martedì 27 maggio 2008

apologia del calcio, ovvero materazzi è il nuovo kofi annan



mi ha appena scritto claire.

claire è una di quelle persone che parlano poco perché avrebbero troppo da dire. claire viene da birmingham e a 30 anni è professoressa ordinaria di civiltà della grecia antica al trinity college di dublino. mica seghe.

e cosa vi aspettate che scriva una persona così in un’e-mail? un elogio della collezione del british museum? beh, è successo, ma non stavolta. in quella mail claire mi ha scritto della sua tristezza perché l’inghilterra non parteciperà all’europeo di calcio e del fatto che il calcio è la cosa più bella al mondo. dovrei darle torto? ad una come lei? no, anche perché sono pienamente d'accordo.

mi direte, il calcio è tutta una mafia. vero. la fifa, come tutti i grandi organismi multinazionali (domandone da gerry scotti: chi ha più membri, la nato, l’onu o la fifa? la accendiamo?) è soggetta ad una battaglia interna per il potere globale. la differenza è che all’interno della fifa ogni membro, dall’italia alla nuova caledonia, ha la stessa misura di potere. questo implica che all’interno della fifa l’africa, che ha molti più stati membri dell’europa, ha più potere di quest’ultima e può quindi richiedere più squadre alle competizioni internazionali e più fondi..

una delle cose più belle del calcio è proprio dovuta a questo fattore. il calcio è onnipresente. quanti abitanti hanno guam o vanuatu? sicuramente meno di centomila, per lo più rugbofili, eppure sia guam che vanuatu hanno una nazionale di calcio. che guam abbia perso 17 - 0 dal tagikistan ha poca importanza, l’importante è partecipare. per la classifica fifa 1 - 0 e 17 - 0 è uguale. l’importante è vincere qualche partita, e quando i tuoi avversari sono le maldive, timor est e il bhutan, ogni tanto capita anche di vincere. gli unici sfigati sono i sanmarinesi, che giocando in europa non vincono proprio mai. ma nonostante questo negli ultimi dieci anni sono riusciti a portare inghilterra, spagna e germania a giocare allo stadio di serravalle, trentacinquemila posti. sono sicuro che a guam accetterebbero volentieri uno scambio.

anche grazie alla sua universalità, il calcio unisce. da anni sono appassionato di calcio dei poveri e appena incontro una persona nuova proveniente da qualche città europea e non, se riesco a farlo, per prima cosa gli dico il nome della squadra di calcio del suo paese. solitamente, se gliene frega qualcosa di calcio, la persona è contenta e inorgoglita. perché la bandiera del calcio spesso è più forte di quella nazionale. i risultati sul campo sono l’unico modo per mettere a confronto due comuni rivali e stabilire quale è il migliore. sarà anche per questo che ogni minuscolo paese ha una squadra? sono stato sulle isole aran, circa 400 abitanti, per lo più appassionati di hurling, calcio gaelico e rugby. eppure in un campo sghembo e in preda al vento atlantico spuntavano due porte da calcio.

mi ritengo fortunato, oltre che per il fatto che fortunato è il mio soprannome di famiglia, anche perché ho avuto il privilegio di seguire i mondiali del duemilasei all’estero. i mondiali sono l'altare del calcio e seguirli in italia è bello, perché per una volta tutti tifano per la stessa squadra. ma seguirli all'estero è meglio, vedere italia - ghana con i ghanesi è tutta un’altra storia. al pub king’s head di galway, irlanda, anche angola aveva i suoi sostenitori. gli svedesi con le facce dipinte, gli australiani che manco ci credevano di partecipare ad un mondiale in cui il pallone è rotondo, gli ucraini rumorosissimi a festeggiare l’incapacità degli svizzeri, che li ha fatti arrivare ai quarti di finale. e fino alla finale un’atmosfera davvero amichevole. i tedeschi offrono birra agli italiani, gli argentini si incazzano neri, ma gli basta una sigaretta per calmarsi, gli inglesi lasciamoli nel loro brodo, che per una volta ci pensano già gli irlandesi a demolirli. sui francesi invece stendiamo un pietoso doppio velo e ringraziamo materazzi, santo protettore degli italiani all’estero, ma ogni regola vuole la sua eccezione.

per un mese mi sono tappato nel pub, rinunciando a quel poco sole che l’estate irlandese può concedere. e ne è valsa la pena. la festa dopo la finale, ma anche e soprattutto la gioia degli angolani per un punto contro l'ex madrepatria lusitana, il ghana qualificato agli ottavi, i polacchi allegri anche perdendo tre partite su tre, tanto la vodka disinfetta ogni male.

