martedì 26 maggio 2009

Torno a casa e, che ti vedo!

Chi abita all'estero, un po' alla volta comincia ad idealizzare la patria lontana, un po' come gli alpini al fronte o i pizzamandolini delle gelaterie della Ruhr.
Per me è iniziato tutto riscoprendo il mio dialetto locale, che fra l'altro non ho mai parlato. Quando ero piccolo i miei compagni mi prendevano in giro perché ero uno dei pochi a parlare italiano. E anche durante liti e litigi, parlare la lingua di Totti e della Crusca è sempre stata una grande penalità: il dialetto è molto più corposo e ti rotola di bocca come il macigno rotondo che esce dalla grotta per investire Indiana Jones. Qualsiasi mala parola italiana al confronto fa tenerezza.

Il secondo stadio è la nostalgia che mi assale quando torno a casa. Ci vengo ormai tre volte all'anno, arrivo sempre di notte. La mattina del giorno dopo mi alzo, entro in bagno al buio, apro gli occhi, guardo dalla finestra e dico "oh!" verso le montagne che mi investono frontalmente. Poi torno in camera, guardo le case sul colle dove qualche secolo fa c'era il castello e dico "ah!", roba che se si sentisse l'eco sarebbe tutto "oh-oh" e "ah-ah" dall'altra sponda, e per qualche secondo contemplo la prospettiva di tornare a casa in pianta stabile e lavorare la campagna. Che fra l'altro rende il triplo di quello che faccio ora.
Magari fra un paio di decenn, magari.

E ogni volta mi prendo una mattina per fare un giro a Trento. A Trento ci vado molto più spesso ora che sono via che prima, quando ci sarei potuto andare ogni giorno. E nella mia estasi di transfugo decido che il centro storico è il più bello d'Italia, con quell'architettura a metà fra Vienna e Venezia, il pastello giallo asburgico, rosa salmone, rosso sanguinella, cremisi delle case, gli affreschi sui muri esterni e la pianta disordinata, che ti fa sempre trovare un vicolo dove non sei mai stato prima.

Trento fa tenerezza, perché sta uscendo dall'adolescenza e cresce a vista d'occhio. L'università si è gonfiata, la squadra di pallavolo ha vinto un paio di cosine, abbiamo una Miss Italia, i finalisti dei reality show e finalmente anche i nostri politici sono indagati per corruzione. Ogni tanto capita anche che ci siano concerti o eventi vari. Il tutto con ordine e chiusura a mezzanotte, ché domani la gente deve lavorare.

Così una mattina nella mia settimana di licenza passeggiavo bel bello per i vicoli del mio capoluogo di fiducia, con tappe obbligatorie al negozio di libri di viaggio e alla rivisteria, e non potevo non notare quanto era bello ciò in cui mi trovavo a vagare, con l'architettura a metà tra Vienna e Venezia, il pastello e tutte ste cose già dette, più il duomo ripristinato nel suo bianco originario, piazzetta delle Erbe, piazza Adamo d'Arogno. Tutto ciò era cosa buona e giusta, ma.

Ma, perché come in tutte le cose idilliache c'è un ma, perché se le cose sono troppo idilliache, poi finisce che si slava anche la poesia.

Il ma sono le scritte sui muri, la loro forma e il loro contenuto. Nel senso che sarà che mi sto imborghesendo, sarà che imborghesirsi vuol dire tutto, ma soprattutto niente, sarà che i giovani ribelli sono parte integrante di una città che diventa grandicella, ma proprio non riesco a vedere le scritte con lo spray come segno di apertura mentale. Non graffiti o tag o quella roba che almeno posso dire di non capire. No, scritte tipo quelle degli ultrà, scritte "politiche", nel senso che manifestano la politica come la vede un adolescente.

Due esempi:
"Fascisti via da Trento". Effetto nimby? Va a finire che poi si radunano tutti a Verona e qui da noi ci vengono solo in trasferta, ma in massa.
"Fasci appesi". Ma la critica principale al fascismo, non era che era un regime violento?

E non solo fascisti, ma anche diversi no: No TAV, No CPT, No Dal Molin, No xyz. Nessun Sì da segnalare.

