lunedì 31 maggio 2010

Oh oh, cavallo! (ci risentiamo tra un paio di settimane)

C’è stato un periodo in cui per scherzo, neanche tanto per ridere, se mi andava di localizzare un posto assurdo, nominavo l’Uzbekistan. Tipo che se la gente mi chiedeva dove lavoro, dicevo “Chiesavecchia sull’Amstel, fra Amstelveen e l’Uzbekistan”.
Era il periodo in cui Lilù stava diventando coinquilina 2.0, votata al risparmio energetico, perché grazie alla condivisione della camera da letto mi permetteva di consumare meno.

Poi erano venuti a trovarmi Tomas e Nicola e il giorno prima che arrivassero le avevo confidato che avremmo organizzato il nostro viaggio in Brasile.
Alché Lilù sbarra gli occhi che sembrano la copertina di Pulse dei Pink Floyd, arriccia le labbra e fa “Ma come, non mi porti più in Uzbekistan?” Io so stare ad un buon scherzo e le dico “Lilù, monamù” ma solo perché fa rima, perché io sono nato in Val di Non e noi si sa abbiamo il cuore come la roccia. Che poi la roccia di dolomia sia rosa e friabile come il panvecchio, sono speculazioni capziose ad opera di certa sinistra tuttora legata a posizioni di stampo veteromarxista (R. Schifani). Comunque le dico “Lilù, monamù, ma certo che ci vengo con te in Uzbekistan, poi già che ci siamo facciamo un salto anche in Chirghizistan, Turcmenistan, Tagichistan, ma Cazachistan no, che l’ha già reso scontato Borat”.
Il fatto che mi avesse risposto che per un paio di settimane un solo Stan sarebbe stato più che sufficiente mi aveva fatto realizzare di avere fra le mani una tipina tosta che sa prendere sul serio una buona cazzata. E se c’è una cosa che apprezzo, più del vino buono, più della giovinezza, è la coerenza di prendere sul serio una buona cazzata.
Ero rimasto interdetto giusto il tempo di sollevare il pomo d’Adamo per inghiottire un’idea vecchia e le avevo detto “Sticazzi [italiano nel testo, N.d.R.], trasformassero l’Amazzonia in mobilia per i narcos. Uzbekistan sia".

Poi si scopre che Tomas non ha una corona perché ha appena comprato casa, mentre Nicola ha problemi con le ferie. Un mese dopo il volo è prenotato, complice un inverno prolungato che ti fa venir voglia di fare cose abbastanza pazze da farti dimenticare il qui e ora e fra due giorni si parte.

Però sembra, ma non è che si vada a caso. È che prima di prendere il volo, a guardare foto, leggere libri, ci si accorge di quello che si sta per andare a vedere. Da buon italiano guardo prima i monumenti, e mi impressiono subito a vedere moschee con minareti, mausolei e madrasse a Samarcanda, Chiva, Buccarà (lavvia l'ortografia te la decidi tu, quindi tanto vale scrivere in italiano). E poi c’è la storia, gente che è mongola, sciita, cristiana, sunnita, animista e zoroastriana, ellenica e turca, con un collante sovietico che annacqua le posizioni e rimescola le etnie. Montagne dove crescono i tulipani selvatici (che visto da qui, pare che i tulipani crescano solo sotto il livello delle dighe), il deserto del Chisilcùm e il Lago d’Aral che si ritira in una Stalingrado ecologica, insabbiando navi a cento chilometri da un’acqua che per fertilizzare i campi di cotone diserba tutto il resto. E ci sono nomi, nomi che suonano come se la loro stranezza li rendesse impossibili da visitare. La provincia autonoma del Karakalpakstan (altro che quella di Bolzano, che per suonare importante ha bisogno di tre lingue), Jizzakh, Quoquand, Shahrisabz, Chiziltepe e Qurgonteppa, e il fiume Syr Darya, che Alessandro Magno chiamava Oxum, come n gruppo punk o una marca di jeans. Perché Alessandro Magno magari non ascoltava il punk e non vestiva jeans, ma fin là c’era arrivato, senza volare Aeroflot. E c’erano nati Avicenna e Tamerlano, c’erano passati Marco Polo, Ibn Battuta, uno scazzatissimo Vittorio Sgarbi (non scherzo mica, vedi questo) e un paio d’altri, ma mica tanti, perché la strada c’era, e il fatto che fosse la Via della Seta non deve far pensare che sia stato molto morbido passarci, fra l’Afghanistan e il Taklamakan.

