domenica 31 gennaio 2010

Usanze che trovi

Già scritto da qualche parte: stando all’estero ti accorgi che gli stereotipi sono spesso confermati.
Poi una sera esci con un gruppo di 16 italiani, che come da stereotipo fanno una caciara tale da convincere ad andarsene una decina di olandesi, ma al contrario di come lo stereotipo vuole, nei limiti imposti dal volume stesso delle loro voci, riescono a parlare con educazione, fare discorsi ordinati, trarre conclusioni, organizzare non uno, ma altri due incontri simili. Riescono addirittura a non nominare l’attuale presidente del consiglio, se non per constatare che non si è parlato di lui.

Allora, mentre pedali i tuoi 45 minuti sotto la neve per tornare a casa, con la pista ciclabile morbida come uno di quei materassini di schiuma che gli scout portano arrotolati sotto lo zaino, ti torna in mente una teoria che avevi là, fra gli scaffali della tua mente, lasciata a metà come il libro di Theroux che hai dimenticato in treno la settimana scorsa.

Ti viene in mente che forse, dico forse e la butto là così, gli stereotipi non sono tanto genetici, quanto condizionati dalla cultura in cui uno vive. Così uno che abita in Olanda, in Spagna o anche in Bhutan, per carità, che poi non mi si dica che faccio preferenze, sa che là la gente si comporta in un determinato modo e gradualmente si adegua.

La cosa più interessante è che spesso l’immagine che uno si crea di quello che ci si spetta da lui è deformata da stereotipi e quindi eccessivamente polarizzata. È proprio questo a fare sì che ci si adegui in maniera eccessiva allo stereotipo, finendo per confermarlo.

La teoria l’ho formulata per la prima volta mentre vivevo a Colonia. Si dice che i renani discendano direttamente dai romani, quelli che “ahò” al massimo lo dicevano in latino, e per questo fra i tedeschi hanno la fama dei piacioni. Si dice che siano bassi e abbiano i capelli neri. Orrore! Si narra che in questa terra quasi mediterranea uno possa addirittura attaccare discorso con chi gli siede di fianco sul tram.

Questo fa sì che a Colonia ci si senta veramente autorizzati a parlare con gli sconosciuti sul tram.
Stereotipo confermato. Quello che non si nota però è che non sono solo i coloniesi, ma anche i bavaresi in visita, i tedeschi orientali e gli studenti italiani a farlo.

Lo stereotipo si basa quindi sul luogo, non sul popolo. Finché si sa che sulle strade italiane non ci si ferma alle strisce pedonali, gli italiani continueranno a non farlo, imitati da BMW con l'adesivo con la D e macchinette colorate olandesi con la loro targa gialla e nera.

E poi ci sarebbe anche il fatto che uno comunque porta sempre con sé un’impronta dei luoghi in cui ha vissuto e in cui vive, per cui quando 16 italiani che hanno passato un certo periodo della loro vita in Olanda si incontrano, porteranno con loro elementi di italianità come il casino, ma anche lezioni imparate sotto il livello del mare, come ad esempio la constatazione che se non ci si parla addosso si riesce addirittura ad organizzare cose e trarre conclusioni.

Oh, ma le cose divertenti non le scrivo proprio più, eh?

venerdì 22 gennaio 2010

Promemoria

A volte mi piacerebbe che sto coso qui che scrivo ogni tanto fosse come una specie di diario. Tipo che lo leggo fra un anno, o due, o tre anni, quattro mesi e sei giorni e dico "Ah! Ecco cosa facevo quel giorno là”. Come quando in soffitta trovi i diari di scuola delle medie, solo magari senza sentirmi sfigato. O magari boh.

È anche il giorno giusto per farlo. Primo dell’anno? Scontato. Compleanno? Peggio. Ventidue gennaio duemiladieci.

Terremoto ad Haiti. Quello succedeva il ventidue uno del dieci. O meglio, era successo da un po’, ma sportivi e cantanti tiravano ancora su soldi. Le banche anche, tenendosi quella minipercentuale che non si sa mai che il terremoto venga anche qui.
C’era Baraccobama che era su da un anno (parlo della sua prima legislatura) e non aveva fatto un cazzo. Come se a un uomo, da solo, si potesse chiedere di fare cose tipo - che so – creare un sistema sanitario negli USA (e di solito getta, che la vita umana va bene finché tiene. Poi la si butta e ce ne si fa una nuova). Ho sentito di persone che da sole hanno distrutto, ma mai costruito.

