domenica 14 marzo 2010

Merda di vacca


Si parlava di merda, ieri, in ufficio. Merda di vacca. Gli antichi ne conoscevano le virtù nel campo della concimazione e la distinguevano dal volgare sterco degnandola di un nome unico e personale: letame. Dalle mie parti le sue doti taumaturgiche sono ancora più apprezzate e la si chiama tuttora grassa. La merda, signori, ingrassa chi la sa metabolizzare.

Si lamentava, la mia collega finnica, dell’odore di grassa presente ovunque in queste terre strappate al mare proprio per darne la capigliatura in pasto ai bovini. Proprio lei, che su Facebook, come fotografia, ha una vacca olandese pezzata. Mi dispiace cara collega, ma non puoi prendere le pezzature e lasciare a casa la bovaccia. La mucca caga ed è una delle poche cose che sa fare: rumina, produce latte, svitella e appunto, caga. Un quarto della vita della vacca è concime. E concime buono, se è per quello.

Glielo ho detto, che la merda di vacca è sottovalutata. Prima di tutto, le ho detto, se togli il piscio (gli antichi lo sapevano e lo chiamavano spregevolmente pissina), il rifiuto bovino può addirittura profumare. È il piscio che fa schifo. E poi, tu, alla vacca, le devi dare da mangiare roba buona. Si nota la differenza fra la vacca alpina e quella di pianura. Come per il miele, il sapore cambia a seconda che la bestia mangi volgare erba o si nutra di timo selvatico, origano e negritelle. Non per niente, quando butto nel sugo della pasta le italiaanse kruiden, le erbe italiche comprate all’Albert Heijn per 1,5 eurodollari, la mia mente divaga verso i prati verdi di Malga Arza, punteggiati di fiori bianchi e torte marroni.

Da piccoli, in montagna, il piede nella merda lo si metteva sempre in conto e ci si puliva solo una volta, prima di entrare in macchina per tornare a casa. Con mio cugino, chiamato "L’arca del Diavolo” perché quando lo incontravo mi trasformava che parevo una via di mezzo fra Satana e Giamburrasca, le bovacce eravamo soliti tirarcele addosso, quelle già un po’ secche, maneggevoli come un frisbee, ma con il cuore soffice e malleabile, tanto da lasciare un'impronta sulle magliette a buon mercato che prima dell’avvento dello sportswear (da non confondersi con la bestemmia a scopo sportivo) erano l'uniforme del montanaro. Quelle bianche, con lo stemma del consorzio ortofrutticolo di fiducia già un po’ sbiadito.

Ovviamente, alla mia declamazione delle virtù del prodotto del riciclo bovino, la folla circostante ha creduto che scherzassi. Quella che mi ha accolto, in piena armonia con l’argomento, è stata una risata grassa.

1 commento:

Anonimo ha detto...

che dire: le cose più preziose sono quelle più sottovalutate. Ragion per cui.. Andate tutti a c... :-)