Quindi si parte, e si sta via un paio di settimane, “col tuo bello in capo al mondo”, come ha detto la mamì di Lilù, che non mi ha ancora visto e presume che la graziosa nipotina stia per forza con un bel figliolo, mica con un montanaro che le insegna a bestemmiare.

Si parte e si torna, il giorno prima della partita con la Nuova Zelanda, che i mondiali, si sa, sono i mondiali.

mercoledì 26 maggio 2010

Misurare il tempo

Ci sono secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni, mondiali di calcio, lustri e decenni.
Forse il modo più efficace per misurare la vita è il mondiale di calcio.

Nell’Ottantadue avevo un’età che fino a quattro anni fa, ogni volta che le prendevamo ai rigori, non ho mai smesso di maledire i genitori per non essersi sposati un paio d’anni prima.
Dell’Ottantasei ricordo più che altro l’album Panini. Ai tempi sapevo tutte le formazioni a memoria. La mia passione per le nazioni assurde era in piena e tifavo Iraq, che ai tempi non era ancora il Male. L’Italia c’era, non c’era, ricordo Altobelli, perché mi piaceva il nome. Il 2 a 0 che ci hanno smollato i francesi è uno dei miei primi ricordi calcistici, il primo esempio di frustrazione per una situazione che ti sta davanti, ma non puoi far nulla per cambiare.
Il Novanta invece me lo ricordo tutto e bene. Mio padre aveva caricato la tv sulla Passat rossa e si guardavano le partite dalla Sardegna, nel bùngalo con i vicini umbri, con quell’accento che anche gli adulti parevano un po’ bambini.
Il mondiale in Italia era una cosa non da poco. Mi ero preparato studiando le formazioni, memorizzando gazzette e inserti speciali. Le partite in tv però non riuscivo a guardarle, la mia soglia di concentrazione non aveva ancora raggiunto i 90 minuti. In semifinale ero uscito di casa sull’1-0, nella Gallura ancora più deserta ed ero tornato appena in tempo per il pareggio. Eravamo diventati grandi, ma non ancora maturi, l’Argentina aveva vinto ai rigori.
Nel Novantaquattro Zola, Signori e io non si sa se ci si era o ci si faceva. Però quatti quatti eravamo in finale. Che potessimo vincere, ho iniziato a crederci solo all’inizio dei rigori, tardi per vivere l’attesa e la speranza, ma appena in tempo per la delusione. Era un po’ così, i mezzi c’erano, ma non ci si credeva. Materiale da sfruttare, come una piana alluvionale appena scoperta in mezzo al deserto. S’era in Toscana, ai tavolini di un bar, a prendere per il culo i tedeschi, che le avevano prese dalla Bulgaria. In spiaggia leggevo il mio primo Kerouac, lo capivo perfettamente perché non cercavo di capire nulla. Baggio invece ho iniziato a capirlo solo anni dopo, quando Capello non lo faceva giocare.
Nel Novantotto ero in Interrail, s’era vista una partita sola, quella noiosissima con la Norvegia, in un bar di Madrid. Tifavo Di Biagio e la notizia funesta mi era arrivata sul Talgo da Madrid a Barcellona, nelle valli desertiche dove Leone girava i western, che se ora viaggio per deserti lo devo anche a quello che si era visto da quel finestrino là. "Francia ganò, de penalti”. La nazionale era come me, materia oscura.
Nel Duemiladue ero nella parte buona della vita, già da un Europeo. Nell’aula magna della Scuola Interpreti di Forlì, la migliore nazionale che abbia mai visto, insieme ad un me stesso agguerritissimo, partiti col favore dei pronostici, ci schiantiamo contro ostacoli inattesi. Io poi non ho neanche la scusa dell’arbitro bestia. Però la risalita era cominciata altrettanto inattesa, tanto è vero che nel Duemilasei, in versione molto più silente, l’avevamo vinta contro ogni previsione. Bastava che alla testa della squadra ci fosse una mente lucida. Lo stesso valeva per la mia, di testa. Ero a Galway, in finale, con altri 10 italiani contro duecento barbari della genia di Asterix, con la gola rauca per il freddo irlandese e le urla che tre giorni prima avevano cercato di coprire quelle di duecento tedeschi. Durante i festeggiamenti, il capo degli scout italiani ci aveva chiesto di smorzare i toni, così che i suoi pupilli potessero andare a dormire, ma i pupilli brandivano un bandierone irlandese con l’arancio tinto di rosso e lo stavano issando sul lampione di Shop Street. Noi al capo gli si rideva in faccia, perché – poverino – lo stava vivendo senza averlo capito.

