giovedì 18 marzo 2010

Lingue franche

Le poche volte che torni a casina a vedere come si evolve l’architettura del paesello, quando dici che abiti all’estero da un tot di anni, c’è sempre qualcuno che ti guarda come se avesse davanti un luminare e produce le parole fatidiche: “Ah, ma allora parlerai inglese come un madrelingua”. Magari te lo mette come una domanda, ma non ascolta la risposta, perché sa già che è positiva.

Nonni, cugini e dirimpettai ti immaginano ingiacchettato, seduto in un ufficio con una finestrella su di un paesaggio grigio ma pulito, mentre discuti con i clienti parlando come la regina, magari giusto con un vago retrogusto irlandese.

La verità, signori, è benaltra. La verità è che si parla inglese, la mattina ci si sveglia che addirittura ci si pensa, a volte, nella lingua dei videogiochi, ma è un inglese più arlecchinico che maccheronico.

È un inglese che trae vasta influenza, nel mio caso, non solo dall’italiano, ma anche dal tedesco, dall’olandese, dal francese e dalle varianti più intrattenitive dello spagnolo.

Infatti, gli stessi nonni, cugini e dirimpettai di tanto in tanto ti vengono a trovare e appena apri bocca li senti pensare “ah” e noti un leggero senso di interdizione che nei casi più estremi sfocia in un “con tutto quello che hanno speso i tuoi per farti studiare”.

Per darti un’idea, cara lettrice (qualcuno mi ha accusato di ricevere commenti solo da ragazze), stamattina ero seduto in riunione con rappresentanti di Germania, Francia (due e mezzo), Slovacchia, Finlandia, Spagna e Regno Unito (mezza), tenendo alta la nomea dell’italica allegrezza per via di battute, giochi, frizzi & lazzi.

Spesso ci si rende conto di avere assunto un modo di dire o un’interiezione da un amico o da un collega, quasi mai da quelli anglofoni, quasi sempre dagli altri. Perché inglese quanto vuoi, ma quando parla un francese o uno spagnolo è molto più divertente da ascoltare e ti viene automatico imitarlo.

Quando uno parla una lingua che non è la sua, è inevitabile che finisca per creare “tormentoni” o frasi ricorrenti, magari di per sé corrette, ma ripetutte fino al parossismo.

Quando sono arrivato qui ho rischiato il licenziamento immediato per uso indebito di violenza a causa delle insistenti salve di “Oh boy!” che pervenivano dallo spazio fra il corridoio e lo scalone di legno che porta al piano dove stazionano quelli che contano. Pare che l’interiezione avesse tratto origine dagli studi americani dell’allora traduttrice francese, che la aveva passata per osmosi al Puzzenroito , al mio omonimo collega italico e infine alla tennica informatica nordirlandese che aveva assunto nella sua parlata un elemento che le era pervenuto per via straniera (tutto questo per chi ancora crede che l’inglese sia la lingua dei paesi anglofoni).

I primi studi eseguiti in questa sede sulla lingua franca parlata da stranieri risalgono alle rilevazioni effettuate da Me Stesso, Ph. D. e Tomas nel 2002 sul fenomeno dell’”Erasmusdeutsch”. Trattavasi nella fattispecie di tedesco con ampio e copioso utilizzo del termine “eigentlich”. Era un fenomeno generale, che investiva tutti noi, dal Belgio alla Svizzera italiana, passando per la Spagna, con ampie deviazioni verso la Polonia. L’anno dopo Tomas aveva incontrato alcuni di noi durante una settimana nella quale la lingua franca era diventata l’inglese. All’inizio si era meravigliato del fatto che tutti abbondassero nell’impiego del termine “actually”, per poi rendersi conto che era la traduzione esatta di “eigentlich”. Io stesso, quando parlo italiano, mi rendo conto ancora oggi di aver trasformato questo “eigentlich" in un abuso di "a dire il vero”.

E parlando di Tomas, da lui ho assunto, sempre involontariamente, ma senza alcun desiderio di liberarmene, l'"ha haaa" scandinavo che serve per confermare quanto detto da qualcuno e indicare al contempo una leggera sensazione di sorpresa e interesse. La cosa geniale è che ha un effetto tranquillizzante sull’interlocutore: in pratica lo rende più sicuro di quello che sta dicendo e contemporaneamente dimostra il tuo interesse. L’”ha haaa” di Tomas ho provato ad isolarlo alla chitarra e fa all’incirca così:


Per fare un altro esempio, mi sono appena accorto di aver finalmente perso, quando parlo inglese, il "nö” nordrenano utilizzato per rendere riconoscibili le domande senza usare l’inversione e presumendo già una risposta positiva (“you are gay, nö?”). Peccato che questo elemento metalinguistico non sia stato eliminato, ma sostituito da un “hein” (pron approx: “hwnwh”) tipico della lingua porcina che accomuna il Gabon e le isole Marchesi.

Questa, care lettrici, sarà la lingua dell’Europa di domani. O magari già di stasera, ma dico domani, perché domani volo da Amsterdam a Barcellona per incontrare due amiche italiane e francesi che ho conosciuto in Irlanda: più Europa di così non si può.

Intanto per il futuro prevedo un inglese parlato con un intercalare stanco da lingua esteuropea, termini scanditi e con vocale finale, all’italiana, semplicità espressiva e diversi prestiti sparsi qua e là. Le imprecazioni però sempre e rigorosamente nella propria lingua, tranne in Suttirolo, dove si continuerà a smadonnare in italiano.

3 commenti:

Aria ha detto...

Penso sia una caratteristica comune degli Erasmus, parlare una lingua franca a metà tra la propria e quella del paese ospitante, condita di espressioni di altri Erasmus che cercano di mettere insieme, esattamente come te, una frase di senso compiuto. Io stavo a Parigi, in un campus, palazzo di nove piani per ventidue stanze a piano: solo Erasmus. Immaginati l'esperanto. Il dramma è quando cominci a chiederti "Come si dice in italiano...?"
ps: "Care lettrici" fa molto direttore di Confidenze ^__^

bastian contreras ha detto...

Cara Lettrice,
e che dire di quando cominci a chiederti "Come si dice in italiano?" dopo il traumatico ritorno a casa, con la gente intorno che crede che tu te la stia solo tirando con la storia dell'Erasmus...

Aria ha detto...

Aaaah, verissimo! Se poi parli più di una lingua straniera e cominci a tirar fuori espressioni tipo "Facciamo una promenata? Mi incanta il lago in primavera", sei definetely uno che se la vuol menare. Ecco, appunto.