sabato 2 maggio 2009

Dio cosi la regina

Giovedì ho scoperto che la regina di sto posto qui si chiama Beatrix, in italiano Beatrice. Beatrice d’Arancio, perché se vuoi essere coerente, oltre al nome mi devi tradurre anche il cognome.
Fino a ieri credevo che si chamasse Margherita, beata ignoranza. È che qui con i reali non la smenano più di tanto. Non come in Italia, dove il re lo si nomina almeno ogni domenica, ma spesso anche più spesso.
E comunque della regina anche alla sua festa se ne parla molto poco. In realtà l’intera giornata è solo una scusa per vestirsi di arancione, che è poi come se i fan di Vasco e i tifosi di Valentino andassero a concerti e gran premi bardati di rosso. Il risultato è una tinta unita che neanche al carnevale di Ivrea. Chissà che effetto, facendo le fotografie per le mappe di Google proprio il 30 di aprile.

Comunque avrei detto che sarebbe stata una di quelle feste nordeuropee dove l'obiettivo principale è sbronzarsi e fare cose estreme tipo pisciare per strada o importunare le damigelle, ma no, niente St. Pat’s, niente carnevale di Colonia, niente Midsommer. Bar vuoti e tutti in giro per vicoli. Le lattine di birra per strada ci sono, tutte verdi, che con l’arancione è anche bello da vedere, tutte Heineken e tutte raccolte ordinatamente attorno ai cestini già colmi. A quanto pare, passando la giornata a camminare, l’alcol lo si smaltisce.

La vera tradizione per celebrare il colore più amato d’Olanda sembra essere quella di vendere roba per strada. La sera del via alle danze, ponti e marciapiedi erano pieni di spazi delimitati con il nastro isolante con scritto “bezet”, sempre con il nastro isolante, che in olandese vuol dire “occupato”. Il giorno dopo i bezet erano per l’appunto occupati, con gente che vendeva roba, probabilmente quella comprata l’anno prima nello stesso posto. Libri vecchi a 50 centesimi, birra al prezzo di cinque libri, succhi di frutta, un tavolino per le candele votive preso da una chiesa, che siamo stati sul punto di comprare per dieci euro. Comunque niente (quasi) hot dog-pizze-kebab e professionisti del catering su ruote. Qualcuno vende l'invendibile, carezze al cane (€0,50), infusioni di autostima da parte di una ragazza a scelta (€1), un tipo su un ponte si è inventato un gioco che consiste nel tagliare al volo una carota che scende ad alta velocità dal camino ricurvo di una stufa. Quando un ragazzo, probabilmente non abituato a perdere, ha lanciato la mannaia adibita all’uopo nel canale, è bastato comprare un set di coltelli dalla ragazza del bezet confinante, senza neanche insultare più di tanto il colpevole del misfatto, che dopo aver rischiato di mutilare l’occupante di qualche barca di passaggio ha scambiato un paio di parole in tono pacato con il direttore della bisca e se ne è andato felice di aver vendicato la malasorte.

Pochi venditori di musica dal vivo, nessun nipote dei fiori con chitarra o bongo, solo un gruppo di dodicenni con chitarra-basso-batteria più grandi di loro. Si presentano pieni di energia. Davanti a loro una cinquantina di persone. Fanno attendere il loro pubblico da brave rockstelle, finalmente cominciano, lanciatissimi. Puff. Questi giovani d’oggi, abituati ad avere tutto senza farsi un minimo di mazzo, i genitori non gli hanno insegnato che prima di esibirsi uno dovrebbe imparare a suonare.

Almeno hanno avuto le palle di farlo. Una cosa che invidio al Nordeuropa è questa capacità di organizzarsi in massa, senza discorsi del sindaco, finanziamenti pubblici e sponsor. Nel Jordaan nessun campione gratuito vietata la vendita, zero volantini, cartelloni, gadget arancioni marchiati o bancarelle sponsorizzate, se si eccettua lo strano monopolio dei beveraggi da parte della Heineken. Nella parte turistica del centro, fra la Spuistraat e il quartiere a luci rosse, invece i furgoncini dei souvenir arancioni c’erano, misti a venditori di magliette del Che e di Bob Marley, salsicce e patatine, foglie di maria, roba tibetana, celtica, tribbbale. Basta evitare.

L’unico problema è uno tipicamente olandese: la musica. L’Olanda è la partria della techno. A Rotterdam sono nati i gabber e la tradizione che in altri paesi si è felicemente estinta lasciando dietro di sé solo qualche traccia fosforescente, qui è rimasta ben salda. Non solo, ma si è sentita anche molta della peggiore musica da discoteca degli anni ’90, quella che andava forte nei paesi di campagna dieci anni fa e ormai la gente ha buttato via i dischi, perché trattasi di merce deperibile. Roba che dice “move your body” o “everybody dance”. Qui è inglobata nel concetto di techno e non mi stupirei se se la sparassero anche ai rave.
Ma gli olandesi non amano solo l’unz unz unz. C’è anche questa musica popolare che è presa pari pari da quella tedesca, per la quale se non sbaglio è stato coniato il temine “kitsch”, solo cantata in olandese, il che non può che peggiorare il risultato, con le S che scivolano e le R che sono U.

Ma forse è stato tutto solo un sogno. Il giorno dopo sul Corriere si diceva che la celebrazione è stata annullata dopo che un pazzo si è lanciato contro il bus della regina ad Apeldoorn.
O forse hanno annullato le celebrazioni ufficiali e le bevute. Così si spiega la spontaneità della cosa e il basso tasso alcolico. Altri hanno spiegazioni diverse. Pare che nei primi anni duemila ci siano stati scontri nei canali, arrembaggi e barche affondate. E qui, dove la giustizia non conosce ricorsi al TAR, se la polizia fa segno che ancora una volta e salta tutto, la gente si dà una calmata.

Ora, io lo so che fa figo dire che questo rispetto delle norme tutto nordeuropeo è noioso e privo di fantasia, ma qui tutti gli italiani che conosco se lo tengono molto volentieri, quello che alcuni chiamano “giustizialismo”.

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