In Italia boh. Avevo appena smesso di leggere i giornali. Su Facebook (dai che te lo ricordi, sepolto fra i pionieri informatici, come Napster e Altavista) qualcuno scriveva che si celebrava il decennio della morte di Craxy. Che brutto, celebrare la morte della gente. La morte non si augura a nessuno. Altri proponevano di celebrare il compleanno di Borsellino. È che Borsellino al tempo era già morto.



Ora al presente, che se no mi tocca scrivere anche com’è finito il derby. La partita è domani e, per chi non se lo ricordasse, abbiamo recuperato una marea di punti sull’FC Internazionale Milano e se vinciamo andiamo a -3 con una partita da recuperare. Intanto comincio a pensare a chi sarà il caso di convocare per i mondiali. Chissà chi li vincerà, i mondiali.

Resta favorito il Brasile, ma anche Argentina, Camerun, Uzbechistan, Oman. A me sarebbe piaciuto andare in Yemen, ma al momento pare che sparino ai terroristi. Per me finisce che si va in Brasile, comunque il mese prossimo si decide. Vengono a trovarmi Tomas da Göteborg, Nicola da Roma e Philipp da Strasburgo. L’ultimo è da talmente tanti anni che non lo vedo, che non ricordo neanche con quante P si scrive. Tre amici che se su Facebook ci fosse un’applicazione tipo "Scegli i tuoi 10 meglio amici", loro ci starebbero dentro tutti. Tranne magari Philipp, che è da troppo che non lo vedo, comunque magari il mese prossimo torna in classifica. Per ora, su Facebook posso almeno controllare che si scriva con 2 P.

Per il resto, dai, si tira a campare. Il martedì vado al corso di conversazione in olandese, ma ci vado soprattutto per quello che viene dopo la conversazione, la bevutina in banale inglese con birra belga e gente di svariati altri posti.
Musica boh, non è che abbia grande ispirazione, ascolto i Violent Femmes, c’è sta canzone che ho sentito ieri e mi è sembrato di conoscerla da sempre. Ma conoscerla della serie che la ascoltavo e dicevo “Ah, ma sto gruppo qui ne ha fatte almeno altre tre-quattro di migliori", solo che stavolta penso “Però” e me la riascolto diverse altre volte.
Leggo Theroux; Paul, non il figlio che va in tivvù, stavolta è stato nelle isole del Pacifico. Bello, per carità, lui ha più risorse di Licio Gelli, però ora dopo quattrocento pagine avrebbe anche un po’ rotto. Poi leggo Carver, perché mi sono messo a scrivere storielle. Ste cose, se le leggessi a inizio maggio, sta sicuro mi ispirerebbero molto di più. Ah, e poi c’è il libro sul disco di Patti Smith. Me ne dimenticavo perché ha rotto, il libro, non il disco. Non mi ci abituerò mai, alle agiografie scritte all’inglese. Manca solo la pagina dello scandalo inedito, ma la sento arrivare. Comunque non è che legga più tanto, perché la nuova formula di coinquilinaggio mi prende un sacco di tempo. Quando stavo con la tedesca avevo molto più tempo per farmi i fatti miei.

Film zero, come sempre. Anzi, quasi, perché domenica ho visto Mediterraneo, sperando che il Messico facesse un po’ estate. Più nuvole che Messico, però Bisio è bravo e non lo dico per le basette a punta. Poi tipo un mese fa ho visto No Direction Home e mi ha fatto ancora più voglia di Bob Dylan, perché, siccome mica tutti lo possono sapere, è una specie di documentario sulla sua vita giovane. Voglia di Bobbo, ma non ascoltarlo, tipo esserlo. E di solito non è che a me piaccia essere la gente.

