giovedì 13 agosto 2009

Io nel mondo dei proattivi

Ultimamente non riesco più a scrivere. Ne ho iniziati diversi, non ne finisco uno.
È una questione di stresss.

È che sono diventato uno di loro, uno di loro nella definizione che darebbe un ventenne con la maglietta del Che.
La prima a dirmelo è stata la seconda Aurélie. “Marco, you have changed”. E ora per i nuovi colleghi è diventata la mia presa per il culo ufficiale. “Marco, you have changed”.

Non ne ho parlato subito su sto coso, perché in un mondo dove il precario è il nuovo eroe, vedersi rifilare un contratto a tempo indeterminato non può che minare la credibilità della mia rubrichina a milleventiquattro x settesessantotto.

Sembrano passati pochi mesi da qualche mese fa, quando sospiravo sprezzante di mirabile speme decantando l’incedente estinzione dei termini del prezioso foglio vidimato. E non a sproposito. Quando il capo ti dice che non gli servi, che sia vero o no, hai tutto il diritto di macchiare le braghe.

Poi, però, ecco la genialata, gli faccio una proposta: vuoi tu, capo, il cui nome si traduce con Martino Signorino, che io cambi ruolo? Basta noiose traduzioni di manuali per putrellatrici e cotillon, è giunta l’ora di passare fra i proattivi, l’elite di questa nostra azienda, quelli che le traduzioni invece di farle le fanno fare agli altri. E io che sono italico sono pienamente conscio di come in presenza di un lavoro sporco sia importante avere altri a cui darlo da fare.

Si scopre che Martino aspettava già da un po’ questa mossa, proattivo come un profeta che anticipa la conversione del più scorato degli peccatori. Vieni figliolo, mi accoglie a braccia aperte, tanto che uno invece di bearsi della genialata si chiede quasi perché non gli sia venuto in mente prima.

Questo ci serve, figliolo, non gente che spali merma al fronte, bensì pubblicani, esattori di tributi, gente che il greppio lo faccia scrostare a terzi. Persone che quando per un lavoro da tre ore ne hai due a disposizione, la terza ce la mettono di tasca propria.

E scendo in campo al momento giusto, la settimana dopo che Cesare ci ha lasciati per i luminosi lidi della cassa malati, un paio prima che un'altra collega partorisse la stessa idea. Ah, le gioie dell’esaurimento nervoso.

Intanto si capisce subito che la mia non sarà una gitarella a Sharm. Lavoro quasi cinquanta ore in settimana, la mia manager, che in italiano si chiama caporeparto, la settimana scorsa ne ha fatte 65,5. Il tutto nel paese d’Europa dove la gente se la prende più comoda. Dopo tre settimane, Cesare torna a farci visita. Il suo sguardo è molto più sereno del nostro.

Avete capito bene, voi che credete che fuori dal mondo latino siano tutti noiosi e stressati. Voi, che almeno una volta nella vita avete sognato di trasferirvi a Barcellona (categoria, questa, che non esclude il vostro imbrattafile). Qui al piano terra dell’Europa il 33% dei lavoratori fa part-time e quelli che lavorano quattro giorni in settimana sono tantissimi. Padri e madri di famiglia e non solo. Nelle classifiche europee, al secondo posto viene la Danimarca col 9%. Gli italiani intanto credono ancora nella legge del non sputare nel piatto dove mangi.

Non per niente nel reparto superlavoratori siamo tutti stranieri. Tutti tranne Cesare, il già citato esaurito.

Ma il segreto di queste aziende americane è che tutto ruota attorno al vile mammone, o denaro, per voi che non avete letto la Bibbia. Fra noi e il cliente infatti ci sono i nostri propri personali addetti vendite, i salespeople, le genti delle vendite. In pratica, chi decide il prezzo e le prestazioni ha una formazione economica e non linguistica e noi ci troviamo con bagget da strozzini da imporre ai poveri tratuttori, che sono il quarto e ultimo anello della catena cliente-prodotto. Perfino San Siro si ferma a tre.

Non solo, ma ci tocca pagarli in miseri dollari americani, facendogli perdere al cambio valuta.

