lunedì 24 maggio 2010

Ebbrezza al manubrio

Il momento di gloria delle serate quassù in alto è pedalare ubriachi verso casa.
È un incedere, da consumarsi preferibilmente sulla lunga distanza. Agganci la protesi musicale alle cavità uditive e metti qualcosa che sia pomposo, ma decadente. Nulla di troppo forte o spedito, ma qualcosa che inquadri la vita come uno sforzo eroico, it’s a sad and biutiful uorld. Di solito la pedalata va giù a fette grosse, enfatizzata, generosa nel dispendere energia inutile, ho fatto un etto e dieci, lascio? Agli esordi davo di forza per tornare sobrio, ma poi qualcuno mi ha detto che la pedalata ebbra non fa che risvegliare la sbornia. Hanno dovuto dirmelo perché mi rendessi conto che era così, ma le gambe ho continuato a pistoneggiarle comunque, a maggior ragione. La velocità annebbia la mente, intendi solo la musica e un vago sottofondo fatto di luci arancioni e altri ciclisti, spesso immersi nelle stesse circostanze. Ti sembra di essere il passeggero, e pedalino gli angeli, i santi o voi fratelli.

Di questo periodo poi fioriscono i tigli, che lasciano per strada un odore che benedice come l’amaro benedettino. Un torpore benefico. Pedalare ubriachi in primavera con lo stesso fresco del primo tuffo in piscina, da asciutti.

Ad Amsterdam poi, nel Jordaan. Prendere la rincorsa per arrivare in cima a quei ponti a carrucola che sembrano giocattoli di latta, fra le case e i bar delle vie con i nomi dei fiori. Ogni tanto incroci una via e nello slargo vedi il campanile della Westerkerk, dritto là in fondo, con la cima inguldonita di bianco, che di notte, con le luci, sembra il pennino di un calamaio. Le barche abitabili con i vasi di fiori e l’erba sul tetto e gli oblò illuminati, e tu intravedi tavolini di legno che ti fanno capire, effettivamente, come uno possa scegliere di viverci dopotutto, nonostante l’umidità e i cessi che d'inverno si congelano.

E poi mica solo il Jordaan, eh, perché tutta la Weesperzijde, lungo l’Amstel, con le case di due secoli fa, quelle con le finestre grandi, schermi compatti che con una vista così ti dimentichi che d’inverno, qui, sarebbe anche buio. La strada è larga, ma non li trovi i motori che si avventurino nella regno della pedivella, anche perché ci sarebbero quelle gobbe di cemento che a scuola guida ti insegnano che devi calcare sulla frizione, ma loro i polmoni in gola te li cacciano comunque, mentre in bicicletta ti fanno sobbalzare compiaciuto. Alla fine passi sotto, risali e poi su e giù in prossimità di ogni ponte, fino all’Hermitage.

O ieri notte, alle 4, con la città meno deserta che alle 8 di sera, prendi la stazione da dietro, arrivando dalla Hoogte Kadijk con l’altro ponte di latta, c’è la Sint Nicolaaskerk, che hanno messo là per far capire ai turisti inglesi che sono stati ad Amsterdam, anche se sono stati solo fra la stazione e il Dam e hanno visto solo vetrine rosse e non. Metti quel disco dei 16 Horsepower e spingi per tutta la Haarlemmerstraat, che è il simbolo della dittatura ciclistica, una delle strade più trafficate, soprattutto dal senso di marcia vietato per chi sotto il culo ha due ruote e nessun motore meccanico. E poi entri a Westerpark, esci dal sottopassaggio e incateni bene ruote e telaio davanti alle case popolari dei primi decenni del Novecento. Il gioco è fatto, basta lavarsi i denti e premere OFF, con l’inerzia ancora nelle gambe.

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