martedì 2 settembre 2008

Jon Spencer: come taroccare il blues e uscirne alla grande


La musica di Jon Spencer mi è entrata come un cavallo di Troia.
Era la seconda metà degli anni 90, mio padre ci aveva appena trasformati in pionieri della tv satellitare e mi nutrivo di canali musicali tedeschi. Preferivo le trasmissioni moderate da cinquantenni con i capelli grigi, l’orecchino e il giubbotto di pelle, ma ogni tanto gettavo l’occhio su qualche video recente, se non altro per capire cosa ci trovassero i miei compagni del liceo.
Il cavallo di Troia di Jon Spencer è stato il nome Blues Explosion. Blues = tradizione, quindi leggevo nel nostro un tentativo di educare i coetanei alla musica degna di essere ascoltata. Intuivo uno sforzo missionario che gli imponeva di ridipingere la tradizione afroamericana con un paio di effetti moderni per il bene della vera musica, l’unica degna di essere ascoltata. La canzone era Talking about the Blues, il cui testo dice “we don’t play no blues, we play rock’n’roll”, ma non si può pretendere che uno che avrà sì e no 17 anni capisca anche l’inglese, no?
Negli anni a seguire mi sono informato meglio, ma Jon è rimasto un mio pallino, con la sua musica sporca, lavata col marsiglia sull’asse di legno, così quando ho visto che avrebbe suonato al Melkweg sono corso col mio fiets sotto la pioggia a comprare i biglietti per me e per la morosa, che lo Spencerismo non lo capiva, ma confidavo nella prestazione dal vivo per una conversione, cosa peraltro portata a termine con successo.
Da buon secchione del rock’n’roll arrivo al concerto con mezz’ora d’anticipo e faccio per prima cosa sosta al banchetto del merchandising, dove vedo un poster con la copertina di un fantomatico nuovo album, che raffigura il buon Jon in forma di fumetto, mentre scava una tomba dalla quale escono dischi con i nomi di gruppi tipo Stone Temple Pilots, Lemonheads, Hole e, orrore degli orrori, Red Hot Chili Peppers. Per fortuna il tipo alla cassa mi rassicura, dicendomi che sono tutti nomi di gruppi che Jon odia. Bene così, anche se magari Pearl Jam e Pixies li avrei risparmiati. Bisogna comunque ammettere che l’omonimo di Bud e Diana ne ha di coraggio, per sputare in faccia a tutti questi colleghi: non per i colleghi in sé, quanto per i loro fan incazzati. Mai sottovalutare la furia di un fan incazzato, è l’abc del rochenrolle.
Ma lasciamo la musica parlata e veniamo alla musica giocata, perché è giocare che piace al nostro. Due chitarre, una batteria e un microfono distorto, dal quale urlare un paio di banalità divertenti, solitamente prendendo per il culo le poche frasi del repertorio del bluesman professionista. “I woke up one morning” e via, Jon e Judah Bauer all'altra chitarra si scambiano i ruoli di accompagnatore e solista, accennando riff delle loro canzoni per qualche decina di secondi, senza mai portarne a termine una intera. Il concerto è un susseguirsi di riff, con qualche breve assolo, per un’ora dalla quale i Rolling Stones avrebbero potuto estrarre abbastanza riff da rifarsi completamente la discografia.
È una strana jam session, fatta di frammenti di canzoni. Qualche volta si riconosce qualcosa, ma dopo pochi secondi la musica cambia di nuovo. E per tutto il tempo il ritmo rimane coinvolgente, quasi ballabile. Sarà forse anche per questo che una percentuale molto alta del pubblico è femminile.
Il bis è come un altro concerto, non solo per la durata, ma anche per il fatto che stavolta le canzoni vengono suonate per intero, concedendoci un metro di paragone per farci capire quanto i tre ci sappiano fare.
Dopo aver sciolto il gruppo per dedicarsi agli Heavy Trash e a collaborazioni varie, tra le quali quella non degna di menzione con Eros Ramazzotti, Jon torna dai suoi ragazzi come un amante pentito e ce la mette tutta per farsi perdonare. Andateveli a vedere.

Nessun commento: