domenica 28 febbraio 2010

Pubblici vizi e private virtù


È un po’ che cerco di smettere, ma forse ora è davvero il momento di metterci un po’ d’impegno. Dicono che quando il vizio comincia ad avere ripercussioni sul lavoro e sulla vita privata è veramente ora di farla finita e mi sa che stavolta ci siamo.

È che tempo fa il capo mi ha chiamato nel suo ufficio serio e soppalcato per farmi la ramanzina. Io lo sapevo che era un brutto vizio, ma non avrei mai pensato che chi mi sta attorno se ne potesse accorgere. Di solito qui nessuno capisce la mia lingua, e questo mi protegge quando straparlo.

Ma stavolta ce l’ha con me, il capo. Dice che è passata una ragazza italiana per un colloquio. Dice che questa, invece di parlare di essere proattivi, del suo unico difetto che è essere troppo precisa, di motivazione e dedizione, gli va a raccontare di aver sentito qualcuno imprecare angeli, santi e voi fratelli a voce alta e nella sua stessa lingua.

Dice, il capo, che sono l’unico possibile imputato come artefice di tali illazioni volte ad aizzare la divinità contro l’azienda ed è conseguentemente auspicabile che mi astenga da tali comportamenti con effetto immediato. Lo dice con la stessa voce con cui mesi prima mi aveva detto di sedermi come un buon cristiano e non come un sufista ebbro d’oppiacei. Che poi non è che abbia parlato di blasfemia nello specifico, ma di professionalità. Ma si sa, per i discepoli di Calvino la religione trova la sua incarnazione nel lavoro e la professionalità ne è la maggiore manifestazione.

Quello che il capo non capisce è che la battaglia è disperata. Pare facile, smettere di bestemmiare, ma non lo è. È come chiedere a Woody Allen di piantarla con quella balbuzie.

Sembra facile anche per me all’inizio, e mi ci metto d’impegno. In realtà ci ho già provato per mesi, ma ogni volta, proprio quando credo di essere uscito dal tunnel come Steven Seagal a bordo di una motocross, arriva la ricaduta: basta un momento di minima indecisione in qualsiasi cosa faccia e dentro di me, a bassa voce, parte la formula magica che ha le stesse iniziali del Partito Democratico, ma contenuti e intenti molto più distanti dalle posizioni del clero.

Che poi non è che io sia uno che si diletta a lanciare porci nudi e crudi, ma tendo a spaziare con fantasie tutt'altro che floreali, solitamente eufemistiche, ma a volte dotate di totale pienezza semantica. Se proprio lo devo fare, uno dice, tanto vale metterci un po’ di fantasia.

E nell’ambito di un’acuta riflessione introsprettiva sorge naturale chiedersi il perché, di questa ossessione con la deprecazione della divinità. Perché un’abitudine così stupida ti si incolla nella mente? Forse che Iddio abbia deciso di non accogliermi comunque nel Cielo dei giusti e mi induca in tentazione per trovare una scusa per non farlo? Ma no, lui non può essere così bastardo. Forse sono io a farlo e non lui a farmelo fare. Forse lo faccio per aiutare il mio naturale agnosticismo a scivolare verso un’appagante ateismo?

Non può essere. Non ci ho mai creduto a quelli che dicono di non credere in nessun dio o supereroe e poi tirano giù porci come Dio la manda. Perché per sfidare la divinità devi credere che esista, no? Insomma, se dico "porco Zeus", o "porco Uomo Nero" fa ridere, no? Invece se invoco Iddio usando una delle designazioni ufficiali registrate nei maggiori testi sacri sollevo frotte di sopracciglia, soprattultto le mie, pelose come bruchi d’alta quota.

