mercoledì 30 marzo 2011

Piani

Floor è la mia vicina, quella che abita al piano di sotto. Compie 35 anni fra un mese e spero che Jos le faccia un bel regalo. Se fossi in lui le comprerei una di quelle felpe dal taglio alternativo che vendono allo Zipper. Eviterei gli occhiali da sole, ne ha già a decine, uno per ogni colore rappresentato nel suo guardaroba. Floortje è una che agli abbinamenti ci tiene.

Lei probabilmente lo inviterà a cena qua sotto. A Floor piace cucinare, soprattutto piatti etnici tipo curry o pizza, che poi fotografa per mostrare ai suoi amici i suoi piccoli "kitchen secrets”.

Floor ha anche un gatto grigio, che si chiama Muffin e si aggira per la sua cucina identica alla nostra, ma rivestita di maiolica come una cucina vera. A dire il vero mi sono stupito per il gatto. In un anno che abito qui non lo avevo mai visto. Deve tenerlo sempre in casa, poveretto, a giocare con quella specie di totem arancione che ha costruito in salotto, forse più per velleità artistiche sue che per il felide cotonato.

È una creativa, Floor, un po’ come tutti gli olandesi che si spingono fino al punto da trasferirsi ad Amsterdam, fra i turisti annoiati e i boriosi expat. La creatività è il suo lavoro, anche se non si capisce di preciso quale delle innumerevoli occupazioni creative della sua azienda sia nelle sue mani.

Che poi a me piacciono le coincidenze ed è una coincidenza che la ragazza del primo piano si chiami proprio Piano.

In realtà come coincidenza non è neanche troppo incredibile: Floor è il nome standard delle ragazze olandesi, o almeno di quelle che non si chiamano Kelly, Leona, Esmeralda o Josette.

E poi noi non la chiamiamo neanche Floor, ma Verdinkidinkidonki, per risparmiare alla gola quel cognome fiammingo che è impossibile proferire senza trovarsi il rusghino di catarro in bocca.

Il suo cognome è scritto sulle buste che riceve per posta, accumulate in fondo alle scale. Fino a ieri era l’unica cosa che conoscevo di lei. Il cognome e l’iniziale del nome.

Poi oggi una mia amica ha pubblicato su Facebook un video che originariamente aveva messo proprio lei. E ora la conosco bene. In fondo anche lei mi conosce intimamente. È l'unica a sapere che sotto la doccia sono un melomane.

giovedì 24 marzo 2011

Solo una

Odio scegliere. Mi costringe ad abbandonare tutte le possibilità tranne una.

Pazienza finché si tratta di scegliere una scuola, un’università, un lavoro. Ho sempre fatto a caso e mi è sempre andata bene. Ma ora, tu, amico blogghettaro che mi inviti alla radio, mi chiedi di scegliere una (una) canzone italiana per il programma.

Allora devo abbandonare tutti i programmi per oggi e concentrarmi.

Mi concentro.

Facciamo che non metto le cose che si conoscono. Se le conoscono tutti, che gusto c’è? Allora niente Baustelle, che tra l’altro so che piacciono anche a te e li avrai già messi, no?



Togliamo anche questa, che è un po’ nociva per l'etere.



E questa, che che quell’organo secondo me ci starebbe come una torta ad un compleanno, però dura troppo e se me la tagli poi mordo.



Allora, visto che si parla di italiani in Olanda e delle loro biciclette, alla fine metto questa, che ha sta chitarra sdrucciolevole come lo Stelvio d’inverno, che quando l’ascolti in sella ti fa sentire come se ti scorressero i titoli di testa di un film davanti al manubrio. Sì, è lei la mia canzone italiana all’estero di fiducia.



sabato 19 marzo 2011

Tempus fugit

A fine giornata mi rendo conto di aver buttato via altro tempo. E io vengo da una famiglia che il peggio che puoi fare è sprecare il tuo tempo. Perché quando mio padre era piccolo piccolo e il mio paese era ancora terzo mondo, se le sorelle lo vedevano poltrire gli inventavano un lavoretto da fare. Anche inutile, ma da fare. Non c’era mica Topolino, in Val di Non, o le dieci lire per comprarsi il gelato. Musetti di maiale per colazione e carrube da succhiare come lusso. Poi è arrivato Carosello, ma quella era l’unica cosa che c’era e infatti ne parlano ancora come della rivoluzione. C’erano vacche, grano e alberi da frutta e i passatempi avevano scopi produttivi. O almeno così mi dicono i miei.

Forse un giorno racconterò così anch'io ai miei figli, “ai miei tempi non avevamo i GPS per orientarci in centro e gli ipad erano grandi come Bibbie”. Il tempo scolorisce le fotografie e colora le storie, ma questa è un’altra storia.

