giovedì 28 agosto 2008

I Tinariwen sono l'Africa meno Peter Gabriel


Da quando ho iniziato ad ascoltare dosi controllate di musica africana comincio a sospettare che un giorno anch’io diventerò uno di quegli adulti responsabili che ascoltano Peter Gabriel su impianti stereo pagati cifre a diversi nove.
Intanto però sabato, al concerto dei Tinariwen, ho potuto tirare un sospiro di sollievo.
I Tinariwen vengono dal Mali o giù di lì, o forse è meglio dire dal Sahara, sono Touareg e orgogliosi di esserlo, suonano il tishoumaren, la musica dei disoccupati, e stando ai giornali vantano un passato di guerriglia.
Ma niente seghe da world music. La descrizione migliore è una fotografia in un servizio di un supplemento domenicale dell’Observer di un paio di anni fa: una grande tenda nel deserto a proteggere dalla sabbia amplificatori Marshall e chitarre elettriche issati sulla schiena di cammelli.
I Tinariwen suonano la loro musica con i nostri strumenti. Rinunciano a piccole dosi tradizione, senza compromettere la genuinità.

Avevo sentito dire anche che sono un gruppo da gustare fresco, così sabato ho investito una ventina d’euro, lasciato la morosa a casa in compagnia del Machiavelli e mi sono chiuso nel Paradiso, solo in mezzo a centinaia di gruppi di persone.
Ho capito subito le ragioni che fanno del Paradiso uno dei templi europei della musica live: una scatola nera per pochi fortunati e un’atmosfera intima, rilassata e concentrata sul palco.
I Tinariwen hanno sfruttato al meglio queste caratteristiche, coinvolgendo il pubblico in un battito di mani continuo, che per un gruppo che disdegna le percussioni è la base del ritmo.
Lasciamole ai rasta del Caribe le percussioni, sembra sia il messaggio, ma il ritmo non manca, viene da un piccolo djembe sul palco e da coriste pagate per battere le mani quanto basta per dirigere il pubblico.
E il djembe, che molti conosceranno come "giambé" è anche l’unico strumento africano. Per il resto un basso che se John Entwistle è Ox, questo è uno zebù e un paio di chitarristi, per lo più elettrici, secondo uno schema decisamente americano, ma basato su melodie che dicono Africa.

Il cantante principale sembra un Santana sdentato con i capelli di Phil Lynott e si fa sentire con arpeggi e assoli cordiali e affettati. L’altro cantante suona occasionalmente l'acustica e non ci si accorgerebbe del suo stile orginale e pulito se non uscisse da solo per il secondo bis, suonando una specie di folk alla sabbia rossa in lingua tamasheq, forse la cosa più bella che abbia mai sentito suonare dal vivo su sei corde di metallo e due vocali.

Torno a casa attraversando il Vondelpark di notte. Qualche barbecue ancora non si è arreso ai primi freddi. E la mia lampada riempie la stanza dei colori del deserto.

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