E ora che ci penso bene, se è così – e io so che è così, è come se me lo sentissi dentro, se me lo dicesse una voce – quale migliore prova di fede, segno di dedizione, simbolo di devozione di un bel Porco per trattare la divinità come l’amico del baretto, quello che ti sta simpatico, ma non ti puoi fare vedere meno figo di lui? Per fare vedere in ultima analisi che ti ci senti superiore (che poi ovvio che non è vero, ma l’importante è darla a bere), ma in fondo in fondo gli vuoi bene. Con la distanza solamente apparente che può esistere solo fra uomini veri, proprio come quelli che salvano le anfore con dentro il Montenegro.

martedì 23 febbraio 2010

Sulla meteoropatia

Quando mi dici che non soffri la metereopatia, tu non lo sai, ma non è mica vero.
Perché se lavori in un ufficio te ne accorgi che basta che un dieci per cento degli impiegati sia giù di morale per trascinarsi dietro gli altri. Ci sono giorni in cui tutti sono allegri e, qui nei paesi dove il sole lo si vede poco, il novantapercento delle volte succede quando c’è il sole. Ci sono giorni in cui sono tutti tristi e quelli sono sempre giorni in cui piove, ma manco tutti, perché non si può mica essere tristi sempre, no? È questo il segreto della vita nei paesi dove piove sempre. Magari in Italia può esserci il sole e tu ti deprimi, ma qui ti dico io che non ti succede.

Tutto questo perché mi si chiedeva come faccio a vivere lassù.

Poi magari le cose vanno relativizzate, ma quello sarebbe un altro discorso.

giovedì 18 febbraio 2010

Giocoforza

Entrepotdok mi è sempre piaciuto. È una specie di isolotto superespanso negli anni, tanto da disinsularizzarsi trasformando l’acqua che lo distingue dalla terraferma in semplici canali. Entrepotdok ha perso la dignità di isola, ma ha guadagnato una vista ampia e diretta su okapi, gazzelle a altre bestie del settore africano dello zoo d’Amsterdàm. Ma non è un posto così esotico, anzi, è completamente ricoperto di quei mattoni marrone violaceo che identificano tutto ciò che è tradizionalmente olandese. Fino al 1890 l’isola era presidiata da 84 magazzini per la merce trasportata su supporto galleggiante, poi, negli anni ’80 i magazzini, ognuno con il nome di una città olandese o belga, sono stati convertiti in abitazioni, bar e negozi. Della storia commerciale restano una gru cabinata e un ponte sollevabile di metallo, monumenti di preistoria industriale.

A Entrepotdok, al piano terra del magazzino Eindhoven, ci sarebbe la Bonardi, che è l’unica libreria italiana in questa nazione acquatica quassù. La Bonardi è uno di quei negozi dove non compreresti mai nulla, ma è bello che ci siano. Non ci compreresti nulla perché i prezzi sono un paio di euro più alti di quelli delle librerie elettroniche italiane, spese di spedizione incluse. In più i libri sono spesso sdruciti e ingialliti, quindi non è certo il posto per risparmiatori o collezionisti. Però, si diceva, è bello che ci sia. È bello fare un giro fra volumi in lingua italiana, toccarli, leggere un paio di pagine, soppesare e sceglierne uno o due fra cinque, potendo averli tutti a portata di mano. Per questo, come succede nei negozi che è bello che ci siano, ma non ci compreresti mai nulla, va a finire che spesso qualcosa lo si compra. L’importante è non partire con l'idea di farlo.


Ci sono stato una settimana fa, alla Bonardi, a fare un giro, parlare italiano con la commessa, ascoltare la stessa commessa parlare italiano con altri. Cose che se stai all’estero da un po’ apprezzi. Ho buttato l’occhio qua e là, soprattutto sui libri in offerta, ne ho aperto uno sui blog e sfogliando l’introduzione mi è caduto l'occhio sulla parola “giocoforza”. Così mi sono chiesto perché. Perché dire “giocoforza”, invece di “per forza”, “necessariamente”. Perché vabbè, la forza si spiega da sola, ma il gioco?

È una parola che può usare uno che è convinto che a parlar forbito si arringhino le folle. E su questo siamo d’accordo, solo che "giocoforza” non è parlar forbito. “Giocoforza” è come “egli” o “giuoco”, una ribellione al decorso naturale della lingua. Chi la vuol leggere un’introduzione scritta da qualcuno che dice “giocoforza”?