Manon è finita qui, dobbiamo anche negoziare i prezzi e se non lo facciamo i colleghi gnuiorchesi ci scrivono e-mail che sanno d’aglio.

E lo dicevo già un paio di rubrichine fa, che l’America inquina il mercato. È la seconda volta che mi trovo a rigirare progetti in un'azienda appena passata oltreoceano ed è la seconda volta che vedo arrivare un giro di vite sulle spese esterne e sull’efficienza. L’azienda americana vuole il processo, lo standard, vuole trasformarci in soldati che non sprecano moneta di rame. E vuole tagliarci le ferie, non pagarci gli straordinari, lascare i traduttori senza companatico. Il tutto motivandoci a perseguire il bene dell’azienda.

E i traduttori tendono a starci, accettare sempre, anche quando potrebbero permettersi di non farlo. E questo seplifica la vita a quelli nel mio ruolo, ma io, che vengo dal loro stesso ghetto, provo una grande empatia.

A volte vorrei dirglielo, ai traduttori, che si svendono, mandargli un qualche genere di descantabaucchi. E un giorno lo farò. Anzi, forse è già ora. Valter, che abiti in Piemonte, sì, proprio tu, quanti Valter con la V credi che ci siano che fanno il traduttore in Piemonte? Perché, Valter, ti vendi a 7 centesimi di dollaro a parola? Sei conscio del fatto che sei bravo e anche se me ne chiedessi 10 o 11, di centesimi, io ti darei lavoro lo stesso? Lo sai che quando correggevo il tuo test per quell’azienda tedesca che comincia con Sie e finisce con Mens ero tentato a penalizzarti perché mandavi a remengo il mercato? Poi non l’ho fatto, ma solo perché a dieci anni mi hanno beccato che rubavo le macchinine al tabacchino e mio padre mi ha inculcato il valore dell’onestà, con metodi retorici e non solo, ché allora si poteva fare.

Però devo ammettere che mi piace, stare dall’altra parte del tavolo. Mi piace perché comunico con esseri umani da tutto il mondo. Ma non può essere tutto qui. Non so perché mi piaccia. Di solito nelle cose parto pieno di entusiasmo e dopo circa tre settimane mi stufo all’improvviso. Qui di settimane ne sono passate quasi il doppio e continuo a resistere. Boh, so solo che non sono i soldi, perché l’aumento non me lo hanno neanche dato. Non è la gloria, perché di contribuire al benessere dell’azienda me ne sbatte in maniera strettamente circoscritta.

Per ora me lo spiego in un modo solo: fare il traduttore è nocivo per l’autostima.

1 commento:

Anonimo ha detto...

"Perfino san Siro si ferma a tre". Le tue frasi migliori hanno sempre a che fare con i santi...(no, peró io ho nella testa quella delle due settimane senza ciclo da quando l´ho letta...).
Resisti al lavoro, secondo me, perché é bello eppure vario. E gli ottobrini hanno bisogno di cambiamenti e di novitá.Che se no si stufano. E anche di Anerkennung, che stare sul palco é meglio che in platea...e un poco anche questa cosa del dire agli altri quello che devono fare, tipo mediatore familiare, o anello di congiunzione, ma con un´empatia di fondo che ci rende tanto umani....
Pensa che quando traducevo dall´italiano-tamocco-sudtirolese all´italiano-italiano per i uelnesshotels, una volta osai chiedere di essere pagata entro 60 giorni dall´emissione della fattura. Mi risposero che c´é la fila, per fare questo lavoro, e non mi chiamarono piú. Forse é per quello che il uolte ha paura e si svende.Lo ammetto, il mio era proprio ben pagato...eh eh certe volte mi sembrava di rubare in chiesa...poi ho capito che non dovevo sentirmi in colpa se facevo una cosa che mi piaceva e ci guadagnavo pure...in fondo mica pulivo cessi (con tutto il rispetto, che ho fatto anche quello). Non a caso la P.IVA recitava: categoria "altre creazioni e interpretazioni artistiche e letterarie". Misuriamo il talento a parola? Le contiamo? Si puó sempre fare il ghost writer...
"Ciao, capo!"
"E non chiamarmi capo!" (peanuts)
claudia