mercoledì 30 giugno 2010

Di ritorno

Calcio a parte, sarei tornato.

Ho visto diverse cose, risaie nel deserto, minareti che sembrano della Thun, madrasse con portali che occupano pareti e montagne che dici, Bin Laden, ah, ecco dov’era.

Ma per una volta, più dello stimolo visivo, è la gente che mi ha colpito.
Da quelle parti, alla gente non le sfuggi, sono curiosi e si sentono onorati che una che viene da Parigi abbia preso l’aereo per andare a visitare le loro case stuccate con fango e paglia (la Val di Non invece sembra non impressionare più di tanto). Per strada fanno Hello Hello e chiedono da dove vieni. Anglia? Amerika? Fransia? Alché parte lo sdegnato “Lei Fransia, io Italija”. E hai voglia spiegargli che no, non siamo sposati, ma andiamo in giro insieme uguale, perché da noi è uso.

Il nostro mondo, quello americano, che l’anno scorso avevo trovato fino in Mongolia, qui non è arrivato. Mai visto così poche televisoni in giro. Sarà un caso?

Con l’America, manca la cultura dell’imposizione di se stessi. Mancano le macchine con l’autoradio a palla, i muscoli messi in mostra (per quanto la cosa sia tanto sovietica quanto americana), la gente che si atteggia da rappista criminale, restano le cose pulite, sorrisi d’oro, metaforicamente, ma soprattutto metallurgicamente, senza timore di sembrare deboli, mani protese, mani sul cuore, schernirsi quando dici che il loro paese è più bello di quanto credano.

La modestia conferisce per osmosi una serie di altri pregi. Saper ascoltare, chiedere cose. La gente è curiosa, che è una cosa bella, perché se sei curioso vuol dire che ti interessano le cose, che sei intelligente.

Ho avuto l'impressione che gli uzbechi rispettino i turisti in quanto gente che si interessa di conoscere la loro terra, anche perché loro stessi si muovono per vedere. Per una volta, come turista, non mi sono sentito come se fossi entrato in chiesa in costume da bagno.

Gli uzbechi sono come gli abitanti di quell’arcadia agricola che descrivono i miei nonni quando parlano della loro gioventù. Poveri e relativamente belli, ma soprattutto buona gente. Ti ci senti a casa in un attimo.

sabato 26 giugno 2010

Slovacchia

Proprio come la vita, anche le sue migliori metafore possono riservare sorprese.
Anche se sai di essere preparato, anche se è ovvio che non può andare come quattro anni fa, e infatti mezza Italia ha giocato d’anticipo e ancora prima di partire ha posto la firma in calce al proprio Te lo avevo detto. E poiché il carro dei vincitori tira più di uno di buoi, la moda dell’estate è tifare contro (attendo articoletto sulla colonna destra di Repubblica.it).

Un italiano all’estero non può tifare contro, ma può prepararsi psicologicamente. Metti in conto l’ovvio pareggio con la Nuova Zelanda, visto a casa de Davide, con i genitori suoi collegati tutto il tempo via Skype e il gaudio degli ospiti stranieri, perché la cosa fa tanto etnico italiano e fa colore dire "ho visto l'Italia con degli italiani veri”, mangiando caprese con le olive al posto del basilico.

È all’ultimo che anche il più previdente degli spiriti deve capitolare. Il pronostico sembra ovvio: se bastano tre pareggi per qualificarsi agli ottavi, cosa potrebbe essere più tipico della nostra nazionale di farlo? Minimo sforzo, massimo risultato, zero fatica. Poi magari si incontra il Giappone e lo si sottovaluta abbastanza da uscire là, ma per ora non esistono poi e l’importante non è vincere, ma fare meglio della Francia.

Così uno si prepara. Con la fortuna di avere un datore di lavoro che è un ex telecronista, basta lavorare una mattinata a ritmi da tigre asiatica per purificare la posta elettronica. Già alle 3.30 la giornata è virtualmente finita e, insieme alla collega slovacca, comincia uno snervante prepartita. Il rischio non è perdere, ma che l’altra partita non termini in pareggio, così che ci tocchi vincere per qualificarci.