Sono stato a Rotterdam, alla mostra di Edward Hopper, forse la cosa che mi ha ispirato di più, insieme a Bobbo e alle nazionali di calcio del Gabon, del Mozambico, del Benin e del Malawi.
E domani vado a Bruges. Dopodomani torno, e poi chissà, magari vediamo dopo.

mercoledì 20 gennaio 2010

Una ventata di sano ottimismo

E hai voglia a darci contro, non c’è niente da fare. Ogni anno all’inizio di gennaio pensi che non succederà, che stavolta ti vaccinerai di libri, musica e filmi ambientati nel deserto. E ogni volta succede quando sei convinto di avercela fatta, tranne quest’anno, che ha colpito in anticipo, in un fine settimana.

E pensi a quelli che invece che qua sotto sono emigrati in Spagna, ma anche a chi è rimasto in Irlanda. Ma soprattutto pensi ad un pacco di altre cose, e ti stupisci da solo perché riesci sempre a trovare il lato negativo, anche se proprio mentre ti lamenti con te stesso, nella mente, in sottofondo, c’è il cartello del tuo suggeritore con scritto “va tranquillo, che tanto è meglio di come sembra”.

È che non riesci a convincerti che là, proprio in quel momento, tutto va bene. Non che il tempo aiuti. Ogni tanto esce anche il sole, ma è bianco, non colora. Ma più che per il colore è l’oscurità, sti giorni che finiscono come un film con così tanti crediti che cominciano ad apparire i titoli di coda in sovraimpressione già a metà del secondo tempo. Chissà come fa chi vive in Brasile. Dicono che là venga notte alle 6 tutto l'anno.

E cerchi di fare cose, ma non è che funzioni più di tanto. Capita che inforchi la bici, quella bella. Pedali verso il ponte ciclabile e sulla cima del ponte, sopra l’IJ, pensi che tutto vada bene, vorresti fare una foto di come le cose vanno bene, poi scendi e basta che il sole sia coperto appena dai palazzotti quadrati e bordò di Ijburg che ti torna intorno. Ti intristisci della neve sporca, dei semafori e di Oost e del suo essere così persistentemente marrongrigio-grigiosabbia, anche nelle facce di chi ci abita, come la strada e il cielo.

Torni a casa e non sai se è meglio o peggio. Qualsiasi disco tu metta suona diverso, anzi, non suona perché invece di ascoltare rimugini. Cominci ad aspettare l’ora di andare a letto, perché chissà che domani, almeno si lavora, chissà che qualcosa.

Tra due mesi esce il sole, ma l’idea fa paura, perché fra altri otto è quasi inverno.

domenica 17 gennaio 2010

Dell'andar per boschi

Andai nei boschi per vivere con saggezza, vivere con profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.

Henry David Thoreau, da “Walden, ovvero La vita nei boschi”



Cazzate.

Andai per boschi per fare un giro. Per coprire l’insegna del McDrive e tutte ste macchine con ste targhe giallonere violente che girano qui. Per allontanarmi dal compiutro e per gioire del silenzio, non in quanto fonte di saggezza, ma in quanto assenza di casino.

Andai per boschi per scoprire tutto ciò che non era vita, nel senso di assenza di calcio, politica, concerti, ristoranti e negozi di scarpe.

Andai per boschi perché mi piacciono le bestie e se capita, magari riesco anche a vederne un paio di quelle piccole.

Andai per boschi domenica verso le quattro. Nel bosco di Diemen, trecento metri da casa, un paio di ettari, delimitati da autostrada, ferrovia e zona industriale.

Sono questi microcosmi olandesi, sti posti che tu ci vai per metterti il cuore in pace con una giornata nella verzura, ma quando ci sei dentro non puoi che pensare infastidito alla regolarità della pista ciclabile, ai grattacieli grigiogrigi che escono da dietro ai faggi, al rumore di motori. Non ho ancora trovato, qui, un posto dove non si senta il rumore di motori, o uno che sia inaccessibile a pedali.

E Loro ci sono abituati. Talmente abituati da mettere i tavolini da picnic nel punto più vicino alla strada. Tu non ancora, e mica perché vieni dalla tua terra seclusa, sui monti fra Heidi e Haider. No, perché chiunque qui sia originario delle terre emerse (nel senso di emerse da diversi millenni) sembra avere la stessa sensazione.

Forse è per questo che qui curano l’architettura. Non si può vivere senza le cose belle. C’è chi sceglie la natura e chi preferisce i locali arredati con garbo, chi si circonda di opere d’arte e chi si accontenta di un bordello, a patto che dentro ci sia almeno una bella figliola. Se uno ha culo, può prenderne anche più di una, non è che le cose belle si escludano a vicenda.