ora sono appena arrivato in olanda e vedo già un’atmosfera propizia. gli olandesi sono colorati, pacifici e da buon milanista mi basterà dire gullit e van basten per farmeli amici, ancora memori dell'estate dell'88. e poi in autunno avanti ancora. l’italia incontrerà cipro alle qualificazioni per i prossimi mondiali. e un giorno anche san marino vincerà e sarà festa grande. e chissà chi arriverà ai mondiali del 2010. comunque vada qualcuno esulterà. e se sarà delusione, almeno a guam, durerà solo fino alla prossima speranza.

santo materazzi, protettore degli italiani all’estero, proteggici tu.







in foto, nazionali di guam, vanuatu, san marino. visto che non è frutto della mia fantasia?

lunedì 5 maggio 2008

vivere e lavorare in irlanda

ogni volta che torno in italia mi diverto a leggere le statistiche sui paesi più vivibili d'europa.

statistiche di questo genere sono oro per i giornali, perché permettono di semplificare un discorso complicato come quello sul benessere e di sparare a zero sulle condizioni del nostro sudato paese.

in queste statistiche la cara vecchia irlanda risulta invariabilmente uno dei paesi più virtuosi.

a dire il vero, per chi in irlanda ci vive la cosa non può che far sorridere, come un appassionato di vini che smaschera un sedicente sommellier.

ovviamente in queste statistiche l'indicatore principale della vivibilità di un paese è il suo stato economico e non si può negare che gli irlandesi siano ricchi.

le prime due cifre delle targhe automobilistiche irlandesi riportano l'anno d'acquisto ed è facile notare come la maggior parte dei veicoli circolanti siano stati acquistati in tempi recenti. inoltre, mentre le targhe degli anni novanta sembrano appartenere quasi solo a piccole utilitarie giapponesi come la gloriosa toyota starlet o la nissan “maicra”, i modelli più recenti sono solitamente suv o berline imponenti, dotate di tutti gli optional disponibili.

inoltre gli irlandesi, come noi italiani, tendono a comprare casa appena possono. le case, di qualità solitamente infima in quanto costruite con la foga di chi non vuole perdersi la sua fetta di età dell'oro, raggiungono costi al limite del grottesco. così capita che una casetta gigiastra di due piani per quattro finestre, posta poco fuori dal centro di galway, su una strada trafficata e di fronte ad un supermercato, raggiunga il mezzo milione di euro.

questa casa qualcuno l'ha comprata, quindi a quanto pare i soldi non mancano. vero, ma è vero anche che è tradizione spendere tutto quello che si guadagna e ancora di più. la ricchezza viene presentata come un diritto e se non si può godere del diritto alla ricchezza, allora ci si sente giustificati a contrarre debiti. pare che qualcuno abbia detto che “finché ci sono soldi, vale la pena spenderli, non si sa mai che un giorno finiscano”.

due delle caratteristiche della mentalità irlandese sono l'ottimismo e la tendenza a non concentrarsi sul futuro, perché comunque vadano le cose “you'll be fine”. ma forse un po' di ottimismo farebbe bene anche quaggiù?

trovare lavoro è comunque molto facile nei settori specializzati. ingegneri, medici, docenti universitari e dirigenti, anche senza esperienza, hanno ottime possibilità di crescita professionale.

j, laureato in informatica, mi ha raccontato di una malattia agli occhi che gli impedisce di lavorare al computer. ha così cominciato da zero come operaio in un cantiere, per poi progredire fino a diventare ingegnere edile, senza laurea in ingegneria. ora j partecipa al progetto del nuovo stadio di limerick.

probabilmente, la ragione principale di questa richiesta di personale qualificato è il basso livello del sistema educativo.

f, un amico che insegna all'università di limerick mi ha raccontato di studenti al secondo anno di ingegneria che sono rimasti spiazzati di fronte alla parola logaritmo. una sedicenne del mio paese, in irlanda per uno scambio scolastico, mi ha parlato di lezioni troppo semplici, anche per chi non conosce bene l'inglese.

più ancora dello stato, sembrano essere le famiglie a non investire nei figli. i bambini irlandesi crescono liberi e in gruppo, come il paddy clarke di roddy doyle. l'assenza delle famiglie è subito evidente per gli stranieri, colpiti per prima cosa da abitudini come sputare per strada, parlare mentre si sbadiglia (o almeno emettere un verso straziato per colmare il silenzio), tirare su col naso e mangiare a bocca aperta.

