
Direbbe il saggio che uno dovrebbe guardare un filmazzo americano cercando di imparare qualcosa e leggere Sartre divertendosi. Unire Jin e Jang e così via, ma più filosofia popolare e meno incenso e vetiver.

Io ai film americazzi ci sono allergico, perché sono allergico alla ripetitività fatta di serial killer e “l’ho fatto perché lo avevo promesso” e credevo di essere fortunato perché potevo dedicare il tempo che avrei dedicato a Bruce Willis a qualcosa di più costruttivo. Tralasciando il fatto che quel tempo lo reinvesto solitamente in partite di calcio in tv, mi sono accorto che forse di filmi americani ne dovrei vedere di più, se non altro per capire cosa ci trovino gli altri.
Così mi sono proposto di guardare più merda, cercando però di estrarre dalla merda la sostanza nutritiva, come un bravo scarabeo stercorario. Voglio provare a trarre da tutto un insegnamento, senza cercare l’illuminazione, ma così, fra il serio e il faceto. Ecco una rassegna degli impulsi più recenti.

Libro: John Peel: Margrave of the Marshes. Auto/biografia del DJ radiofonico inglese che ha praticamente imposto la musica degli ultimi trent’anni. L’autore muore dopo aver scritto metà libro e la moglie prosegue.
Impulsi: Lo stile di narrazione di Peel è fluido, rapido, avvincente, dovrei copiarlo un po’ per sveltire sto blog. Prova che le biografie inglesi vengono speziate con episodi di dubbia veridicità per vendere di più. L’aggiunta sul menage della madre con non so quale inutile divo sa chiaramente di innesto post-mortem, così come alcuni altri episodi nella parte scritta dalla moglie che puzzano di Cronaca Vera, di quella con le maiuscole.
Intrattenimento: ***** Approfondimento: **

Film: American Psycho. Sa di trasposizione cinematografica mal riuscita, anche se non ho mai letto il libro. Conferma che gli americani sono teneri e noiosi nella loro ossessione per assassini e serial killer. Perché questa ossessione? Ci vorrà un altro paio di filmastri per scoprirlo. Comunque per una volta un film sui serial killer che non mi annoia.
Intrattenimento: **** Approfondimento **

Evento: Cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino. Credevamo, noi, che i cinesi copiassero la nostra merda ricoprendola di kitsch. In realtà la cerimonia è molto meno kitsch di quella di tutte le Olimpiadi delle quali conservo memoria, Torino compresa. Intuisco che i cinesi, una volta instaurata la democrazia (perché succederà, quando un miliardo e mezzo di persone scopre che può avere la tv al plasma non ci sono cazzi che tengano) saranno dei dominatori del mondo migliori degli americani.
Intrattenimento: *** Approfondimento: ****

Libro: Dervla Murphy, Cameroon with Egbert. Una sessantenne irlandese e la figlia diciottenne si muovono per tre mesi nell’entroterra del Camerun con un cavallo. Scopro che in Africa non tutti cercano di derubarti o ammazzarti, che sulle montagne anche là è fresco e che anche le migliori menti d’Irlanda sono alcolizzate. Oltre ovviamente al fatto che è possibile ubriacarsi ogni sera anche nelle lande più desolate.
Intrattenimento: **** Approfondimento: *****

Partita: Olimpiadi di Pechino, calcio, Italia - Belgio. La solita lezione calcistica: più uno viene incensato, più spettacolarmente è probabile che perda. E la testa va usata sempre. Trarre lezioni vuol dire anche prendersela con se stessi e non con l’arbitro.
Intrattenimento: *** Approfondimento: *****

Libro: L. McNeil, G. McCain, Please Kill Me, the Oral History of Punk. Grande libro del quale parlerò ancora. Nelle prime cinquanta pagine si scopre che ognuno dei tuoi eroi è un essere umano, che agli MC5 più che la politica interessava il successo, gli Stooges erano tutti bambini viziati da mammina, Andy Warhol era un uomo generoso quanto mediocre e Nico non la dava.
Intrattenimento: **** Approfondimento: ****

Film: The Da Vinci Code. Confesso a Dio onnipotente che mia colpa, mia grandissima colpa, il libro mi è piaciuto. Il film è una fotocopia del libro e ne accentua le caratteristiche di americanata. Inutile per chi ha già letto il libro. Per chi non lo ha fatto, non guastatevi la lettura.
Intrattenimento: ** Approfondimento: *

Reportage: Paolo Rumiz, L’Altra Europa. Leggetevelo. Anche di questo ne riparliamo.
Intrattenimento: ***** Approfondimento: *****

martedì 12 agosto 2008

Haldern: come sopravvivere ad un festival quando si è vecchi dentro


Sono passati tre anni dal mio ultimo festival musicale.
Nel frattempo ho trovato un lavoro e perso altri capelli, comincio ad indossare con una certa disinvoltura anche vestiti privi di nomi di gruppi musicali e ho addirittura qualche amico che apprezza Madonna più dei Sonic Youth.
Mi serviva una botta di vita, ma una adatta al "working professional" che sono diventato e non c’è voluto molto per capire che Haldern era l’occasione adatta. Tre giorni di musica, il tutto là dove i campi di cereali tedeschi corrono incontro all'Olanda, ma soprattutto a 10 km dalla casa di K, il che significa un materasso con le molle per la notte.