E infatti alla fine il libro l’ho comprato. Raccolta di racconti scritti da blogghettari nel 2004. Da notare che nessuno dei blog menzionati nel libro esiste più dopo cinque brevi anni. Da notare anche che nei primi cinque racconti ho trovato davvero poco. Sembra che gli autori siano stati strappati con la forza al loro blog per scrivere un temino utile soprattutto per promuovere il blog.

Poi mi chiedo cosa mi aspettavo da una raccolta di racconti selezionati da una che dice “giocoforza”.

domenica 14 febbraio 2010

Disobbedienti

In Canada, dal lato di là, ci sarebbero le Olimpiadi invernali.
Gaudio! Tempo di Armin Zoegeler, curling, vin brulè, short track e bobbismo giamaicano.
Non male, ma come in ogni avvenimento di portata globale, ci devono per forza essere i rompicoglioni.

Rompicoglioni è un termine semanticamente esteso che in questo caso identifica quelli che il vero sballo è dire no, quelli che comunque vadano le cose sono contro. Ho visto la foto di uno striscione che diceva “Prima delle Olimpiadi, pensate alla fame nel mondo”. Roba che stai sicuro, che se anche politici, vip e Obama dicessero “va bene, risolviamo sta fame nel mondo”, una volta risolto il problema ti trovi davanti la stessa persona che ha raschiato lo striscione e ci ha scritto sopra "Prima delle Olimpiadi, pensate ai senzatetto”. Allora politici, vip e anche Obama pensano che la gente, se gli dai una mano, poi si prende tutto il braccio.

E siccome politici, vip e pure Obama questa cosa la sanno fin dall’inizio, non si preoccupano neanche di risolvere il problema della fame nel mondo, per non dover poi pensare anche ai senzatetto. Catalogano il tipo con lo striscione sotto la categoria telegiornalistica dei Disobbedienti, quelli che comunque vadano le cose dicono di no.

E questo, frateli e sorele, è lo stesso discorso che rivolgo a voi, quando firmate l’ennesima petizione della Repubblica o quando vi iscrivete su Facebook al gruppo per scoprire la verità su Ustica.

Poi c’è anche da dire che non puoi neanche pretendere che uno prenda sul serio una cosa che non ti costa nulla e ti ruba mezzo minuto.

Come dice mio nonno, “i mistéri, o che se se’i fa ben, o che se fa ‘n de men de farli”: quando ti dedichi ad un’attività, fratelo, sorela, fallo fino in fondo o desisti fin dal principio.

Manifestare e aprire gruppi su Facebook sono cose che fanno già milioni di persone. È il cervellino che dovresti usare diversamente, in modo più trasversale.

E non chiedermi come, che non ne ho idea. Faccio per dire.

mercoledì 10 febbraio 2010

La vecchia pazza di Chiesavecchia sull'Amstel

A Chiesavecchia sull’Amstel ci abiti se sei olandese, ricco e anziano. Per i primi Chiesavecchia sorge in mezzo alla natura, ma sempre senza perdere di vista lo stadio e offre un mondo com’era ai bei tempi, quando invece di stare bene come ora si stava supermegabene. I secondi possono trovare tante casette accoglienti e luminose con giardino d’ordinanza, ristoranti esclusivi e attracchi per oggetti galleggianti. Per i terzi basta la lontananza dal corrotto centro d’Amsterdàm.

Io per la cronaca non ci abito, ma cinque volte in settimana ci accendo un computer che ha come sfondo una fotografia delle Dolomiti dalla finestra del bagno dei miei. Poi lavoricchio con calma, faccio qualche telefonata e qualche ora dopo il paese lo lascio per tornare a casa, anche se so che il giorno dopo ci tornerò.