questa carenza di attenzione verso il singolo è compensata da una maggiore attenzione posta sulla dimensione comunitaria. l'irlandese vive in gruppo, è fedele agli amici più che alla famiglia e ha una grande abilità nell'attaccare discorso con gli sconosciuti.

in realtà il gruppo è l'unica salvezza in un mondo fatto di scarsità di stimoli, passività e poca lungimiranza, uniti al disordine e al degrado che si vive al di fuori dei pub e delle zone turistiche.

purtroppo questa dimensione sociale trova il suo apice nella vera passione nazionale: non la birra o il whiskey, ma il bere. bere per essere ancora più sciolti, bere spesso come costrizione, perché o bevono tutti o non beve nessuno, e la seconda non è un'opzione. gli irlandesi parlano di bere con passione e complicità. tutte le sciocchezze fatte o dette in stato di ebbrezza vengono perdonate. l'ubriacatura è sociale e democratica. alle feste aziendali bere è una specie di obbligo sociale, incoraggiato da chi occupa le posizioni più alte della gerarchia.

il problema è l'altra faccia dell'ebbrezza, costituita dai racconti di violenza, spesso in famiglia e contro le donne, che ogni settimana occupano le prime pagine del galway advertiser.

anche il lavoro viene vissuto con un misto fra rilassatezza e sufficienza. gli impiegati tendono a non rimanere a lungo in azienda e spesso lasciano non appena hanno guadagnato quanto basta per permettersi uno sfizio, solitamente un lungo viaggio in un paese esotico, confidando nella facilità di trovare un altro impiego al ritorno. nella mia azienda di circa sessanta impiegati, fondata vent'anni fa, il primo caso di pensionamento sta creando non pochi grattacapi a chi gestisce il personale. per la cronaca, l'impiegato in attesa di pensionamento non è irlandese.

fare carriera è semplice, ma spesso si intuisce che il motivo principale è la mancanza di competizione. l'irlandese tende a preferire una vita tranquilla allo stress di un impiego di responsabilità. ma spesso mi trovo a chiedermi se questo non sia in realtà l'atteggiamento migliore.

per chi non ha bisogno di una vita tranquilla però, passività, ignoranza, disordine e mancanza di stimoli e lungimiranza costituiscono il contraltare a stipendi alti e ottime possibilità di far carriera.

italia o irlanda? personalmente sto cercando una terza via.

consiglierei un paio di anni in irlanda per qualsiasi neolaureato in cerca di esperienza per arricchire il civvì. pochi però decidono di restare più a lungo, almeno sulla costa occidentale. dublino è più europea, ma non ha molto in comune con la vera irlanda.

domenica 4 maggio 2008

fumato vietare

addì 12 aprile 2008, giorno ultimo della storia parlamentare della sinistra d'opposizione, sono stato per la prima volta in un centro sociale.
il bruno di trento è forse la versione piccoloborghese del centro sociale, ma d'altra parte dio solo sa quanti borghesi medioalti sono usciti dal leoncavallo.
bel posticino comunque, manifesti di concerti e cortei alle pareti, arte povera, musica e birra a buon prezzo.
spicca alla parete della sala concerti una gigante scritta verniciata in stampato maiuscolo: "vietato fumare". scritte simili sono appese in tutto il locale su fogli aqquattro stampati al compiuter.

proprio nel momento in cui ho notato le scritte la musica mi stava facendo perdere nel mio piccolo mondo di divagazione interiore e filosofia spiccia e mi faceva divagare in particolare sul concetto di centro sociale come luogo dove la libertà impone di non imporre regole.
così ho iniziato a teorizzare sulla legge che vieta di fumare.
ipotesi prima, l'ossequio della regola. indica adesione allo spirito del locale. "vietato fumare" è una regola di massima, che lascia all'individuo la possibilità di effettuare una scelta coerente al suo indirizzo etico. il carattere non impositivo del messaggio pone in realtà nel singolo un dilemma morale ben più ampio, trasformando l'adesione a una regola non imposta in una questione di etica personale. in pratica è proprio il fatto di essere in grado di contravvenire alla regola senza essere sanzionati che trasforma il suo rispetto in una questione etica e quindi da attuare. a livello etico, la differenza fra imposizione e regola di massima è in questo caso la stessa che passa fra rapinare una banca svizzera e derubare un bambino. la seconda è più semplice, ma semplicemente non si fa.
ipotesi seconda, il disprezzo della regola, che non è qui interpretata come una regola di massima, ma nel suo valore impositivo. la trasgressione indica ribellione e quindi a sua volta adesione allo spirito del locale da un altro punto di vista, quello di chi cerca di contravvenire alle norme imposte dall'ordine precostituito.
morale della favola: non saremo nella casa delle libertà, ma fate comunque come cazzo vi pare.
fatto sta comunque che al bruno tutti fumavano erba fina, il che indica che quel "vietato fumare" deve aver avuto un aspetto serio, oppure che come sospetto oggidì l'etica personale sia stata rimossa dall'immaginario comune in quanto richiedente impegno e di conseguenza fatica. della serie, tanto sono tutti ladri, cosa cambia se rubo anch'io. l'importante è condannare le mancanze altrui. cosa vi ricorda questo ragionamento?

