venerdì 26 settembre 2008

We dig repetion

La musica, per fortuna, non è una questione di cervello, ma di cuore o di panza. La si ascolta per motivi diversi, ballare, star meglio, svegliarsi, star peggio o addormentarsi. Sospetto che gli unici che non hanno capito un cazzo siano i maniaci della tennica, gli sportivi del rock’n’roll, quelli che se alle Olimpiadi mettessero l’assolo libero si fionderebbero, cronometro alla mano, a vedere quante note al secondo ci ficca lo Gnigni Malmsteen di turno.
Cazzate, insomma. Per fare qualcosa di bello non serve essere bravi, bisogna saperci fare e basta.

È provato nei migliori laboratuar che qualsiasi variante con accordi di Mi, La e Re non può che suonare bene. Aggiungiamoci un Do e un Si e abbiamo l’intero repertorio degli Stones. Basta alzare il volume e nascono le hit. Quello che conta è spesso il contorno, la voce, la distorsione, il testo, ma anche l’atteggiamento e i vestiti. The singer, not the song, cantavano per l'appunto gli Stones, e direi che abbiamo anche capito perché.
Poi però ci sono anche quelli che oltre a suonare due accordi di numero, li suonano pure maluccio. Suonano canzoni da discount, con strumenti da discount e voce da distilleria. Eppure spesso queste canzoni sono memorabili, della serie che vale più una Louie Louie di mille Stairway to Heaven. Lo sapeva bene Frank Zappa, che ne era ossessionato e l’ha usata per dissacrare l’organo della Royal Albert Hall (non trovo la sua versione e allora vi metto quella dei Sonics).
Ah, a proposito di Led Zeppelin, lo sapevate che tutte le loro canzoni più famose sono in Mi La Re? Black Dog, Heartbreaker, Whole Lotta Love, e sì, anche Stairway to Heaven. Ma qui i semplici accordi vengono smembrati e il discorso cambia. Noi no, noi vogliamo solo quelli che i loro tre accordi non stanno là ad infiocchettarli più di tanto. Eccone alcuni.

Louie Louie, o Wild Thing, che è poi la stessa cosa, ma con l'organo Hammond = 96 Tears



Chi la spunta fra Beatles e Rolling Stones? Per me mille volte i Kinks, che già quando gli altri si rincoglionivano di sottomarini gialli la buttavano giù dura



I Ramones non sapevano suonare, ma lo facevano da dio



Dopo aver salpato i mari, il vecchio Louie si dà all’elettronica



Quando hanno rinfacciato al giovane Neil che le sue canzoni erano tutte uguali, lui ha risposto che per forza, è tutto una canzone sola.



I Fall sono quelli che cantavano "We dig repetition in music and we're never gonna lose it". Questa però è un'altra.



E la roba semplice va di moda anche oggidì. Ecco un gruppetto che ora va per la maggiore quando gioca la nazionale. A differenza di Mameli, anche Camoranesi li canta. Ma questa è di qualche anno prima.



E se ancora non vi siete rotti i coglioni vi ringrazio e vi faccio sentire anche questo, questo, questo e quest'altro

mercoledì 17 settembre 2008

L'Europa in verticale


Uno dei motivi per i quali mi definisco un bastian contrari è che a scuola ero solito studiare i capitoli dei libri di testo che il professore ci aveva concesso di saltare, ma non riuscivo a concentrarmi su quelli che facevano parte del programma.
Non era un impulso nato da razionale disobbedienza, ma una specie di riflesso incondizionato.
Ora che lavoro, le cose non sembrano essere cambiate: continuo a fare fatica a concentrarmi su quello che mi viene imposto di fare. Non si tratta di pigrizia, non passo il tempo a fare nulla, è più che altro una tentazione, costituita da mille blog e rubriche, aggiornati ogni giorno, da leggere sui siti di giornali e riviste internazionali.

Non serve un cervello per constatare che il contenuto dei siti dei maggiori quotidiani è giornalismo al botulino, grammatica scaduta, tematiche marce e linguaggio fermentato. Gossip, chiacchiere, cronaca nera, concorsi di body painting, donne che protestano nude e ogni scusa immaginabile per tentare i nostri istinti più naturali.
Ogni giorno però, per alzare il livello, o più probabilmente per attirare anche un altro tipo di pubblico, vengono pubblicati anche alcuni articoli tratti dal giornale cartaceo, solitamente di ottima qualità.

