mercoledì 15 aprile 2009

Casi in cui non è che valga la pena sbattersi

È tempo di revival, rivalutazioni e riscritture della storia, ma rimango sempre convinto che gli anni Ottanta, musicalmente parlando, siano stati un crimine.
Non parlo di artisti, gruppi o generi, ma del modo di concepire il suono, con certe Fender mielose tipo Dire Straits, la santificazione dell’elettronica come risposta a tutto e l’estremizzazione della produzione. Anzi, soprattutto questo. Non solo le fabbriche producevano più di quanto richiesto, ma anche nella musica, il suono di un disco veniva definito riempiendolo troppo: sviolinate e coretti, magari sintetizzati, fino a rendere la canzone simile alla tappezzeria della casa di un anziano.

Un esempio è un intoccabile, Leonard Cohen. Alla fine del 1984 esce “Various Positions” (come direbbero su MTvì). Un disco leccatissimo. Leonardo come sempre c’è, è chi gli sta attorno che ci fa.
Per dimostrarlo basta prendere le canzoni e denudarle, cantarle con voce, chitarra e poco altro. Jeff Buckley lo sapeva, ha preso Hallelujah, ha sfoltito cori lancinanti e sovraincisioni strumentali, allungando anche quell’allegretto che non c’entra niente e l’ha resa Hallelujah, quella che tutti conosciamo, quella che passa per radio, quella di Jeff Buckley.

Ora ci sarebbe sta canzone tedesca. Ne sono innamorato, ma tutte e due le versioni che ho sentito hanno difetti che la rovinano. In pratica la canzone che ho in mente esiste solo in potenza.
Per prima ho sentito la versione di una specie di boybanda di quelle che andavano di moda una decina di anni fa. Mi è rimasta impressa perché non era mai capitato prima che una canzone di una boybanda mi piacicchiasse. Poi in Erasmus ho scoperto che in realtà era una cover e che l’originale era di Rio Reiser. Ora Rio Reiser, nonostante il nome idiota, è uno che non si tocca, neanche con un grissino, come l’omonimo tonno. Era il cantante dei Ton Steine Scherben, i nonni dei Rage Againt The Machine, un gruppo che i tedeschi chiamano punk, ma solo per atteggiamento e periodo, perché invero è più che altro rock-blues anarcoide, fai conto Johnny Rotten che canta testi di Zack de la Rocha con i Ten Years After, tanto per scrivere due nomi così. Io comunque adoro l’agit-prop e la musica che canta slogan, indipendentemente da quanto mi ci identifichi, e Keine Macht für Niemand entra di diritto nella Mejo 20 dei miei propri personali Mejo 20 dischi da che mondo è mondo®.
Fatto sta che Rio a un certo punto esce dal gruppo e se la canta da solo. Soprattutto scrive sta canzone che si diceva, Junimond, anzi, pare che l’abbia scritta ancora col gruppo. Vabbè, comunque la canta da solo.
Ma sentire l’originale richiede stomaco. Vorresti avere una di quelle apparecchiature complicate per isolare la voce, perché in quattro minuti esatti si avvicendano diversi episodi da tribunale dell’Aia. Una tastiera che sembra uno xilofono e che va avanti tutto il tempo per la sua strada, troppe chitarre, fra cui una Fender suonata da uno che evidentemente ama i Dire Straits, il ritmo che crolla al momento in cui la voce prende energia, il finale di Dear Prudence immerso qua e là e un assolo di archi che sarebbe anche passabile se non arrivasse proprio al momento in cui la tastiera ti ha innervosito a tal punto da non poter tollerare qualsiasi suono si allontani dell’accordo principale.

E pensare che basterebbe cantarla con chitarra e voce per renderla una specie di inno generazionale crucco. Chissà, forse ora che va di moda il folche potrebbe essere tempo di scartare qualche ragnatela sonora. Comunque, quello che volevo dire è che in musica, come nella vita, come in cucina uno va a finire che preferisce il biologico.

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