L’inno slovacco risuona di consonanti dissonanti nel cucinino dell’ufficio di Chiesavecchia sull’Amstel. Quello italiano meno, perché pronto alla morte in caso ci sarai tu. Seguono dieci minuti nei quali i ragazzi sembrano esserci e la prima emozione arriva all’undicesimo: la caporeparto fa il suo ingresso in cucina, con lo sguardo sereno di chi non tifa per nessuna delle due squadre in gioco. Quando mi invita a tornare al posto di lavoro perché il Cliente ci ha mandato dei commenti sulla traduzione finlandese del suo sito, penso ad un’email da inviare al traduttore, e poi si torna davanti alla tv.

Invece no. Pare che qualcuno abbia pensato bene di fargli sapere quanto facesse schifo la nostra traduzione, tanto da richiedere di poter accedere al sito in inglese. Mentre scopro di essere inseguito dalle tre cariche più rompicoglioni dell’azienda, da tre capi del globo, sento un urlo. La voce roca da koala della slovacca, accompagnata dal fischio della spagnola solidale alla causa non lasciano dubbi. Gol, cazzo, gol, e a me della traduzione finlandese che me ne frega più?

Ma la caporeparto non è dello stesso avviso. Dopo mezz’ora di telefonata nella quale mi si chiede solo – ma in compenso ripetutamente – come sia potuto succedere il misfatto, l’unica domanda alla quale non posso rispondere, mi viene richiesto di contattare tutti i traduttori finlandesi, sottoporli ad un cazziatone verbale e cartaceo, richiedere i civvì e cercare qualcuno che possa tappare i buchi revisionando con estrema urgenza, peraltro nel periodo dell’anno in cui la Scandinavia è chiusa per celebrare la festa pagana dell’estate.

Non so a cosa pensare. L’immagine della faccia bovina di Di Natale mi impedisce di concentrarmi. Quando mi chiamano da Londra non posso fare altro che chiedermi se Buffon sarebbe stato in grado di parare il tiro sul gol e riesco solo a rispondere sì, sì ad ogni ordine, richiesta e insulto.

Probabilmente anche il mio interlocutore deve aver sentito il mio nome, urlato con voce marsupiale dalla cucina, in occasione del secondo gol slovacco. Forse scambiandola per quella irata del capo dei capi, pronto a somministrarmi quello che mi merito per l’errore degli errori, vengo lasciato quasi subito libero di correre incontro alla mia sorte.

A questo punto, sul due a zero, mi rassegno, meglio così, torno a lavorare, ma quando arriva il 2-1 il mio povero, emozionale, cuore nordlatino, mi impedisce di proseguire in qualsiasi cosa, partita o lavoro. Non potendomi smaterializzare, scelgo la più passiva delle due attività e mi rannicchio sulla poltroncina ad insultare a turno gli ex eroi di Germania 2006. La caporeparto è al telefono, coinvolta in una nuova serie di “come è potuto accadere” e posso rimanere indisturbato fino al terzo gol slovacco, quando, in silenzio, somministro la giusta lezione ad un rotolo di carta igienica e me ne torno a sfoltire l’inbox.

E poi arriva il 3 a 2 e il resto è solo violenza verbale, forse più contro chi lo ha segnato rigettandomi nella frustrazione della speranza inesaudita.
Al termine della partita la commozione è tanta. A Londra neanche si rendono conto che il loro rischio di perdere un Cliente importante ha la dimensione di uno dei mille occhi di una mosca in confronto al mio dolore biancorossoblu, come i colori di Paraguay, Nuova Zelanda, Slovacchia.

Il giorno dopo, in ufficio, ci si renderà conto che la traduzione cannata non è frutto delle nostre preziose risorse, ma opera di un’altra agenzia. Meglio così, avrei rischiato di vedere tutta la partita.