E la storia sarebbe dovuta finire così, perché quando raggiungi il vertice troppo presto, facile facile che cadi. Lippi non sembra aver capito, io sì, ma questo non significa che sia corso ai ripari.

Intanto laggiù nel paese del Ma, la moda è tifare contro, perché fa sempre piacere stare dalla parte del “te l’avevo detto, io”. Ma in verità, in verità vi dico che se le previsioni per quest anno non hanno il colore della Gazzetta, non dipende da Cassano e Balotelli.

lunedì 24 maggio 2010

Ebbrezza al manubrio

Il momento di gloria delle serate quassù in alto è pedalare ubriachi verso casa.
È un incedere, da consumarsi preferibilmente sulla lunga distanza. Agganci la protesi musicale alle cavità uditive e metti qualcosa che sia pomposo, ma decadente. Nulla di troppo forte o spedito, ma qualcosa che inquadri la vita come uno sforzo eroico, it’s a sad and biutiful uorld. Di solito la pedalata va giù a fette grosse, enfatizzata, generosa nel dispendere energia inutile, ho fatto un etto e dieci, lascio? Agli esordi davo di forza per tornare sobrio, ma poi qualcuno mi ha detto che la pedalata ebbra non fa che risvegliare la sbornia. Hanno dovuto dirmelo perché mi rendessi conto che era così, ma le gambe ho continuato a pistoneggiarle comunque, a maggior ragione. La velocità annebbia la mente, intendi solo la musica e un vago sottofondo fatto di luci arancioni e altri ciclisti, spesso immersi nelle stesse circostanze. Ti sembra di essere il passeggero, e pedalino gli angeli, i santi o voi fratelli.

Di questo periodo poi fioriscono i tigli, che lasciano per strada un odore che benedice come l’amaro benedettino. Un torpore benefico. Pedalare ubriachi in primavera con lo stesso fresco del primo tuffo in piscina, da asciutti.

Ad Amsterdam poi, nel Jordaan. Prendere la rincorsa per arrivare in cima a quei ponti a carrucola che sembrano giocattoli di latta, fra le case e i bar delle vie con i nomi dei fiori. Ogni tanto incroci una via e nello slargo vedi il campanile della Westerkerk, dritto là in fondo, con la cima inguldonita di bianco, che di notte, con le luci, sembra il pennino di un calamaio. Le barche abitabili con i vasi di fiori e l’erba sul tetto e gli oblò illuminati, e tu intravedi tavolini di legno che ti fanno capire, effettivamente, come uno possa scegliere di viverci dopotutto, nonostante l’umidità e i cessi che d'inverno si congelano.

E poi mica solo il Jordaan, eh, perché tutta la Weesperzijde, lungo l’Amstel, con le case di due secoli fa, quelle con le finestre grandi, schermi compatti che con una vista così ti dimentichi che d’inverno, qui, sarebbe anche buio. La strada è larga, ma non li trovi i motori che si avventurino nella regno della pedivella, anche perché ci sarebbero quelle gobbe di cemento che a scuola guida ti insegnano che devi calcare sulla frizione, ma loro i polmoni in gola te li cacciano comunque, mentre in bicicletta ti fanno sobbalzare compiaciuto. Alla fine passi sotto, risali e poi su e giù in prossimità di ogni ponte, fino all’Hermitage.

O ieri notte, alle 4, con la città meno deserta che alle 8 di sera, prendi la stazione da dietro, arrivando dalla Hoogte Kadijk con l’altro ponte di latta, c’è la Sint Nicolaaskerk, che hanno messo là per far capire ai turisti inglesi che sono stati ad Amsterdam, anche se sono stati solo fra la stazione e il Dam e hanno visto solo vetrine rosse e non. Metti quel disco dei 16 Horsepower e spingi per tutta la Haarlemmerstraat, che è il simbolo della dittatura ciclistica, una delle strade più trafficate, soprattutto dal senso di marcia vietato per chi sotto il culo ha due ruote e nessun motore meccanico. E poi entri a Westerpark, esci dal sottopassaggio e incateni bene ruote e telaio davanti alle case popolari dei primi decenni del Novecento. Il gioco è fatto, basta lavarsi i denti e premere OFF, con l’inerzia ancora nelle gambe.

