martedì 15 dicembre 2009

Altri colori

Non c’è modo migliore per impressionare la nuova quinquilina di raccontarle della prima volta che ho visto un nero.
Lei viene dal ventre di Parigi. Non quello di Zolà, ma quello ingrassato di periferie adipose del giorno d’oggi, quelle maniglie d’amour e quelle trippe extraurbane dove ogni tanto danno fuoco a una Pegiò o una Renò. Poi non credo che la sua area sia così, ma a me, se mi dici che vieni dalla periferia di Parigi mi viene in mente quello, che ce voi fa’, I’m a valley boy, come ormai amici e colleghi ben sanno.

Lei è rimasta colpita da sta storia del nero, nel fine settimana in cui è tornata a casa sua dice di averla raccontata un po’ a tutti. Una storia nònesa, nel ventre di Parigi.
La prima volta che ho visto un nero, “negro” era il termine accettabile, perché veniva dal latino, mentre “nero” era sprezzante, basato sulla grigia fattualità del colore. Poi gli americani hanno deciso che “negro” non si dice e noi il latino abbiamo dovuto lasciarlo soccombere sotto i morsi a bocca piena dell’inglese. A dire il vero non dicevamo né “nero”, né “negro”, ma “marocchino”, per qualsiasi africano e parecchi arabi, perché il mio dialetto si ferma a o’ magreB (in arabo il senso di lettura va invertito) e si vanta di essere impreciso. “Marochìn” è tutt’ora il termine che tutti usano dalle mie parti, ed è imprecisione, non razzismo.

A Lilù, che poi questo non è che sia il suo nome, è che di Orelì già ne conosco n’altra, le ho raccontato di quel marocchino che era passato col borsone a vendere calzetti e asciugamani e io ero andato in sollucchero e visibilio quando dalla valigia era emersa la sua sveglia personale adibita ad uso privato, verde ospedale, con un gallo che si muoveva al ritmo dei secondi. Siccome sono stato un precursore dei bimbi viziati che girano oggidì, mi ero impuntato e la mia brava mamma moderna me l’aveva comprata per qualche liradiddio.

Quello era stato forse il primo degli africani che passavano di porta in porta a convincerci a comprare i calzetti. Sapevo che esisteva gente nera per via di libri e tivvù, ma non mi sarei mai immaginato di trovarmela là, sulla porta di casa, con sta specie di cerone scuro in faccia. Perché è anche lecito chiederselo, cosa ci fa uno che viene da Yaoundè o da Dodoma a D***o, Tennessee. Guarda, ha perfino il colore che gli sfuma sui palmi della mano. Sembra viola, perché non li chiamano “viola”, invece che “negri”?
Comunque mi sa che sti ragazzi dopo un po’ avevano la cartina, delle case del vicinato e di tutte le donne a casa sole, che bene o male due monete le cacciavano.

Le ho raccontato sta cosa di cui mi sono accorto solo lo scorso maggio, la mia ultima visita nella metropoli alpina che chiamiamo Trento. Le ho raccontato che ogni volta che vedevo un povero nero giravo al largo, perché ancora oggi sai che probabilmente ti chiederà un paio di euri buttati là male. Sospetto spesso fondato, purtroppo. Magari a me no, ché c'ho la faccia da studente e quindi alleato, ma quando giro col padre, la richiesta parte fissa.

Ed è anche un peccato però. Ma che ci vuoi fare, è un pasaggio obbligato per una città adolescente. Gli immigrati che tastano il terreno, cominciano a trovare lavoro in fabbrica, poi in centro, mandano i figli a scuola, che crescono, diventano italiani uguali ai compagni italiani, solo con la pelle e magari gli occhi e i capelli di colore diverso, giocano nel Trento e se hanno culo in nazionale. Tac. Lassù dove abita Lilù a quel punto ci sono già arrivati, ci hanno già vinto i mondiali. Da noi boh.

Boh l’integrazione. Al centro sociale Bruno ho parlato con un ragazzo del Sudan, uno studiato, aveva già letto qualsiasi cosa. Si parlava di libri, non è che fosse tanto amichevole, ma si parlava bene. Poi abbiamo attaccato discorso con la cantante, che era una tipa da Gnuiorca, lui mi ha sentito parlare inglese e mi è saltato addosso “grande, idolo, parli inglese? Non sapevo che i trentini parlassero inglese. Ma sei sicuro che sei trentino?” Questo per dire che integrazione vuol dire anche non vedere nell’autoctono il male.

L’integrazione si impara anche con lo shock, che ai tempo si scriveva choc, ma poi anche la lingua franca è dovuta soccombere agli stessi morsi a bocca piena che hanno dissanguato il latino. La prima nera del mio paese era una ragazza indiana, adottata alla nascita da una coppia nostrana. La sua classe dell’asilo era venuta a trovare la nostra quinta elementare perché ci avrebbero sostituiti l’anno successivo. La maestra aveva regalato un pennarello colorato ad ognuno di loro. Lei era l’ultima della fila e le era toccato il marrone. “Per forza”, ero saltato su io, con quella brillantezza nel dire candidamente la cosa sbagliata al momento giusto che non mi ha mai lasciato, “è marrone”. A me pareva un dato di fatto e quello che mi interessava era la coincidenza, non il colore, figurarsi, io biondo in una classe di mori e castani. Lo sapevo bene io, cosa volesse dire avere addosso un colore diverso. Niente, non voleva dire, per me.
Era partito un boato, con i compagni solidali fra loro a negarmi la parola almeno per le prossime due ore. Le maestre non sapevano cosa fare ed erano partite con un’invettiva sul razzismo, una parola che si cominciava a sentire in giro, ai tempi di Mandela, ma della quale non conoscevo il significato, un po’ come “omosessuale”, accusa che andava di moda lanciarsi contro a ricreazione, pur non avendo idea né di sessuale, né tantomeno di omo.

Quel giorno comunque avevo capito il significato di razzismo: che era meglio tacere. Avevo imparato a tacere la razza, le malattie, le bocciature e i dati di fatto imbarazzanti in generale. Perché essere neri fosse imbarazzante, probabilmente non lo avevo capito. Forse la mia coetanea Lilù già lo sapeva.

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