Ma non è neanche questo il punto. È che tu giovane, ti conosco, parti da ideali giusti. Quando dici di appendere i fasci, non lo dici con cattiveria, usi solo le parole sbagliate, esageri, perché sei giovane e hai bisogno di sentimenti potenti. Quello che ti interessa non è appendere, ma un mondo più bello, più buono, più colorato, nevvero?
E quando la gente disapprova quello che scrivi, tu, che sei sensibile, credi che ne disapprovi il contenuto. Ad esempio, sono sicuro che se per caso sei capitato su sta pagina qua, mi hai già dato del fascio. No, amico, la gente può anche essere d'accordo con te, ma ti svelerò una cosa interessante: non è detto che ogni messaggio giusto meriti di essere scritto con lo spray sui muri del centro.

E poi, giovane, cosa credi, che il signor Ciurletti della casa di fronte legga le tue scritte e pensi "bravo, giusto, quasi quasi vado a prendere a calci quel fascista là all'angolo"? No, probabilmente vorrà prendere a calci te. E lo ripeto, non necessariamente perché è fascista, ché come tutti i trentini che si rispettino scommetto che vota il Dellai.
E come dargli torto? Sul prendere a calci, non sul Dellai. Se tu scrivessi sul suo muro di casa una cosa apartitica, tipo "abbasso il cancro" o "no inquinamento", ci faccio su quello che vuoi che il Ciurlo si incazzerebbe uguale, lui che è una pasta d'uomo e dicono che l'estate ospiti anche il suo bravo bambino di Chernobyl.

Giovane, come ti ho detto, tu in fondo c'hai degli ideali ggiusti. A me fa rabbia, perché i tuoi ideali giusti potresti manifestarli in un modo un po' più efficiente, no? Ma qui forse sono io che non ho capito niente. Forse le tue scritte sono come le pisciate che il mio gatto fa sul muro per difendere il suo territorio dal nero dei vicini. Il nero passa dieci minuti dopo e piscia anche lui. Così alla fine non si capisce a chi appartenga il muro, né l'importanza di aggiudicarselo, il muro, ma in compenso l'odore non va più via e tutti quelli che passeranno, fascisti, comunisti e sfumature varie, penseranno solo a levare di mezzo i gatti.

martedì 19 maggio 2009

Hè hè

La finestra è la mia, ma Bunny non sono io, mi raccomando, che ci tengo.
Bunny è Baldovino, detto Baldo, il coinquilino olandese che mi ha accompagnato per un anno destinato a terminare fra un paio di settimane.
Strano vederlo chiamare così, l’unico coniglietto che riesco ad associargli è il Tenerone. Al massimo quello di Donnie Darko, ma sono due accostramenti ingenerosi, uno troppo ridicolo e l’altro troppo dark.
Lui è Bunny come può esserlo uno che fa il fotografo e l’artista in generale e gioca a rugby in serie A (olandese). Uno alto due metri con un fisico da sabato fascista e una facciona buona, simpatica e facciosa, con uno spazio di qualche millimetro fra gli incisivi superiori che lo fa sembrare un comico da bei tempi andati.
Insomma, un coniglione di una discreta stazza.
Ma andiamo con ordine. Devo avergli portato fortuna in un coso che ho scritto un paio di mesi fa (il collegamento non ve lo metto, ché è uno dei peggio cosi che abbia mai scritto), dove descrivevo il suo rituale di corteggiamento, augurandogli che quella fosse la volta buona.
È stata la volta buona, poraccio, si è trovato sta ragazza portoghese, anche lei artistomane, che ha riempito la casa di statuette africane e manufatti di varia manifattura. Una tipa simpatica e intelligente, che ha conosciuto Baldo facendogli da modella per una sessione fotografica. Alché vi chiederete: “nuda?” E a me che non volevo toccare l’argomento toccherà fare svogliatamente cenno di sì.
Perché parlo di Baldo, oltre che per farmi i cacacci suoi? Perché Baldo ha due gatti. Quasi. Più che altro perché Baldo fa “hè hè”.
Ordine di nuovo. I gatti per primi, uno nero con la pancia e le zampe bianche, l’altro identico, tranne per il nero, che diventa viola come il vino in virtù di sapienti mescole di sfumature arancio, nere e brune.
Baldo, che in fin dei conti è un vero Bunny, vuole un gran bene ai suoi gattoni e gli si rivolge con frequenti “hè hè”.
Di questo “hè hè” se ne parlava con il mio collega italiano, dice che è la tipica interiezione della gente di questa mirabile città, da proferire nei contesti più vari, evidentemente quando ci si rivolge agli animali, ma soprattutto quando non si sa cosa dire.
Il fatto è che ha un suono ridicolo. Si pronuncia in due sospiri, distanziati da una pausa in tempo dispari, che conferisce dinamicità, allungando le “è” e alzando la voce quando le si pronuncia. Sembra il verso di qualche uccello di grandi dimensioni. Forse un airone, ma più probabilmente qualcosa di più sgraziato, tipo un tarabuso o un marabù.
“Ed è già ossessione”, come scriverebbero sul sito dei maggiori quotidiani italiani. Non riesco più a smettere di dire “hè hè”. I miei colleghi e K mi hanno già imposto il silenzio, ma la condanna a non parlare non fa che inasprire il desìo di proferir le bramate parole proibite. Appena sento silenzio, mi viene in mente “hè hè” e faccio una cagna immane a trattenermi.
Così capita che mi sfoghi quando sono completamente solo, ma non capita spesso. Ultimamente succede anche a casa, in presenza di Baldo. Chissà che ne pensa lui, se crede sia normale che un italico giovine proferisca le fatal parole o se si senta un ciccinino preso per il didietro.
Stasera comunque torno in Italia e sono arrivato al punto di attendere con ansia l’evento per poter finalmente dire “hè hè” senza che qualcuno reagisca violentemente. Almeno per le prime ore.