Chiesavecchia è un ottimo esempio per interrompere chi attacca con i soliti monologhi che cominciano affermando che qui tutti parlano inglese e di solito proseguono dicendo che se provi a parlare olandese la gente ti risponde in inglese. A Chiesavecchia non si parla inglese. Neanche se lo si sa, come la cassiera del Plus, quella che sopra il seno porta steso un cartellino con scritto Corrina e che dopo più di un anno e mezzo nell’idioma autoctono interviene nella lingua di Bristol e Bangalore per dirci che visto che siamo clienti fedeli può darci il doppio dei bollini per vincere l'animaletto di pezza. In olandese non avremmo capito il discorso, così dopo aver visto lo sguardo crucciato di Lilù, ha intuito una situazione di necessità e solo allora è intervenuta con la lingua di sicurezza. Il giorno dopo ero in fila da Marija, ma dietro la schiena ho sentito Corrina dire a Bernd, che come tutti i tedeschi l’olandese lo parla, di portare i punti alla ragazza che parla inglese.

A Chiesavecchia ho avuto l’illuminazione di mettermi a studiarla, la loro lingua, il giorno in cui nel municipio di mattoni marroni sono riuscito a farmi dare la patente olandese parlando una specie di pidgin tedesco. Era un’offerta troppo allettante, da 3 x 2, compra inglese e tedesco e ricevi l’olandese quasi gratis.

E mi sono perso di nuovo, perché non è di lingue che volevo parlare, ma di pazzi. Perché di pazzi ne girano parecchi sui banchi selvatici del fiume che si chiama come la birra. Per lo più si tratta di demenza senile. Su tutti svetta la vecchietta colorata, che gira ogni giorno con vestiti diversi, sempre colorati, arancio, verdi, rossi, di foggia assurda. Cappelli arancio che le colano addosso, giacconi di pelopiuma fuxia, campanelli, stivali di gomma fosforescenti. La vecchietta colorata passa quasi ogni giorno e tutti le vogliono bene. Perché qui l’emarginazione non dico che non ci sia, ma i suoi criteri non si basano certo sulla stranezza. La vecchietta conosce tutti, parla con tutti. Gira per strada e tutti la salutano. Lei fa appena un cenno, ma in compenso libera un sorriso rasserenante.

E la vecchietta l’ho incrociata anche oggi, proprio sulla soglia del Plus. Che poi ti chiedi se le porte elettroniche, quelle che si aprono da sole, ce l’hanno una soglia. Mi sa di sì. Comunque la vecchietta, oltre alla consueta impalcatura di vestiti, aveva una borsa di lattice arancione con grandi buchi, con topi di plastica arrampicati a mezz’asta.

L’ho guardata mentre parlava con qualche mefràu e mi è venuta in mente sta cosa, così, dopo tutto sto tempo che la vedo in giro. Vuoi mettere, mi è venuto in mente, vuoi mettere che la vecchietta non è matta? Vuoi mettere che sembra pazza per noi, che non capendo cosa dice la dobbiamo giudicare dai vestiti?

E mi sa che è proprio così, non è pazza la vecchietta. Se prendo coraggio provo a parlarle in inglese, per vedere se c’è o ci fa. Secondo me lo parla, lei, l'inglese. Basta solo incoraggiarla. Altrimenti non saprò mai se è matta o normale.

domenica 7 febbraio 2010

Cordoni sanitari

In Overtoom ci sarebbe sto centro sociale con un corridoio all’aperto di una trentina di metri, con un cordone sanitario di buttafuori che invece di esibire le palestrature si portano l’indice davanti alla bocca per far segno di star zitti, che i vicini dormono. Tanto le palestrature si vedono comunque, ma è come vedere un bambino di 5 anni tutto ciccio di muscoli.

E questo vabbè, la cosa pazzesca è che la gente tace davvero. Cioè, gente che va a un concerto regghi, gente che minimo minimo prima, durante e anche dopo si fa le sigarette aromatiche. Ci sarebbe sto ragazzo italiano che vabbè, è mezzo ebbro, però dimostra la sua ammirazione ai buttafuori, uno dopo l’altro, per la loro riuscita in cotanta impresa.