mercoledì 19 maggio 2010

Monnezza anche quassù


Presente la Munnezza di Napoli? Beh, quassù non è che uno possa incaricare il clan di fiducia di spazzarla via dopo aver vinto le elezioni.
Perché? – mi si dirà: non c’è mica il problema della monnezza, lassù in alto!
C’è, c’è. Gli spazzini sono in sciopero da due settimane, giusto dopo il giorno della regina, con le strade piene di rumenta arancione.

Uno sciopero al modo di qui. Certe mattine ti svegli e qualcuno ha messo in ordine i sacchetti, li ha impilati e ha pulito via il materiale liberato dalle folate di vento. A volte hai il sospetto che alcuni sacchi spariscano furtivamente: da una settimana il volume della pila non sembra aumentare.

Viene da pensare che se il tempo non fosse freddo e infame come invece è, e i raggi del sole fossero liberi di cuocere manghi marciti e bucce di formaggio, sotto uno strato di nylon, come in un forno di quelli che lasciano intatto l’aroma, forse qualcuno passerebbe di notte a spargere olezzi di bergamotto, oppure getterebbe un sacco nero pieno di incenso fra quelli di contenuto meno nobile.

In questa sede, che si è un po’ psicologi e un po’ sociologi, comunque sempre senza portafoglio, ci si diverte a capire cosa butta via la gente.

Lattine. O forse sarà che si notano perché uno le butta là, direttamente in strada. Le possibilità di compattamento dell’alluminio sono immaginifiche, basta una giornata e il cilindro rosso che in giorno prima conteneva 33 centilitri dell’oro nero di Atlanta, Georgia, diventa una pellicola sottile che decora l’asfalto strizzando l’occhio a Warhol e soci.

Carta. Perché fra i miti da sfatare c’è quello che nei PaesiCivili® la gente faccia la raccolta differenziata, sempre, comunque e ad oltranza. Pare che la si facesse, sì, dieci anni prima che in Italia, tanto che la moda è già finita e andare alla campana con un sacchetto pieno di vetro clingottante è ormai un esercizio di borghesia decadente: passé, almeno quanto i grembiulini per andare a scuola o i capelli cotonati.

Divani e materassi. Ogni mucchio che si rispetti ha un divano o un materasso, a volte anche entrambi. La gente vuole stare comoda. Sarebbe un paradiso per i senzatetto, se ce ne fosse anche uno solo in città. Invece ci sono questi personaggi invisibili. Frugatori, riciclisti, raccoglitori, collezionisti, artisti.

Ieri anch’io ho liberato il divano bianco in strada. La mattina dopo era coperto di graffiti, la sera qualcuno aveva rimosso le parti metalliche. Domani mattina sono curioso di vedere se restano almeno le ossa, della mia carcassa abbandonata nella savana.

sabato 15 maggio 2010

Oriundo io

Mi hanno sempre divertito quegli italiani nati o cresciuti all’estero che per sentirsi sicuri nel loro marchio di italianità fanno i più italiani fra gli italiani. Poi tempo fa il sospetto, che ora troppi indizi hanno trasformato in ovvietà: sono ufficialmente uno di loro.

C’era sto tipo, quando ero a Colonia, un italiano nato in Germania. Tullio, si chiamava, parlava solo di sole, cucina, gente aperta. A lezione di italiano prendeva per il culo i tedeschi ad ogni errore, perché parlare italiano era l’unica cosa che sapesse fare meglio degli altri, l’unica per la quale sentirsi superiore.
Poi un giorno mi racconta che nella sua amata Italia una volta ci si era trasferito e candidamente ammette che dopo tre mesi era tornato indietro (sì, però vuoi mettere il tempo, la pizza, la gente che fa festa in piazza?).
Non stava simpatico a molti, sto Tullio, tra sole, cibo, gente aperta. Quando lo sentivi parlare con i suoi connazionali tedeschi ti vergognavi della tua azzurrabilità. E capivi l’origine di molti stereotipi.