sabato 16 maggio 2009

Gente che scrive lettere ai giornali

Ci sarebbe sta rubrica, sul sito del Corriere. I lettori scrivono un breve intervento e Severgnini ne pubblica undici al giorno e se gli capita butta anche giù due righe di risposta.
Severgnini è uno di quelli che in Italia si chiamano giovani giornalisti. Giovane magari per i miei canoni no, ma giovanile di sicuro. Brillante, intelligente, frivolo quanto basta. Unica pecca: un’insana attitudine per l’umorismo da liceo classico.

Comunque su sta rubrica, che si chiama Italians, perché originariamente era destinata agli italiani all’estero, si parla di temi cari a chi è lontano da mammà, ma anche di mille altre cose che piacciono agli italiani, tipo calcio e politica. Ci sarebbe anche sto mio conoscente. L‘intervento che Severgnini gli ha pubblicato la settimana scorsa parlava di politica.

Parlava di politica senza prendere posizione. Partendo dalla Veronica Lario che aveva appena chiesto il divorzio al marito, diceva che il presidente del consiglio presente e regnante ci aveva fatto una figura barbina, ma aveva comunque vinto agli occhi degli elettori. La tesi era che indipendentemente dalla vuotezza delle sue dichiarazioni, il Bassissimo aveva vinto il duello retorico perché aveva avuto l’ultima parola. E alla gente interessa la retorica, non la morale. Tutto questo inteso come descrizione del pensiero degli elettori e senza esprimere il suo parere in merito, il che deve aver spiazzato i lettori.

Il bello di Italians è che non si possono scrivere commenti come sui blogghi e i fori, ma si può inviare una lettera elettronica all’autore dell’intervento. Quindi alla fine, invece di cento commenti anonimi scritti tanto per scrivere qualcosa, ti trovi un paio di lettere private alle quali puoi rispondere comodamente dal divano rosso da casa tua.

Non era la prima volta che veniva pubblicato un intervento di questo mio conoscente. Di solito gli arrivava una mano di missive. Ma era la prima volta che parlava di politica e si sa, la politica tira più di un carro di buoi. Fatto sta che stavolta gliene sono arrivate una ventina, che nella maggior parte dei casi lo tacciavano di berlusconismo, un paio gli davano del comunista, quasi tutte lo coprivano di insulti. Che poi deve fare un certo effetto essere accusati di sostenere l’uomo più meschino d’Italia. Anzi, più che effetto, fa vergognare vedere il proprio nome e cognome associato a quell’uomo là, ve lo dico io.

Per riscattare la sua immagine morale, il mio amico si è imposto di rispondere personalmente a tutti, senza copiare e incollare, spiegando che non era sua intenzione prendere posizione, per quanto strano possa sembrare per un italiano.
Così il mio amico si è fatto un mazzo tanto per rispondere a tutti, argomentazione su argomentazione, spiazzando gli insultatori con educazione e garbo, che, osservando dal nostro comodo scranno nordeuropeo, sembrano essere le medicine più adatte per arginare l’esaurimento nervoso della nostra cara Italia.