Ad esempio, su Repubblica è ormai tradizione consolidata riportare i reportage dei viaggi di Paolo Rumiz. Rumiz ha esordito per Repubblica negli anni ‘80 come inviato nei Balcani, posizione nella quale si è fatto un nome durante la guerra in Jugoslavia, per poi spostarsi ulteriormente verso Est durante la guerra in Afghanistan. E l’Est è una tematica ricorrente nei suoi servizi. Nel 2001, sotto l’influenza di birra di quella buona, ha organizzato una pedalata di 2000 km da Trieste ad Istanbul, in compagnia del vignettista Altan e di un certo Emilio Rigatti, cicloturista praticamente professionista. Repubblica ha poi pubblicato un reportage sul viaggio, suddiviso in puntate quotidiane corrispondenti ad ogni tappa.

Rumiz ha poi la dote o il culo di essere sempre al posto giusto; il suo viaggio verso Istanbul ha come tema il contatto fra Europa e Oriente islamico e l’ultima puntata, nella quale Altan arranca verso il centro di Istanbul esclamando “Allah Akhbar” è datata 29 agosto 2001, alle porte del fatal settembre.

Da allora il reportage estivo diventa una tradizione. Io Rumiz l’ho incontrato, almeno metaforicamente, quando ha scelto di percorrere la distanza della Transiberiana in treno senza oltrepassare il confine italiano, accompagnandomi nelle pause pranzo durante un lavoro estivo come guida turistica in alta Val di Non. È stato là che mi sono lasciato coinvolgere dal suo stile descrittivo, lirico, ma dinamico, idealistico al punto da sembrare opera di un diciottenne. Rumiz descrive quello che vedono i suoi occhi e quello che vede la sua mente.

Quest’anno ad agosto la mia azienda ha perso il cliente principale e ho avuto così tutto il tempo necessario per seguire il nuovo reportage. La traversata dell’Europa in verticale, dal Polo ad Istanbul, sempre pochi chilometri al di là del confine dell’Unione Europea, in Russia, Bielorussia, Ucraina, incontrando gente e sovvertendo, fra regali dati e ricevuti, il contenuto di uno zainetto, unico riparo del viaggiatore leggero e senza pena.

Anche qui Rumiz è al posto giusto al momento giusto. Durante il viaggio, ben due persone gli preannunciano l’attacco della Russia in Georgia, avvenuto nel periodo fra la fine del viaggio e la pubblicazione degli articoli. È come se i russi avessero saputo che stava per succedere qualcosa. Le stesse persone che sembrano aver scelto Putin senza sapere che è un mezzo criminale, si rivelano tanto coscienti di quanto sta succedendo, quanto impotenti, proprio come avevano affrontato il mostro sovietico.

All’inizio della lettura mi chiedevo molto ingenuamente cosa ci sarà stato da raccontare di un viaggio attraverso luoghi non segnati sulle guide, poveri di abitanti e ricchi di natura. D’altra parte non si può scrivere per un mese descrivendo alberi e laghi. Invece il nostro eroe è un campione nell’intortare gli sconosciuti, attacca bottone con i passanti e spesso viene ripagato con una storia e un invito a cena. Ama mettere il culo fra le pedate e quando in Ucraina gli capita di seguire una rissa fra criminali locali, si porta ancora più vicino per sondare il terreno.

Così la storia scorre rapida, fra descrizioni dinamiche attraverso i finestrini del treno e incontri più o meno casuali, imprevisti e soluzioni altrettanto impreviste, attraverso Murmansk, la Carelia, le tre repubbliche baltiche fino a Kaliningrad, la Bielorussia e l’Ucraina lungo i Carpazi. Tradizione e modernità, inclusi ed esclusi, est e ovest. E alla fine tutto si unisce, fra treni, natura, gente.

sabato 6 settembre 2008

Please Kill Me: The Oral History of Punk


Ho una strana tendenza a conservare le cose che mi piacciono per godermele in futuro. Così capita ad esempio tutti gli anni che l’ultima stecca di torrone duro alla mandorla finisca verso la fine di giugno.
Il discorso vale ovvimente anche per i dischi: conservo i miei album preferiti per momenti speciali, perché non vorrei mai rovinare i ricordi a loro legati. Non ascolto mai i miei dischi preferiti. Ma ultimamente su questo versante sto migliorando. Mi concedo ampi ascolti di dischi prima intoccabili e, estendendo il discorso ai libri, ho finalmente ordinato, ottenuto e intaccato “Please Kill Me: The Uncensored Oral History of Punk”, di Legs McNeil e Gillian McCain.

L’avevo adocchiato anni fa in un negozio di roba di seconda mano a Colonia e un paio di mesi dopo l’avevo ritrovato, citato e lodato da Wu Ming I come grande ispirazione per il suo romanzo solista “New thing”, altro libricino che in meno di duecento pagine stipa una selva di ispirazione, idee e rimandi a tematiche reali, dal free jazz al black power.