Ora invece sto focalizzando sensi, chakra e balle varie nello sforzo di trattenermi, perché certi discorsi cominciano a sfuggire anche fra spifferi impercettibili nelle mie corde vocali. Sento l’aria calda che si libera, premo le labbra, stringo i denti, schiaccio la lingua contro gli alveoli come il mozzicone di una sigaretta da spegnere, ma – ops – mi è scappato. Sarà che qui si mangia pesante (ah, la buona cucina italiana), sarà anche colpa del tempo, perché per metà maggio è un freddo boia.
E comunque il lunedì sera, al telefono, quando i miei mi dicono che anche giù da loro di notte quasi gela, faccio finta di non sentire. Lamentarsi è gratis e voglio farlo al massimo delle mie potenzialità.

E tornando al mangiare pesante, il peggio lo do proprio quando si mangia in compagnia, al ristorante o in ufficio. Comincio a pontificare su norme e regole della cucina italiana, poi, quando torno in Italia mi accorgo che anche là, non è che seguano le mie prescrizioni proprio alla lettera.

E poi c’è la musica, perché fin qui arriva solo quella che tranquillizza gli autoctoni, confermando la loro immagine d’Italia. Invece ieri sera in pizzeria avevano sto disco con le hit del 1998 o giù di lì. C’era Vasco e mi sono sorpreso per una volta compiaciuto a sentire quella voce familiare. Poi c’era quella dei Lunapop, che dice che c’è qualcosa di grande fra di noi, e io là a fare del revisionismo storico, che la voce non è poi così male e la canzone ha una metrica piuttosto scorrevole, tanto che mi sono messo a disquisire, davanti a Lilù, parlando di Vespe 50 e del rewind, che non dice riuàind, ma proprio reuìnd, e poi non si sa bene cosa sia tutto il necessario. E lei là orgogliosa, del suo amico esotico, che parla con i camerieri dei ristoranti etnici nella stessa lingua e di argomenti comuni. Anche il fatto che con i camerieri – e non solo con loro – si termini sempre a parlare di crisi, governo, lavoro, pare faccia molto esotico e porti a riflettere su come spesso ci si lamenti della buona vecchia Francia, ma in fondo ci sono posti dove si sta peggio. Ed è anche colpa mia, perché non lo ammetto spesso, che se sono all’estero non è perché in Italia non si trova lavoro. Non so, forse mi sembra disprezzo verso chi davvero è partito per questo motivo.

Stamattina mi accorgo che con oggi sono qui da due anni. E pensare che credevo che ce ne volessero almeno venti. Forse dovrei tornare a casa più spesso, invece di parlarne e basta.

mercoledì 5 maggio 2010

Odio

Cito pari pari dal sito del Corriere: "L'ultimo fenomeno del web è un blog che si chiama Vi Odio”. Aggiungo: non mi stupisco.

A vedere l’Italia qui dall’alto, l’impressione è che sia in corso un enorme spargimento d’odio, oltre a critiche, insulti e frammenti di negatività assortita, come noci e nocciole e anacardi nelle vaschette dell’Albert Heijn (ital: supermercato).

Sui forum la parola più usata è “vergogna”, l’ho già scritto e lo ripeto, perché ogni volta riesco a stupirmi di quanto venga usata. E poi ci si insulta e si critica. Negli articoli di calcio su Yahoo, è incredibile quanta gente sia pronta a tifare contro la nazionale, solo per disprezzo verso Lippi, che non convoca il genio maledetto del giorno. Come se uno che vive di calcio da 60 anni ne sapesse meno di te, che pratichi la professione più antica del futboll la mattina al bar davanti al tuo bicchiere di spuma.

Poi leggi i blog. Sembra che quelli di maggior successo siano quelli che criticano. La tecnica è sempre la stessa: ridicolizzare qualcosa o qualcuno evidenziandone i lati più paradossali. La gente ride, nulla cambia. Perché mai si dovrebbe cambiare una situazione divertente?

Berlusconi ci ha fatto una carriera, sopravvivendo in quanto creatura divertente. E alla fine c’ha raggione lui: c’è troppo odio in giro. Bisognerebbe odiare lui e amare tutto il resto.

L’odio va bene in dosi piccolomediograndimanontroppo. L’odio può essere constatazione che qualcosa non va e quindi costruttivo, ma questa se ci pensi bene è una beata cazzata, perché lo sai anche tu che non è così. Chi odia, chi critica, di solito lo fa così, senza fare niente per cambiare le cose. Chissà perché, quelli che le cose le fanno sono sempre persone taciturne, come Clint Eastwood in quei western dove ti guarda con quell'espressione che dice “c’ho dei probblemi che nun t'immagini neanche", poi spara e il problema è risolto.