Lo spiazzamento era un’intenzione secondaria, il messaggio principale era “come pretendi di convincere qualcuno delle tue idee prendendolo a male parole?”

Comunque a spiazzarli ci deve essere riuscito, quel mio amico, perché molti gli hanno chiesto scusa, cancellando gli insulti e sostituendoli spesso con parole intelligenti, come se le mail le avessero scritte due persone diverse.

In qualità di evangelista della rete, ho imparato una lezione utile da questo mio amico. D’ora in poi se uno si incazza, gli si risponde sempre educatamente. E se le buone maniere lo esasperano ancora di più, tanto vale farlo incazzare con educazione.

Fate questo in memoria di me.

sabato 9 maggio 2009

Io che guardo la gente che va ai concerti


Peaches è un incrocio fra Luciana Littizzetto e David Bowie, versione Ziggy Stardust. Parla della Iolanda in tutte le canzoni e si veste come un ragno di Marte. Le assomiglia anche, alla Luciana, e più volte durante il concerto ho pensato che la seconda si possa essere ispirata alla prima.
Conosco solo un disco e un pugno di singoli, ma nelle fasi del concerto si nota l’evoluzione di una carriera che porta le rughe, l’elettropunk violento si calma, diventa prima glam alla chitarra e poi, nei pezzi evidentemente più recenti. una cosa elettronica leggiadra tipo Moloko, che non ci sta manco troppo male, considerando che la voce della nostra Persichella dal vivo è molto più fine di quello che le urla dei dischi lascino presagire.
E si cambia di continuo Persichella, come in una sfigata di moda, con maniche con crini che sono capelli veri, per giunta in pendant con quelli della chitarrista/tastierista, tutona rosa pelle con faro intermittente proprio là, accappatoio a fiori e completo di tulle da tanguera.

E come lei il suo pubblico. Mi rendo conto di aver passato quasi più tempo guardandomi attorno che con lo sguardo verso il palco. È pieno di coppie, ma sono tutte ragazze, si sa che l’electroclash è roba molto frocia, frocia concava, non convessa e le lesbiche hanno una certa originalità nel presentarsi. Tutte diverse, pettinature da camionista e camicie a fiori, Converse leopardate e calze in diversi stati di degrado, colori vivi e capelli a brandelli. Si direbbe che sia una specie di setta, quella alternativamente frocia, con la sua musica settaria, Peaches, Le Tigre, Yeah Yeah Yeahs, tutti plurimagliettati nella circostanza.

Sono le ragazze che avviano il pogo e butto là che è la prima volta che mi trovo in mezzo al pogo in Olanda. I maschi ci sono, si cavano la maglietta quando dal palco gli dice di farlo e cercano di farsi vedere, ma qui il feromone ha la meglio.

Ci sono anche le ragazze di De Wallen. Non mi piace mica dire che una tipa sembra una puttana, a meno che non si tratti dell’od. Carlucci, ma in certi casi i dubbi sono pochi. E poi la cosa dovrebbe essere ovvia, anche le puttane hanno una vita fuori dalla vetrina e Peaches canta la rivincita delle donne che non hanno paura del sesso, quindi dove meglio di qui?

Ora smetto, vah, che mi sembra di essere la Natalia Aspesi.

giovedì 7 maggio 2009

Droghe piuttosto sintetiche

L’alcol mi basta una volta ogni tanto, le sigarette mi danno fastidio, le droghe mi annoiano, il gioco lo trovo triste, il cibo non mi fa ingrassare. Ma per giustificare una vita, uno un vizio ce lo deve avere.

Così ho pensato che lavoro al compiutro dalle 9.17 alle 5.29. 40 minuti e sono a casa, accendo il compiutro, piscio, mi cambio, più tardi mangio, verso le 11.30 vado a letto a leggere, a mezzanotte spengo il compiutro e vado a dormire. Nel frattempo scrivo su sto coso, ascolto musica, guardo filmi, ciatto, leggio giornali. Tutto al compiutro. Il mio vizio è il compiutro.

Ci faccio un sacco di cosine utili, al compiutro. Niente tivvù, radio, stereo, cd, dvd, giornali, telefono, blocco note, agenda, album di fotografie. Tutto portatile. Non c’è benedizione più grande quando ti trovi a traslocare spesso.

Ci ho letto perfino due libri, sullo schermo, al lavoro, mentre il lavoro mancava. Q dei Luther Blissett e Stella del mattino di Wu Ming 4. Un giorno ne parliamo, per ora ti dico che li puoi anche scaricare gratis, se vuoi, con l’accento su scaricare, non su gratis.

