martedì 28 aprile 2009

gente e anche musica

Fra le novità di oggi, un ragazzo dai capelli a tubo seduto con chitarra sulla panchina di Chiesavecchia sull’Amstel, ispirato da canoe di caratura variabile e quel mulino che nasconde stadio e megastòr. In un posto del genere, non può che comporre un idillio arcadico.
Un cigno da metro cubo immobile in mezzo all’Oranjebaan di Amstelveen, ad insediare la corsia del bus. Mi sono fermato a guardarlo e non si è mosso di una palmatissima spanna. Poi è passato il 300 snodato, costretto a strisciargli intorno come un serpente riverente. Alla fine sono andato a lavorare, perché la bestia nella sua immobilità non garantiva il flusso di eventi al quale i media ci hanno abituati, ma dovrebbe essere ancora là. Ah, e poi hanno coperto il Klein Kalfje di palloncini. Una trattoria mitteleuropea affogata di bolle bianche e viola-milka, con altre color dei lillà a disegnare un fiocco. Roba da fiction televisiva.

E questo era l’angolo arcadico del lunedì, ma il fine settimana per una volta è stato invero mondano. Sabato ad esempio c’era sto concerto, anche se il primo gruppo era talmente normale che mi sono messo a guardarela gente intorno a me. Una tipa magrissima che tipo Kate Muschio, ma con lo sbiancante in testa, con addosso un poncho fatto a mano del colore dell’imbottitura del divano. La solita coppia lesbica, una con le scarpe del commissario Basettoni, ma con su lo Union Giacomo. Non è tanto l’unione, né il Giacomo, è che il rosso e il blu piacciono a grandi e piccini. Un’altra coppia, etero, sui tardi quaranta, lei abbigliata come una coetanea inglese, vestito lungo verde a fioroni bianchi e rosa, occhiali rossi bislunghi. Roba che ti chiedi se il batterista si è trascinato dietro la famiglia, finché non vedi i due anelli conficcati sul lato della narice destra. Il moroso di questa sembra un messicano da film americani, coi baffoni e la pettinatura india, piuttosto preso dal sacro fuoco rocchenrolloso, lui. Poi esco a fumarmi dell'aria fresca e ci sono sti due ceri oblunghi e in nero, coordinati dal centro da una candela sciolta e bianca, che parlano una lingua che può essere albanese o rom, ma in versione orecchiabile, soprattutto dopo i venti minuti del secondo gruppo, sti tre ragazzi che battono sintetizzatori e drammascìn facendo il verso ai leoni marini quando cantano i Sigur Ròs. Il tutto con un tipo tracagnotto vestito da rapper sobrio che copre la musica urlando al gruppo di pompare. Roba tipo chiedere il bis al parroco dopo un funerale.
E poi dal bar di fianco esce in strada la cantante dell’ultimo gruppo, uno spettacolo in sé, giapponese, ciglia extralunghe, cerata rigida semitrasparente satinata tipo abat-jour con una lampadina fatta da bichini e fusò arancio fosforescente. Quasi più una medusa che un’abat-jour. La candela le chiede qualcosa, lei le dice che non capisce come lo dicono i giapponesi, montando una faccia da cielo mio marito e salta nel locale e direttamente sul palco, dove si unisce ai sui chitarristi ungheresi. Immagina un tipo vestito da calciatore degli anni Settanta, tipo Socrates stempiato e un altro con le braghe alla zuava, i calzettoni lunghi bianchi e le Converse. Intenti a suonare sti riff in stile surf simpatici come le loro facce, ma con il suono di una rondella di ferro che si fa tutta la tromba di una scalinata d’emergenza, quando arriva la giapponese e attacca a cantare come ti aspetti che canti una giapponese, ma più Deerhoof che Testarossa Bionda. Chissà se a tutti i giapponesi piace la musica confusa, perché a uno a un certo punto gli viene da credere di sì.
Comunque si chiamano Agaskodo Teliverek, non comprate il disco, ché non rende, ma andate pure a vederveli se capita.

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