mercoledì 25 aprile 2012

Cinesi


Potrei raccontare un sacco di cose, su scogliere friabili che si tagliano con un grissino, ruscelli pieni di cercatori d’oro, foreste con alberi di felce, battute di fotocaccia all’ornitorinco e il più grande dragone cinese al mondo che sfila nel Sud dell’Australia per il carnevale. Che cade il giorno di Pasqua.
Vorrei raccontare tutte ste cose, ma mi manca il tempo, o meglio, la batteria. Ultimamente si dorme gratis nei boschi e anche quando si sta in ostello, come è capitato a Melbourne, ci sono così tante cose da fare che non c’è mai il tempo di rianimare il portatilino bordò metallizzato.

Tante cose da fare nella capitale culturale australiana, tutte a contatto con i cinesi. Honkonghiani, singaporegni, macaensi, taiwanesi o pechinesi, tutte le gradazioni del giallo. Centinaia di migliaia solo quelli che risiedono nello stato del Victoria, a cui aggiungere i turisti che posano per fotografie lungo la Great Ocean Road, con le dita di entrambe le mani che formano il segno della vittoria, o quelli nel cottage del capitano Cook – al quale ho sempre invidiato i viaggi e la giacca – che vedono le stanze attraverso lo schermo della macchina fotografica e non hanno tempo per verificare se quello che stanno fotografando esiste davvero. E il tipo che al parco posa seduto sotto un albero, mentre finge di leggere qualcosa sull’Ipad. Ma non pensano solo alle fotografie, i cinesi, si entusiasmano anche quando vedono un registro per gli ospiti, o almeno il tronco di un albero o una parete su cui scrivere nome e provenienza.

E sul molo sulla spiaggia di Saint Kilda, mentre migliaia di pinguini nani cercano un rifugio fra le pietre per passare la notte, sono loro a gridare marzialmente “No flash!” agli altri turisti appostati. Questo per chi crede che i cinesi abbiano il cuore in finta pelle.

Io gli voglio bene ai cinesi, con le loro macchine fotografiche che sembrano mortai, perché dopo che la Rivoluzione gli ha cancellato una storia lunga millenni, hanno l’entusiasmo di adolescenti a lezione dal mondo.

Sarei pronto a lasciargli le redini del mondo, se non fosse per una cosa: che loro, abituati a prendere ordini dall’alto, assorbono qualsiasi boiata gli infligga il mondo occidentale. Prendi il poker. Ad Ovest abbiamo sdoganato le carte, un tempo riserva di caccia di chi rinunciava a priori ad uscire di casa perché tanto di rimorchiare non se ne parlava comunque. Improvvisamente su Sky nascono canali dedicati al gioco delle carte, e su internet appare Totti che ti invita a fare una partitina. Appunto, in televisione o su internet. Non avevo mai visto gente giocare a poker davvero, con carte di cartone. Poi arrivo a Melbourne e nei ristoranti vedo tavolate di dieci cinesi che giocano a carte con soldi veri e l’aria confusa e divertita che hanno loro quando provano qualcosa di nuovo e straniero. 

Questo, e anche le magliette con scritto “Add me on Facebook”. E le file ordinate di computer con tastiere cinesi che ciucciano il WiFi nei McDonald della nazione intera. E gli Ipod che suonano la Britney con la convinzione di essere nel giusto che ha un indie-snob quando ascolta i Beach House.
Spero solo che prima che diventino i padroni del mondo la fase adolescenziale passi.

domenica 8 aprile 2012

Victoria

Sono in un posto di cui non ricordo il nome, a metà strada fra Adelaide e Melbourne, lontano da entrambe. Dicono che negli anni ’70 ci abbiano girato un film, con lo stesso nome del paese, quel nome che al momento mi sfugge. Poi pare che l’hotel in cui è ambientato il film sia andato a fuoco e da allora qui si vive solo di memorie. Proprio come ci si viveva prima, giusto con uno sforzo maggiore per memorizzare.

Ora dell’hotel rimangono le pareti esterne. Le finestre sono chiuse con pannelli di compensato dipinti dai bambini delle elementari con sagome in stile metafisico e aggiornate dagli stessi bambini, alle medie, con attributi anatomici meno metafisici.

Qui le case sono più solide che ad ovest, case di mattoni, in stile vittoriano. Non a caso siamo nello stato del Victoria. La maggior parte non è abitata, almeno in questo periodo, il che spiega il contagioso silenzio lungo le strade.

Anche molti negozi sono vuoti: abbandonati, non chiusi per la stagione. Però ce n’è uno, in attività, che non ho mai visto prima. È un concessionario, se così è dato chiamarlo, che vende quelle motocarrozzelle elettriche a quattro ruote che usano gli anziani per spostarsi.

Anche il campeggio è quasi vuoto. Ci siamo solo noi e un simpatico barbone, che campeggia senza tenda e automezzo. Nel campeggio manca la cucina, il che non è strano, considerando che i grey nomad, i pensionati vagabondi, girano con megacamper con bagno e cucina.

A dire il vero la cucina c’è, così scopriamo, ma il gestore non ha voglia di pulirla per tre ospiti. La usiamo comunque, sia noi che il barbone, che osservo mentre gira i wurstel nel forno. Ha un sorriso pieno di denti colorati che spunta come un mosaico sepolto da secoli sotto pelo facciale e berretto da baseball.

A Warracknabeal, a 40 chilometri da qui, è nato Nick Cave. Che, se non ricordo male, quando viveva in Australia stava in piedi a flebo di eroina.