giovedì 22 gennaio 2009

Vita di provincia


Ho appena finito uno dei migliori libri da comodino che abbia mai avuto, “La leggenda dei monti naviganti” di Paolo Rumiz.
Di Rumiz ho già parlato, giornalista di Repubblica con una passione per l’epica del viaggio. Pagato per viaggiare e raccontare cosa vede. Se Iddio o Aladino mi offrissero di scegliermi un lavoro, quello sceglierei. Altro che cantanti, calciatori e pornoattori.

“La leggenda dei monti naviganti” unisce due viaggi, uno lungo le Alpi, dalla Slovenia alla Liguria, e uno a zig zag fra gli Appennini, partendo dove le due catene montuose si incontrano fino a Capo Sud, Calabria. Il tema è la vicinanza fra i monti italiani e il mare, con le montagne che fra Trieste e la Slovenia incontrano l'Adriatico, si incagliano nel Tirreno in Liguria e in Calabria si inabissano fra Ionio e Tirreno. Il resto è navigazione a vista a bordo di una Topolino blu scuro, fra fossili di pesci ad alta quota e paesi che sembrano transatlantici.

Rumiz passa a un paio di chilometri da casa mia, nomina addirittura gente che conosco, incontra "il Corona" (Mauro), ma sono le tappe appenniniche ad affascinare veramente.
Si scopre un mondo che non si può dire perduto, per il semplice motivo che non è mai stato scoperto: paesi sconosciuti che non hanno mai avuto squadre in serie A o B (ok, tranne il Castel di Sangro), la profonda provincia.

Ed è bello leggere della provincia perché l’Italia è soprattutto provincia. Per fortuna in Italia non abbiamo metropoli, solo Milano, forse Torino, magari Genova. Roma, Napoli e Palermo hanno troppa personalità locale per essere metropoli. I muscoli dell’Italia economica e industriale li trovi alla Fiat di Torino, ma l’anima e il cuore sono a Maranello (MO).

Un altro grande viaggiatore con carta e penna, Ryszard Kapuściński, scrive che "provinciale è una persona la cui visione del mondo è delineata da una particolare zona marginale alla quale ascrive un'importanza eccessiva, universalizzando erroneamente il particolare". È così dappertutto. Un milanese dà troppa importanza a Milano, un molisano immagina che il mondo ruoti attorno a Isernia. E allora forse l'unico modo per uscire dalla provincia è venire a contatto con i forestieri. Oppure essere forestieri, ma questo è un altro discorso.

Ma poi, chi ha detto che essere provinciali sia una cosa negativa? Beh, lo è nell'accezione citata in precedenza, ma la cosa ha anche i suoi lati positivi. L'isolamento porta a sviluppare una visione personale del mondo, quindi a tante province corrispondono tante culture diverse.

In fondo, anche a chi abita in città piace la provincia, solo che invece di "provinciale" dice "etnico". Quanto sono etnici polenta, fegatelli e arancini! Altro che il sushi nella versione che i giapponesi di New York passano a quelli di Milano. Quanto sono world music i cori sardi e quelli alpini, che non si prestano ad abomini stile Buddha bar.

La polenta e i cori alpini sono provinciali in quanto espressioni di una cultura particolare, locale. Il sushi è stato preso dal locale e reso internazionale contaminandolo. E non è una cosa negativa, solo che per continuare ad internazionalizzare servono idee locali sempre nuove. Sul Buddha bar invece stendiamo il solito pietoso doppio velo.

Comunque per me il bello della provincia sono le idee. A casa mia c'è tutta una serie di personaggi che incarnano lo spirito locale, vivendo in modo inedito, personale, privo di stimoli esterni. È gente molto intelligente, che non ha avuto gli stimoli per sviluppare questa intelligenza verso l'esterno e allora ha sfruttato al massimo i pochi spunti locali che aveva a disposizione, secondo canoni che sono personali in quanto privi di influenze esterne.

Ne scrive anche Rumiz: in Italia i geni sono posizionati male, fuori da istituti e università, ma nel giardino di casa a costruire marchingegni e opere d'arte da regalare a sconosciuti. Ci sono centinaia di geni chiusi in un cortile lungo un ruscello.
L'esempio più ovvio è il Corona, che scolpisce e scrive come solo uno che vive nei boschi potrebbe fare. Ma anche solo nel mio paese c'è tutta una serie di personaggi con una visione della vita degna di essere espressa, ma ai quali non verrebbe mai in mente di scrivere o scolpire. Mi viene in mente un tipo che ora è morto. Nei suoi ultimi anni di vita si era appropriato di un angolo quasi impenetrabile di bosco, in fondo alla valle, lungo il nostro fiume che la gente chiama torrente, aveva trasformato una sorgente in fontana e pulito il bosco, creandosi una specie di giardino segreto. La casa di un artista. Solo che nessuno gli aveva mai detto che avrebbe potuto essere un artista. E comunque probabilmente non gliene sarebbe fregato più di tanto, perché gli artisti sono tutti matti, buoni solo se fanno ridere.

Queste persone sono spesso anziane, perché i giovani hanno ampliato la loro visione del mondo con tv e mezzi elettronici.
Ad esempio, è piuttosto evidente come internet e lo scaricamento gratuito di musica abbiano influenzato la scena locale.
Ai miei tempi i metallari conoscevano solo i Metallica, i punk solo i Sex Pistols e i grunge mescolavano i due precedenti con dosi industriali di Nirvana. Altro non c'era. Alle feste giravano i soliti cinque o sei cd. E comunque era già molto di più di quello che avevano a disposizione le generazioni precedenti.
Ora invece ogni volta che torno a casa mi stupisco, gente che suona trip-hop (l'elettronica raffinata non era mai esistita nelle Valli, vigeva l'equazione elettronico = tamarro e quindi tamarro duro o niente) e in generale tutti quei generi musicali non estremi che prima non avevano mai avuto successo (pop-rock, art rock ecc.)
Meglio che mi costringa a fermarmi qui sull'argomento, se no rischio di andare avanti per pagine.

La provincia è la prima frontiera. Il che lo ammetto, potrebbe suonare strano detto da uno che ha passato le ultime settimane parlando solo di uscire dall’Europa. Solo non vedo l’ora di confrontare la provincia di Ulan Bator con quella di Trento.
Il che poi risulta ancora più comodo se fatto dalla comodità di una capitale europea come Amsterdamia.

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