Questi sono tutti usi forbi di schermo e tasti, non c’è vizio. Il vizio nasce dalle storture. Infatti sarà che dopo tre anni all’estero ho paura di perdere italianità, ma sono ossessionato dalle notizie dal paese di Garibaldi e Pippo Franco. Ho il mio giro, Gazzetta, Repubblica e Corriere (questi ultimi identici in impaginazione e contenuti), e lo ripeto ogni dieci minuti circa. I telegiornali non mi servono, stando all’estero si realizza che qualitativamente valgono come un Corrierino dei Piccoli schierato dalla parte del governo. Se proprio le notizie le vuoi ascoltare, guardati il tiggì di Arte e se non parli tetesco o fronsé, dona i tuoi occhi all’Euronews. Sì, durano solo 15 minuti, è che sai, i parlamentari da intervistare sono pochi.

Nei dieci minuti fra un giro di giornali e l'altro può succedere tutto o niente. Di solito la seconda, ma le scarse possibilità che sia la prima bastano a causare la compulsività.

Il vizio si è aggravato da quando esiste Facebook. Là sai per certo che ogni dieci minuti troverai qualcosa di nuovo e finisci per collegarti ogni cinque. Credo che Facebook sia una grande invenzione, ammesso che uno lo usi in modo forbo, soprattutto per chi ha amici in un paio di luoghi diversi. Fra i miei contatti ho pochissime persone che abitano qui vicino e non mi sono mai sentito così vicino come ora a molta gente delle mie altre sedi. Ci ho anche organizzato incontri con amici perduti, su Facebook. Incontri veri. E poi non credo che i contatti tenuti via cavo siano inferiori a quelli "reali". Anche di questo se ne riparla.

Anche mentre scrivo pensieri su sto coso qui faccio sempre una decina di pause Facebook e quattro o cinque giri Gazza-Repubblica-Corriere. Infatti ora vado a farne uno.

Fatto. Altro indice di vizio è come scarico musica: più di quello che riesco ad ascoltare. Se mi piace una canzone scarico tutto l'album. Quando la barra di eMule diventa verde sono contento, ma non per forza corro ad ascoltare il disco. In pratica più che ascoltare musica, mi piace scaricarla. È una smania possessiva. Si potrebbe chiamarla alienazione, un’azione che diventa fine, sostituendosi al fine originario.

E mi sono messo a pensarci. Ci ho pensato perché sto cercando casa e ho deciso che se in un posto non c’è internet non mi muovo. Vuoi vedere che le cose che mi motivano a vivere, le ragioni della mia sostanziale felicità, sono scaricare e controllare i giornali elettronici? Poi ho fatto un giro Gazza-Repubblica-Corriere, ho visto dappertutto la faccia di papi e dei suoi servi e ho pensato che non può essere.

Forse, eh.

lunedì 4 maggio 2009

Baciami sull'elmo di Scipio

Qual’è il popolo più nazionalista d’Europa? Tutti insieme: “i franceeeesi”.
Ebbene, a girare per il centro di Amsterdam lo scorso weekend invece si sarebbe detto che semo noantri.
Era tutto un baluginio di scritte “Italia”, stemmi della nazionale e roba azzurra, bianca, rossa e verde. È che all’estero il vero italiano ci va con la tuta della nazionale. Più del francese, poco più dell’irlandese, più addirittura dell’inglese, che alla patria preferisce il club locale. La disegnano apposta per il gusto italiano, la tuta della nazionale, bianca con scritte e rifiniture in color oro. In alternativa, l’italiano può scegliere di indossare la felpona della Kappa, di quelle con il nome delle città scritto a caratteri cubitali a mo’ di sponsor, diviso a metà dalla cerniera. E ne vorrei una con scritto il nome di qualche paesino delle valli del Noce, che hanno tutti nomi meravigliosi (TERZ|OLAS, VER|VÒ, SFR|UZ), ma questo forse non c’entra più di tanto.

Pensandoci bene non è che l’italiano sia tutto sto gran patriota, gli piace ridere dei suoi difetti e non si sente superiore a nessuno che provenga da un paese con un reddito medio pro capite più alto del suo, più che altro l’italiano ci tiene a mostrare che è italiano. Ma perché? Come direbbero i francesi, “mais pour tromber, ça va sans dire!”