All’epoca, di Please Kill Me non esisteva una traduzione italiana, così appena laureato, lo sbarbato neotraduttore che ero aveva scritto a Minimum Fax, che già deteneva i diritti di traduzione, per proporsi come traduttore per l'opera. Mi viene ancora da ridere a pensare che forse speravo davvero che mi rispondessero, o che addirittura accettassero la proposta. Fatto sta che un annetto e mezzo dopo esce sta benedetta traduzione. Ovviamente non ho la minima presunzione di aver fatto scattare io la molla, credo che Wu Ming I si battesse già da anni, e poi mica vanno ad ascoltare un ragazzino con la sua bella pergamena fresca in mano. Però ogni tanto il mio immodesto ego ama cullarsi fra i “c’ero prima io”.

Legs McNeil è uno che nella scena punk americana c’era immerso fino al collo, avendo lavorato per diverse riviste della scena locale e inventato il termine stesso “punk”. Di racconti memorabili deve averne sentiti raccontare diversi. Tanto è vero che decide di raccoglierli e scrivere la sua versione della storia del punk, mettendo in fila dichiarazioni fatte da diversi protagonisti e lasciando parlare anche chi stava dietro al palco, il che fa sì che i musicisti vengano descritti in modo più naturale, togliendo l’aura di mito e immergendoli nella vita quotidiana.

Emerge fra tutti sto Danny Fields, l’uomo che facendosi della droga del momento è partito dai Velvet Underground (speed) e ha scoperto Doors (whisky), MC5 (marijuana) e Stooges (eroina). Uno che a giudicare dalle sue parole da frocione incallito, questa gentaglia l’ha selezionata più per l’aspetto esteriore che altro.

E questo è tutt’altro che un aspetto marginale. Fields ammette che la musica degli Stooges, prima di incidere album, fosse una cosa assolutamente marginale. Quello che contava era che Iggy vomitasse sul pubblico. Poi è arrivata anche la musica, un buon produttore in uno studio decente può fare miracoli. Per i New York Dolls il discorso è ancora più evidente, sono stati scritturati perché si vestivano da donne (ah, a proposito, erano tutti talmente eterosessuali e Johnny Thunders era terrorizzato dal fatto che la gente potesse pensare che fosse gay) e non per la loro musica.

Non che mi aspettassi che la realtà fosse differente, ma è veramente triste leggere la conferma che praticamente chiunque dotato di una presenza scenica decente (ma forse un bel culo aiuta di più) possa diventare un musicista importante. In pratica quello che conta è il produttore. Stop. Come se nel calcio un buon allenatore potesse portare la Reggina allo scudetto.

Partendo da queste basi, il nostro bel libercolo procede a demolire diverse biografie di cantanti celebri. In pratica, almeno nelle prime 200 pagine, tutti i leader dei gruppi nominati fanno la figura degli egomaniaci. Pare ad esempio che il ruvido Iggy sia in realtà molto più colto dell’intellettualoide Lou Reed, solo che il secondo ama credersi e porsi come uno che sa, per poi pregare uno sconosciuto di cagargli in bocca, ma qui fermiamoci, se no entriamo nel gossip. Soprattutto Jim Morrison, quello a petto nudo, che allarga le braccia sulle magliette, ne esce demolito. Jim è un alcolista fin dai primordi, passa le serate pisciando sul pavimento dei bar perché non riesce neanche a trascinarsi al bagno, si dimena fra le acque di scolo ed è vero che alcuni suoi concerti sono memorabili, ma solo uno su dieci, tanto che ci vuole un po’ per convincere i dirigenti dell’Elektra a scritturarlo. Ah, dimenticavo, pare addirittura che il vecchio Jim non fosse neanche tutto sto grande letterato dopotutto.

Ok, ammetto che da questa descrizione pare che stia leggendo un libro scandalistico. In realtà si parla soprattutto di musica, ma per descrivere al meglio la musica bisogna conoscere il musicista, possibilmente immerso nel suo habitat. In pratica la storia personale e la personalità dei musicisti vengono usate per spiegare il loro stile e la loro attitudine. E il punk è un genere che più di ogni altro nasce dalla personalità del musicista, perché, lo vogliate o no, il punk è immagine ancora prima che musica. Quello che risalta nel punk non è tanto la musica, quanto la personalità. Chi conosce i New York Dolls? Vedo tante mani alzate. Chi conosce le loro canzoni? Così pochi? Chi sa dirmi il titolo di una canzone degli MC5 che non sia quella che tutti sappiamo?

E qui torniamo a Danny Fields. Il punk ha bisogno di un magnaccia come lui, o come l’infame Malcolm McLaren, uno al quale interessa solo l’immagine, uno che della musica se ne frega fino ad un certo punto.
Fino alla fine degli anni ’60 il rock era tutto sommato basato sulla musica. La personalità degli artisti contava fino ad un certo punto. Dei Byrds, degli Animals, dei Jefferson Airplane, si conoscono le canzoni, non la biografia. Elvis, i Beatles, gli Stones sono i primi a costruirsi un’immagine, ma dai Velvet Underground in poi la cornice comincia a contare più del contenuto. E non sto qui a dirvi che così non dovrebbe essere, perché non sta a me. Anche lo stile ha la sua importanza, non lo nego.

