domenica 3 gennaio 2010

Aree attrezzate

Io trovo sempre gente che mi vuole portare per parchi. Dico parchi, ma mica Stelvi, Gran Sassi, Yellowstoni, dico il surrogato denso e proprio di queste Lande Fitte: in mots pauvres, parchi cittadini.

I parchi cittadini riscono sempre a mettermi tristezza. Ci riescono bene, estendendosi non intorno alle mura delle città, dicendo “città, sta qui con me, ci siamo io e i miei cervi a proteggerti”, ma facendosi piccoli piccoli, limitando il loro ego che avrebbe ragione di essere smisurato in una modestia non richiesta, accucciandosi come un gatto su di un cuscino con le teste delle case, tutte attorno, a dirgli con tenerezza “bello, il mio micino”. I cervi, se ci sono, li trovi in un recinto e puoi sdebitarti solo portandogli il salgemma da leccare, o qualche granaglia assortita che non sai che a loro non piace. I cervi, amico, non sono uccelli. Non tutti gli animali in cattività si nutrono di granaglie.

I parchi, nelle Lande Fitte, sono puliti, curati come un salotto in parchè. Al centro, come scusa e giustificazione, laghetti rubati ai campi da golf, macchiati di anatre con livree sportive, ma eleganti. L’anatra è un animale ipocrita. Sarà forse il fatto che all’anatra piace la granaglia, ma chi ha mai visto un’anatra libera, in un bosco o in un lago di quelli veri, quelli verdi di umore clorifilliano, quelli con le canne dei pagafrati che entrano fino a metà, senza giardinieri a limitarle all’angolo delle ochette? L’anatra, o anitra, come si fa chiamare per darsi un contegno, nei parchi cittadini, ci vive da gran pascià. Il germano reale con il suo catarifrangente blu metallico sull’ala per dire “vieni, umano, porgimi granaglie” e la testa verde regolamentare per avvisare l’automobilista incauto della propria presenza. L’anatra, unico animale che l’evoluzione ha adeguato al codice della strada.

I parchi, nelle Lande Fitte, sono adeguati alla circolazione. Hanno piste per biciclette e aree attrezzate. Capirai, benedetto uomo, benedetta donna, benedetto lettore, che se per il parco mi ci giri in bicicletta, finisce che poi ti perdi un sacco di cose. Per carità, parlo di cose che non gliene frega molto a nessuno, tipo il nido del beccofrosone, ma che ne sai, che se un giorno ti fermi, il beccofrosone non possa salvarti la vita?

Al parco, ci sto per andare ora. Perché se in città la natura non c’è, mica te la puoi inventare. Così per un’ora e dieci camminerò su strade panchinate attorno a un vetro d’acqua che stupisce solo i salici piacenti, con i capelli lunghi e quell’aria un po’ grunge. Sentirò i tram e le Toyote flottare su ruote appena oltre un’inferriata di ferro battuto, forse addirittura con punte a giglio dipinte d’oro. Schiverò menheer e mevrouw che parlano fra di loro nella stessa lingua delle anatre, con i loro bambini che vedono il mondo da oblò scavati fra piumini d’oca azzurro pastello e berretti di lana giustificati da pon pon.

E poi, sbrigata la mia ronda nella natura semiviva, uscirò da un cancello vicino al centro, farò il giro delle librerie, una punta al negozio di dischi per tirarmi su di morale con qualche copertina colorata. Forse troverò delle scarpe nuove per sostituire quelle bucate che premo ritmicamente su mattoni, asfalto e cemento.
La natura, quella vera, è bello sapere che c’è.

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