giovedì 1 maggio 2008

charlie byrne's bookshop, galway


diciamo la verità: etichettare la gente è bello e divertente.

e voi, come etichettereste il contreras?

io direi un alternativo, anzi, un intellettuale di sinistra.

e qual'è il più grande piacere per un intellettuale di sinistra? ma savasansdìr, direte con un abile francesismo, leggere libri! ma no, padutùt: comprare libri.

comprare libri ci piace perché consente a noi proletari emancipati di spendere soldi senza rimorsi, perché se hai i classici della filosofia in casa, i tuoi amici penseranno che li hai letti e perché ogni tanto qualcuno di quei libri ci piace anche leggerlo davvero, per sentirci coerenti e in pace con noi stessi.

quando il tempo fuori è da denuncia, la lettura è ancora più piacevole. facile equazione: in un paese come l'irlanda le librerie sono numerose quanto gli ovini.

per un intellettuale di sinistra, uno dei motivi per vivere a galway è la libreria charlie byrne's. charlie e i suoi prodi vendono libri di seconda mano e fondi di magazzino. sette stanze, in legno e moquette, ordinate per temi, ma per lo più tenute in creativo disordine, con gli ultimi arrivi ammucchiati sulla mochetta.

la cosa bella di carletto è la scelta. in una libreria di seconda mano finisce tutta la roba più improbabile. eppure carletto a ste cose ci tiene e screma di brutto. quindi tutta la pula finisce sulla bancarella all'esterno, mentre le cose più assurdamente fantastiche rimangono in negozio. anche nella collocazione della bancarella della brodaglia si riscontra l'ethos del compagno carletto: non davanti al negozio, ma di lato, in una galleria al coperto. certo, quelli di noi meno addentro nell'ideologia marxiana diranno che ciò avviene per mere ragioni pratiche, visto che un tetto non può che giovare ai libri, ma per fortuna noi intellettuali sappiamo essere più profondi. grazie alla sua collocazione defilata, la pula non se la fila nessuno, mentre gli avventori sono esposti ad opere ben più elevate.

ovviamente la sezione locale la fa da padrona. l'intera area “irlanda” è colorita di verde dai dorsi dei libri di storia locale, lingua irlandese e fotografia. ma la mia sezione preferita è quella riservata alla letteratura di viaggio, raggiungibile valicando la sala narrativa, saggistica e biografia, prestando un po' di attenzione ai gradini. charlie non accetta le guide di viaggio, tranne nel caso di primizie del calibro di lonely planet botswana o london drinking guide. i grandi nomi convivono democraticamente con gli sconosciuti. bill bryson ultimamente ha diritto a soli tre titoli, non molto più dei più illustri militi ignoti. insieme ai diari di viaggio di altri secoli, i libri fotografici sono la parte più interessante. pochi “cento posti di visitare prima di morire” o “cinquanta luoghi avventurosi”, come vorrebbe la tradizione lonliplanetiana anglosassone: a spiccare sono raccolte di stampe antiche sul sudamerica e soprattutto un'impareggiabile raccolta fotografica sulla liberia*. un duecentinaio di pagine di rappresentazioni di rovine e miseria senza falsi pudori. dopo due anni nessuno l'ha comprato, eppure il nostro conserva orgogliosamente il suo posto fra i libri degni di tal nome, sdegnando la collocazione fra la pula.

un'altra cosa che non si dimentica da charlie è l'odore. polvere e pagine stagionate si mescolano, dando un aroma particolare al legno invecchiato. roba per intenditori. non a tutti piace, ma bisogna riconoscerne il pregio, la degna colonna sonora aromatica di un posto per personcine ricercate come noi.



* occhio che ho scritto liberia, quella di monrovia. se leggete in fretta stati sicuri di leggere libreria