Il succo del discorso è che al musicista punk non basta cantare canzoni, le deve anche vivere fuori dal palco.

Detto questo, che pare molto romantico, Legs ci insegna anche che per farlo bisogna essere dei bei cazzoni. Sul musicista come testa di cazzo sentenzierò a breve.

martedì 2 settembre 2008

Jon Spencer: come taroccare il blues e uscirne alla grande


La musica di Jon Spencer mi è entrata come un cavallo di Troia.
Era la seconda metà degli anni 90, mio padre ci aveva appena trasformati in pionieri della tv satellitare e mi nutrivo di canali musicali tedeschi. Preferivo le trasmissioni moderate da cinquantenni con i capelli grigi, l’orecchino e il giubbotto di pelle, ma ogni tanto gettavo l’occhio su qualche video recente, se non altro per capire cosa ci trovassero i miei compagni del liceo.
Il cavallo di Troia di Jon Spencer è stato il nome Blues Explosion. Blues = tradizione, quindi leggevo nel nostro un tentativo di educare i coetanei alla musica degna di essere ascoltata. Intuivo uno sforzo missionario che gli imponeva di ridipingere la tradizione afroamericana con un paio di effetti moderni per il bene della vera musica, l’unica degna di essere ascoltata. La canzone era Talking about the Blues, il cui testo dice “we don’t play no blues, we play rock’n’roll”, ma non si può pretendere che uno che avrà sì e no 17 anni capisca anche l’inglese, no?
Negli anni a seguire mi sono informato meglio, ma Jon è rimasto un mio pallino, con la sua musica sporca, lavata col marsiglia sull’asse di legno, così quando ho visto che avrebbe suonato al Melkweg sono corso col mio fiets sotto la pioggia a comprare i biglietti per me e per la morosa, che lo Spencerismo non lo capiva, ma confidavo nella prestazione dal vivo per una conversione, cosa peraltro portata a termine con successo.
Da buon secchione del rock’n’roll arrivo al concerto con mezz’ora d’anticipo e faccio per prima cosa sosta al banchetto del merchandising, dove vedo un poster con la copertina di un fantomatico nuovo album, che raffigura il buon Jon in forma di fumetto, mentre scava una tomba dalla quale escono dischi con i nomi di gruppi tipo Stone Temple Pilots, Lemonheads, Hole e, orrore degli orrori, Red Hot Chili Peppers. Per fortuna il tipo alla cassa mi rassicura, dicendomi che sono tutti nomi di gruppi che Jon odia. Bene così, anche se magari Pearl Jam e Pixies li avrei risparmiati. Bisogna comunque ammettere che l’omonimo di Bud e Diana ne ha di coraggio, per sputare in faccia a tutti questi colleghi: non per i colleghi in sé, quanto per i loro fan incazzati. Mai sottovalutare la furia di un fan incazzato, è l’abc del rochenrolle.
Ma lasciamo la musica parlata e veniamo alla musica giocata, perché è giocare che piace al nostro. Due chitarre, una batteria e un microfono distorto, dal quale urlare un paio di banalità divertenti, solitamente prendendo per il culo le poche frasi del repertorio del bluesman professionista. “I woke up one morning” e via, Jon e Judah Bauer all'altra chitarra si scambiano i ruoli di accompagnatore e solista, accennando riff delle loro canzoni per qualche decina di secondi, senza mai portarne a termine una intera. Il concerto è un susseguirsi di riff, con qualche breve assolo, per un’ora dalla quale i Rolling Stones avrebbero potuto estrarre abbastanza riff da rifarsi completamente la discografia.
È una strana jam session, fatta di frammenti di canzoni. Qualche volta si riconosce qualcosa, ma dopo pochi secondi la musica cambia di nuovo. E per tutto il tempo il ritmo rimane coinvolgente, quasi ballabile. Sarà forse anche per questo che una percentuale molto alta del pubblico è femminile.
Il bis è come un altro concerto, non solo per la durata, ma anche per il fatto che stavolta le canzoni vengono suonate per intero, concedendoci un metro di paragone per farci capire quanto i tre ci sappiano fare.
Dopo aver sciolto il gruppo per dedicarsi agli Heavy Trash e a collaborazioni varie, tra le quali quella non degna di menzione con Eros Ramazzotti, Jon torna dai suoi ragazzi come un amante pentito e ce la mette tutta per farsi perdonare. Andateveli a vedere.