Questa tesi è avvalorata dalla constatazione che, con un po’ di attenzione ci si accorge che quelli che si adornano del tricolore sono sempre in comitive di soli maschi, che pasturano come buoi dalla carne ancora tenera, facendo sentire la loro voce profonda e la loro mascalzonità latina.
Le coppie e le famiglie non lo fanno. Di solito si aggirano educatamente per musei e ristoranti e spesso cercano addirittura di parlare piano.

Macchissenefrega. Quello che interessa a noi ggiovani in questa sede è sapere se è veramente più facile trombare qualora in possesso di nazionalità italiana legalmente certificata (*fanno eccezione brasiliani e argentini dotati di passaporto).

L’esperienza (di straniero, non di trombeur de femmes) dice che a volte è vero, altre è vero il contrario.

Che è vero lo dimostra quel tipo che ho incontrato a Göteborg, che girava con la maglietta di Del Piero. Quando gli ho chiesto se era italiano mi ha detto “sì, ciao, grazie, bello”. Dopo aver richiesto la perizia psichiatrica mi sono reso conto che si stava fingendo italiano per catturare l’attenzione delle damigelle.
E poi mi ero riproposto di non parlare di esperienze personali, ma non riesco a non citare una tipa che ho frequentato in Erasmus, che mi chiamava “mein Italiener”, “il mio italiano”, come se la mia presenza nella sua vita fosse perfettamente compatibile con quella contemporanea di un francese, un inglese e un tedesco. Tanto le barzellette insegnano che comunque vinciamo sempre noi.

Ma come si diceva, è vero anche il contrario. Tante sono le signorine che appena dichiari di condividere il suolo natio con Dante, Petrarca e Gattuso ti guardano con sospetto, come se intuissero in te il senso del dovere che ti impone di provare ad entrare nelle loro grazie. Il fatto che gli rivolgi la parola è già evidenza di reato.

Che poi queste pensano che gli italiani siano dei gran bastardi con le donne. Invece quelli che conosco dall’estero sono dei maniaci sentimentali in cerca della donna da sposare, che ci provano con più di una contemporaneamente solo per zelo nella ricerca di quella giusta.

Comunque io avevo una teoria, che poi la signorina Nina Cantina (come si dice “cantina” in tedesco?), proveniente dalla Città degli Uomini (questa è più difficile: Mannheim), ha confermato senza che io le esponessi le mie idee per primo: gli italiani piacciono per le avventure, ma non ispirano per rapporti duraturi. Sono la variante umana dell’Italia: ottima per andarci in ferie, ma troppo faticoso vivere fra mafie e treni che non arrivano in orario neanche ora che c’è Lui.

sabato 2 maggio 2009

Dio cosi la regina

Giovedì ho scoperto che la regina di sto posto qui si chiama Beatrix, in italiano Beatrice. Beatrice d’Arancio, perché se vuoi essere coerente, oltre al nome mi devi tradurre anche il cognome.
Fino a ieri credevo che si chamasse Margherita, beata ignoranza. È che qui con i reali non la smenano più di tanto. Non come in Italia, dove il re lo si nomina almeno ogni domenica, ma spesso anche più spesso.
E comunque della regina anche alla sua festa se ne parla molto poco. In realtà l’intera giornata è solo una scusa per vestirsi di arancione, che è poi come se i fan di Vasco e i tifosi di Valentino andassero a concerti e gran premi bardati di rosso. Il risultato è una tinta unita che neanche al carnevale di Ivrea. Chissà che effetto, facendo le fotografie per le mappe di Google proprio il 30 di aprile.

Comunque avrei detto che sarebbe stata una di quelle feste nordeuropee dove l'obiettivo principale è sbronzarsi e fare cose estreme tipo pisciare per strada o importunare le damigelle, ma no, niente St. Pat’s, niente carnevale di Colonia, niente Midsommer. Bar vuoti e tutti in giro per vicoli. Le lattine di birra per strada ci sono, tutte verdi, che con l’arancione è anche bello da vedere, tutte Heineken e tutte raccolte ordinatamente attorno ai cestini già colmi. A quanto pare, passando la giornata a camminare, l’alcol lo si smaltisce.