Haldern è un festival di dimensioni volutamente ridotte, un festival dell'intimità, dove chiunque si professi fan di un artista ha a possibiltà di ammirarlo in prima fila. I musicisti di solito sanno di partecipare ad un evento di culto e gradiscono la convocazione.
Pare che tre anni fa gli sport-rocker Sportfreunde Stiller si trovassero nella vicina Bochum per un concerto ed abbiano deciso di fare una capatina per cantare un paio di canzoni. Quest'anno l'ospite a sorpresa è stata la più nota crew hip-hop tedesca, un gruppo che avrebbe potuto partecipare come headliner, ma che ha preferito apparire in segreto in un tendone da trecento posti.
L'intero festival viene organizzato dalla gioventù locale. Gente che non ha idea di chi sia Iron & Wine, ma che ha chiaro in mente quello che vuole fare. In Italia sarebbe impossibile, qui funziona da 25 anni. Qui ci sono figli di allevatori di bestiame che hanno visto Patti Smith.
E tutti partecipano, anche gente che preferisce la disco più becera, ma che non si permette di giudicare male in base ai propri gusti musicali.

Al festival K e io arriviamo nel più multiculturale dei modi, cavalcando una Golf munita di maxi-adesivo della birra Bitburger sul retro, ascoltando sullo stereo gli italici CSI.
L'atmosfera è proprio quella di una festa di paese, K incontra parenti e amici e i palchi custodiscono l'irrinunciabile biergarten come il bue e l’asinello.
L'acqua ci sorprende, scrosciandoci in testa per dieci minuti, appena in tempo per scomparire, aprendo il palco principale per i Foals, un gruppo di ragazzetti inglesi che annunciano di essere più giovani del festival stesso, ma mescolano bene il post punk inglese con un basso da discomusic. Tra l'altro i ragazzini ci sanno fare non poco con i loro strumenti, pur senza cadere nel volgare vituosismo.
I Foals rubano decisamente la scena ai Flaming Lips, headliner della serata, che imbastiscono un'enorme festa di compleanno fatta di coriandoli, Teletubbies e tecnologia, ma faticano a nascondere il fatto che la loro musica è fatta soprattutto di tecnologia, concepita per lo studio e non per palchi all'aria aperta.

Il secondo giorno la pioggia arriva a dare il bis proprio al culmine della calura e grazie al suo tempismo rientra fra le migliori esibizioni della giornata, aprendo per Joan as a Policewoman, che sembra la Cortellesi mentre interpreta Pira Williams, ma ci regala una versione lenta e sussurrata di Fire che avrebbe resuscitato il vecchio Jimi.
I Kula Shaker, nel loro periodo di gloria, erano uno dei pochi gruppi moderni che riuscissi ad apprezzare, anche perché il loro sound guardava indietro di molti anni. Ci sono affezionato e per questo motivo credo siano stati i migliori sul palco, ma non pretendo di essere obiettivo. Comunque con 303 mi hanno fatto tornare fra i banchi della terza C. Purtroppo nessuno ha ancora messo il filmato su YouTube. Nel frattempo ascoltatevi Hush.

Arriviamo al terzo giorno freschi come una rosa di plastica, mentre c’è chi si sdraia nel fango non ancora secco. Siamo dei rocker borghesi, e ce ne sbatte pure poco.
Il pomeriggio non ha troppo da offrire. Jamie Lidell ha un’ottima voce calda e soul, ma sa troppo da discoteca inglese e si vede che le ragazzine adoranti cercano solo un surrogato di Robbie Williams. Si sente quasi odore di vodka Red Bull.
Il cambio di pubblico fra Liddell e Iron & Wine è radicale e per un attimo il prato rimane quasi vuoto, così ci mettiamo in primissima fila, dove la stessa ragazza che avevamo incontrato allo stesso posto per il concerto dei Kula Shaker sta ancora flirtando con lo stesso sosia di Daniel Brühl della security. K le chiede cosa ne pensa dei concerti, lei che è sempre in prima fila. Pare che le abbiano fatto cagare tutti. Probabilmente Daniel Brühl è d’accordo con lei, perché passa tutto il concerto a fare cazzate con i colleghi. Ah, dimenticavo la musica, una buona esibizione.
I Gutter Twins sono nella tenda per gli iniziati, ci mettiamo in coda e, ascoltando la musica che esce dal tendone, guardiamo sul megaschermo esterno un’esibizione che sembra davvero piena di sentimento. Per fortuna alla fine tutti corrono a vedere gli headliner, il tendone si svuota e arriviamo a vedere in faccia Lanegan e Dulli mentre annunciano l’ultima canzone e i componenti della band, che sembrano venire tutti da Alaska, Montana e altri luoghi sperduti. Forse anche per i provinciali c’è un paradiso.
I Maximo Park sono commossi, non gli capita spesso di essere il gruppo della serata. Li vediamo giusto per fare qualcosa, ma non ce ne pentiamo. Vanno decisamente oltre ciò che ci si aspetta da un gruppetto per adolescenti britannici.

Torneremo.