Di persone taciturne, appunto, ha bisogno il nostro centocinquantenne paese. Ma se uno tace, come fa a vincere le elezioni?

Più ci penso e più mi rendo conto che il problema è proprio questo.

martedì 4 maggio 2010

Occhio

È già da un paio di mesi che ti tengo d’occhio.
Se guardi bene in fondo alla pagina, c'è un cosino con un sacco di belle bandierine che mi indicano chi frequenta sto bugigattolo qui. L’utopia dello “Scopri chi visita la tua pagina” di Facebook in questa sede è realtà.

Tranquilla, tra poco lo tolgo, e comunque si parla di luoghi (facilmente piratabili) e non di nomi.
Non ho mai scritto sto coso per essere letto dalle masse (l’indirizzo è apparso in commenti su 4 blog e l’ho dato di mia iniziativa a 6 persone, delle quali 2 non parlano italiano e un’altra in ogni caso non credo lo leggerà mai più), ma ero comunque curioso di sapere qual è il mio livello di esposizione.
E poi ci sarebbe il fatto che quando ci sono di mezzo le belle bandierine vado in visibilio.

E mettiamoci magari le ragioni statistiche. Qual è l’articolo più letto?
Ebbene sì, di gran lunga quello che parla di donne nude (sui quotidiani, mica quassù), con più di metà delle visite totali. Anche dopo aver censurato i termini più diretti è rimasto il più letto.

Poi c’è quello sui morti su Facebook. Facebook tira sempre e la questione del profilo dei morti è sicuramente capitata a molti (pare che ci sia chi tempesta la bacheca dei defunti di messaggi lacrimevoli).

Poi quelli sui tappi dei succhi Valfrutta, quelli con le bandiere, non chiedetemi perché. Maggior sospettato, lo stesso desiderio di regressione verso l’infanzia che ha fatto sì che la gente della mia generazione frequentasse le discoteche dove mettono le sigle dei cartoni o che io mi trasferissi in Olanda per seguire le orme di van Basten.

Seguono gli articoli sulla lingua olandese. Molto gettonato anche quello sul Puzzenroito e la cosa mi dispiace, perché nel frattempo a quell'accento similamericano mi ci sono abituato e la tipa non è che sia antipatica o cosa. Solo un bel po' timida. Tra l'altro giorni fa mi ha suggerito la via più breve per raggiungere l'ufficio dal mio nuovo appartamento in zona Westerpark. Le devo 5 minuti di vita al giorno fra andata e ritorno. Dovrei investirli pregando per lei. E comunque di togliere l'articoletto non se ne parla.

Ma la cosa più bella è scoprire come la gente ci arriva, su sto bugigattolo qui. Perché se uno mi trova tramite un motore di ricerca, il sito con le bandierine mi mostra il termine di ricerca che ha portato qui il navigatore alla deriva.

Ecco la lista dei miei preferiti, ingentiliti da una preziosa chiosa, volta ad aiutare il navigatore smarrito nella sua ricerca.

scotechino prodotto dello scotennamento del porco

tecniche per non pagare il biglietto sul tram una è pagarlo dal tabaccaio

perché ventotto si scrive così guarda che va bene anche XXVIII

il plurale di eroe strage

capezzoli con grosse aureole forse Sant'Agata, prima che la mutilassero

adida la trainer si scivola quindi adidas sono le trainers?

desio e robe materassi anch'io desidero dormire, ma il materasso mi va bene senza robe

ossessione stercoraria bel vizio di merda

tantissimi nomi di uccelli qui non commento

pulivo i cessi al tabacchino poi per fortuna ha smesso di fumare

animali che vivono in luoghi umidi in bagno i famosi alligatori delle fogne di gnuiork?

contreras e blissett lui scrive meglio, ma a calcio ce la giochiamo alla pari

capelli arancioni finali una nottata da leoni per poi svegliarsi la mattina dopo nei panni di Rossella O'Hara

protesi tricologica steven seagal per non fare la fine di Sansone?

chi è bucoschi scritto così, direi un tossico

scale mobile per patate nuovo dall'America, visto in tv!

classo per bicicletta idem, ma mi sa che in America lo scrivono diversamente