In questo centro sociale è possibile tra l’altro avvistare un metallaro, capelli lunghissimi, canotta nera a spalline, scarponi da naja e aratura, presissimo a ballare il regghi. Roba che in Val di Sole, che è ovviamente la patria del metal, roba che se ci fosse la hit parade della Val di Sole, che peraltro non c’è perché non ci sono negozi di dischi, stabile alla prima posizione ci trovi minimo minimo i Sepultura. Però ai solandri se gli dici regghi, loro dicono picche.

E poi dicono che tutto il mondo è paese. A parte che la Val di Sole di paesi ne ha dentro diversi.

giovedì 4 febbraio 2010

Spendere soldi

In Trentino si dice che i nònesi siano tirchi. Pare che sia stato uno di Fondo a vendere Cesare Battisti agli austriaci. Cesare Battisti quello delle vie, non quello che se ne sta in Brasile e vorrebbero libero perché in carcere ha tempo di scrivere libri. Libri a parte, dicono che il motivo sia quello, per dire che i nonesi sono tirchi. Sarà, ma per me i solandri sono peggio.

Comunque io più che tirchio sono ascetico, nel senso che, per citare Cherubini, non c’è gnente che ho bisogno.
Però la cosa sfava. Perché i miei amici si comprano tutte ste cose, fanno piani e progetti mentre io me ne sto qui e vivo di internet e crechers, che sono uno gratis e l’altro più a buon mercato del pane.
Così un po’ alla volta, ho deciso di spenderli, sti soldi, che non è che ne guadagni così tanti, ma a non usarli mi si inflazionano e fra qualche anno non ci compro più niente. Come dire che è l’avarizia a spingermi a spendere.

Ho cominciato con i vestiti. Da quando sono rimasto singolo ho deciso di aiutarmi a prevenire l’ingresso nella mia vita di ragazze normali, scoraggiandole con un abbigliamento fatto di roba di seconda mano (che tanto costa come quella nuova) e scarpe colorate. Sono partito con le magliette dell’Acca & Emme, quelle monocromatiche da abbinare, con l’etichetta con un Made in sempre diverso. Ho preso un Bangladesh, una Lituania e una Polonia, al prezzo totale di €15 meno 30 centesimi, poi, sempre nel segno dell’etica, ho deciso di evolvermi e passare alla policromia. Due, tre, anche quattro colori, ma sempre a colori, da avere sempre una tinta pronta per ogni giorno, tanto che ora la mattina a vestirmi ci metto un quarto d’ora. Ho perfino comprato un paio di scarpe, che ormai sopravvivevo da mesi con le Onitsuka blunerobiancogialle con il buco in bella vista sul cofano.

Sui libri invece non ci ho mai risparmiato e da quel punto di vista non c’è stato bisogno di spingermi più di tanto. Mi sono addentrato nei meandri delle librerie online italiane, senza per forza aspettare di tornare a casa con la valigia vuota per non pagare spese di spedizione e usufruire dello sconto parenti alla liberia di mia cugina.

La vera novità sono i divvuddì. Io film non ne guardo, non per snobberia, ma perché non sarò mai in grado di passare due ore seduto a fare la stessa cosa. Il divvuddì è meglio del cinema, perché posso premere il pulsante con i due rettangolini verticali ogni volta che faccio una pausa pisciata, o vado a prendermi una belga dal frigo, o controllo il risultato del posticipo su internet, ma resta sempre il problema del supporto, perché anche se occasionalmente posso rimanere in apnea per un film intero, non ce la farò comunque mai a rivederlo un’altra volta. E non mi piace comprare ad occhi chiusi. Però ultimamente ho deciso che volevo rivedere Down by Law, perché ho sempre adorato chi smerda le persone serie sparando cazzate e anche, diciamocelo, signora mia, perché un Jarmusch in salotto conferisce un certo tono, là fra i sessi e le città di Lilù, la storia sociopolitica del calcio, il Trans-Siberian Handbook e il ciddì di Felix Lalù. Allora ho deciso di comprarmi il cofanetto con tutti i film, così ho anche quello sulla turnè di Nigliang, quello sui tassisti di notte e comunque 50 euro diviso 9 dischi fa tipo 5 euro a cerchio.