È che tutto quello che ho da fare è sul computer e ho limiti di tempo, perché dopo tre ore al computer mi viene una testa che neanche un ritratto di Francis Bacon. E quelle tre ore le comincio con la solita rassegna stampa, poi Facebook e magari ciatto un po’ con Lilù e qualche amico lontano lontano. Poi mi metto a lavorare ai miei ambiziosi progetti e dodici minuti dopo mi si trova sulla Wikipedìa alla pagina della nazionale di calcio dell’Occitania.

E a questo punto il computer mi intarla già gli occhi, ma continua tenere la mia mente per un orecchio. Cerco di allontanarmi per il bene della mia salute, ma vengo risucchiato da centinaia di piccole cose da fare che promettono di prendermi mezzo minuto appena, ma sommate occupano il resto della giornata. Tutto questo a scapito delle cose che richiederebbero più tempo, che guarda caso sono proprio quelle importanti, quelle che avendole fatte mi permetterebbero di dire che non ho sprecato il mio tempo. Quindi finisco per passare comunque l’intera giornata al computer e verso sera il cervello bussa alla scatola cranica per farsi sentire. A volte penso che si aspetti che gli apra.

Sono colpi sordi e ritmici, che mi ricordano che l’unica soluzione è prendere la via del piumone. E comunque domani mi metto d’impegno, eh.

martedì 15 marzo 2011

Sensi di colpa

Dice il savio che per accorgersi della meschinità del genere umano basti osservare se stessi.

Forse intende me che un venerdì mattina avvio il browser e leggo che è successo qualcosa di grave in Giappone. Intende quei pochi decimi di secondo in cui mi sento eccitato per la novità, perché invece di trovare qualcosa di costruttivo da fare, potrò spendere il mio tempo fra i siti di giornali e riviste. Tutto questo dura il tempo di rassettare i neuroni, prima del tempestivo intervento della mia anima razionale a mondare ogni lordura con dosi da cavallo di sensi di colpa.

È che uno come me, cresciuto fra Tienanmen e le bandiere col buco della Romania dopo Ceausescu, fra Solidarnosc e il muro di Berlino, abituato a cambi e rivoluzioni, un poco si annoia in questa società moderna dove non succede nulla di speciale al di fuori del mondo islamico. Così devo correre a staccare terminazioni nervose come il cavo di un televisore in autocombustione per non sentirmi deluso dai primi parzialissimi conteggi delle vittime. Ma poi per fortuna torna il draghetto Grisù, col suo estintore caricato a sensi di colpa, accolti col sollievo di una doccia fredda nel deserto.

Poi ci penso meglio e cambio idea. Non sul fatto di essere contento o meno, ma sulla meschinità umana. Perché questi centesimi di secondo di crudeltà sono quelli in cui l’ego irrazionale ha il predominio sull’io meditato. E pensandoci bene, è bello sapere che la razionalità umana ha tempi d’intervento inferiori a quelli della protezione civile.

giovedì 10 marzo 2011

Io che dell'Africa non ci ho capito una mazza

Appena prima di prendere il taxi per tornare a casa, all’ombra di un baracchino sulla spiaggia, paghiamo due succhi di bissap, un bouye e due mafè di nervo d’agnello e Bakari ci saluta da amici, ci augura di fare un sacco di soldi.

Noi gli diciamo che ci sono cose più importanti dei soldi, tipo la salute, l’amore e la Champions League. Lui ci asseconda, questi toubab così ricchi da non capire il valore dei soldi.

In Senegal i soldi sono importanti. In effetti sono sempre importanti se ne hai pochi e pensi che se ne avessi di più non ci dovresti più pensare. E invece anche quando ne hai tanti ti sembrano pochi e la barriera fra africani e toubab è proprio qui, nel punto in cui loro non capiscono che il fatto che tu non sia privo di svanziche non significa che tu le voglia per forza spendere o regalare.

E non è che sia sempre così, perché certi turisti i soldi li regalano, soprattutto a chi gli sta simpatico. Per questo in Senegal la simpatia è diventata un’industria, la chiamano la teranga, l’accoglienza.

Non che prima di andarci non mi aspettassi dagli autoctoni un certo appetito per le mie piotte CFA, ma una cosa è chiedere, un’altra se ogni applicante prima ti saluta, ti chiede come stai e come ti chiami, se ti piace il Senegal, da quanto sei là, quanti mesi starai e ti invita a prendere il tè. Puoi evitare di rispondere, ma se non vuoi essere scortese ci puoi perdere giornate.

Ecco, il Senegal è bellissimo, ma ha i suoi problemi. E forse l’accoglienza non è neanche il più grave.