La vera tradizione per celebrare il colore più amato d’Olanda sembra essere quella di vendere roba per strada. La sera del via alle danze, ponti e marciapiedi erano pieni di spazi delimitati con il nastro isolante con scritto “bezet”, sempre con il nastro isolante, che in olandese vuol dire “occupato”. Il giorno dopo i bezet erano per l’appunto occupati, con gente che vendeva roba, probabilmente quella comprata l’anno prima nello stesso posto. Libri vecchi a 50 centesimi, birra al prezzo di cinque libri, succhi di frutta, un tavolino per le candele votive preso da una chiesa, che siamo stati sul punto di comprare per dieci euro. Comunque niente (quasi) hot dog-pizze-kebab e professionisti del catering su ruote. Qualcuno vende l'invendibile, carezze al cane (€0,50), infusioni di autostima da parte di una ragazza a scelta (€1), un tipo su un ponte si è inventato un gioco che consiste nel tagliare al volo una carota che scende ad alta velocità dal camino ricurvo di una stufa. Quando un ragazzo, probabilmente non abituato a perdere, ha lanciato la mannaia adibita all’uopo nel canale, è bastato comprare un set di coltelli dalla ragazza del bezet confinante, senza neanche insultare più di tanto il colpevole del misfatto, che dopo aver rischiato di mutilare l’occupante di qualche barca di passaggio ha scambiato un paio di parole in tono pacato con il direttore della bisca e se ne è andato felice di aver vendicato la malasorte.

Pochi venditori di musica dal vivo, nessun nipote dei fiori con chitarra o bongo, solo un gruppo di dodicenni con chitarra-basso-batteria più grandi di loro. Si presentano pieni di energia. Davanti a loro una cinquantina di persone. Fanno attendere il loro pubblico da brave rockstelle, finalmente cominciano, lanciatissimi. Puff. Questi giovani d’oggi, abituati ad avere tutto senza farsi un minimo di mazzo, i genitori non gli hanno insegnato che prima di esibirsi uno dovrebbe imparare a suonare.

Almeno hanno avuto le palle di farlo. Una cosa che invidio al Nordeuropa è questa capacità di organizzarsi in massa, senza discorsi del sindaco, finanziamenti pubblici e sponsor. Nel Jordaan nessun campione gratuito vietata la vendita, zero volantini, cartelloni, gadget arancioni marchiati o bancarelle sponsorizzate, se si eccettua lo strano monopolio dei beveraggi da parte della Heineken. Nella parte turistica del centro, fra la Spuistraat e il quartiere a luci rosse, invece i furgoncini dei souvenir arancioni c’erano, misti a venditori di magliette del Che e di Bob Marley, salsicce e patatine, foglie di maria, roba tibetana, celtica, tribbbale. Basta evitare.

L’unico problema è uno tipicamente olandese: la musica. L’Olanda è la partria della techno. A Rotterdam sono nati i gabber e la tradizione che in altri paesi si è felicemente estinta lasciando dietro di sé solo qualche traccia fosforescente, qui è rimasta ben salda. Non solo, ma si è sentita anche molta della peggiore musica da discoteca degli anni ’90, quella che andava forte nei paesi di campagna dieci anni fa e ormai la gente ha buttato via i dischi, perché trattasi di merce deperibile. Roba che dice “move your body” o “everybody dance”. Qui è inglobata nel concetto di techno e non mi stupirei se se la sparassero anche ai rave.
Ma gli olandesi non amano solo l’unz unz unz. C’è anche questa musica popolare che è presa pari pari da quella tedesca, per la quale se non sbaglio è stato coniato il temine “kitsch”, solo cantata in olandese, il che non può che peggiorare il risultato, con le S che scivolano e le R che sono U.

Ma forse è stato tutto solo un sogno. Il giorno dopo sul Corriere si diceva che la celebrazione è stata annullata dopo che un pazzo si è lanciato contro il bus della regina ad Apeldoorn.
O forse hanno annullato le celebrazioni ufficiali e le bevute. Così si spiega la spontaneità della cosa e il basso tasso alcolico. Altri hanno spiegazioni diverse. Pare che nei primi anni duemila ci siano stati scontri nei canali, arrembaggi e barche affondate. E qui, dove la giustizia non conosce ricorsi al TAR, se la polizia fa segno che ancora una volta e salta tutto, la gente si dà una calmata.

Ora, io lo so che fa figo dire che questo rispetto delle norme tutto nordeuropeo è noioso e privo di fantasia, ma qui tutti gli italiani che conosco se lo tengono molto volentieri, quello che alcuni chiamano “giustizialismo”.