E dire che io sono uno che il sabato pomeriggio va a fare i giri nelle vie più trafficate del centro perché mi piace vedere gente. Mi piace vedere facce, soprattutto quelle strane. E in un regno che per imperialismo ha mescolato la biondezza più estrema con caratteristiche somatiche di Indonesia, Antille e Suriname, di facce strane se ne vedono parecchie. Occhi mandorlati con capelli biondi, facce cinesi con la pelle scura. Negli ultimi cinque secoli, il governo olandese ha impiantato nel Suriname schiavi e lavoratori indiani, cinesi, indonesiani e africani, mescolati agli indios preesistenti, rendendo queste cinquecentomila persone una delle popolazioni etnicamente più diversificate al mondo. Ora molti abitano qui.

E mi piace vedere oggetti: passo più tempo nei negozi di libri che poi a leggerli (e comunque li compro su Amazon). E a guardare scarpe nelle vetrine, a vedere le ultime combinazioni di colori.

Però a volte uno vorrebbe sentirsi solo fra le piante e gli animali. E mi sa che è il caso che cominci anch’io a guardare il Discovery Channel, sperando che per una volta non ci siano solo squali, leoni o serpenti.

lunedì 11 gennaio 2010

Gioca le tue carte (che io mi gioco le mie)

Ammazza che culo! Oggi sul sito della Gazza puoi sfidare Fisichella a poker.
Chissà, forse potrò vedere la differita su PKR Channel, il canale del satellite olandese (in elenco nella categoria “Sport”), con ventiquattroresuventiquattro di poker.

Più del gioco in sé, è stata la foto der pilota romano in posa da mejo fico der bigoncio con le carte in mano. Ormai è chiaro: poker = figo. Ma perché? Perché per me poker = notte intera a bere e fumare senza la minima possibilità di entrare nelle grazie di qualche pulzella, mentre per tutto il resto del mondo che mi circonda conta solo buttar giù carte?

Ora, non è che io sia tutto sto ladin lover, ma i conti non mi tornano. Non vedo il nesso. Cosa deve fare la suddetta pulzella, stare tutta la notte a guardarti giocare alle carte, mentre – e già non è che tu sia una cima – il tuo stato mentale regredisce gradualmente verso l’euforia, il rincoglionimento e l’implosione nel tuo mondo di assi e vinazza? Chi credi di essere? Hemingway? Bucoschi? Tom Waits? James Bond? Scherzi? Manco Fisichella sei, tu.

Non so, alla fine mi sa che invece sono io che non capisco. E credetemi, a parte il discorso delle pulzelle, non è che delle cosa me ne sbatta più di un certo tot. La mia domanda, il quesito che mi sbrega il carapace è un altro: Perché, signori, perché il poker è da fighi e la briscola da vecchi?

Perché la briscola non è glamour? Perché i Motorhead hanno scritto The Ace of Spades e non El Trei de Coppe? Perché, dico io, camicia bianca e papalina al posto di scarponi da cantiere e canotta a spalline? Las Vegas Casino contro Bar Posta? Texas Hold’em vs. Ciamada a la Trentina?

È giunto il momento, signori e (poche) signore, di reclamare i nostri spazi, uscire dalle valli, correggere di grappa quei long drinchi fighetti e giocare i nostri carichi contro i loro royal flush.

Solo se resteremo uniti avremo la meglio su questi giandoni americani che vivono al buio con gli occhiali da sole. Perché el sozi da la briscola per noi è più di un fratello. È quello che ci sta vicino nei momenti di sofferenza, quello che ti strizza l’occhio per indicarti che c’ha in mano l’asso quando, nella vita, tu puoi andare solo liscio. La briscola è sangue e birra Forst. Altro che seghe, signori e signore.

giovedì 7 gennaio 2010

Pedalando nella neve

Viene fuori che quando nevica conviene prendere la bicicletta.
Allarme maltempo alle ore 16. Consiglio di fabbrica convocato. L'ufficio chiude alle 5. A noi spetta il compito di pedalare verso casa, piazzarci davanti al portatile di fiducia e collegarci al computer dell'ufficio in modalità remota. Per fortuna non succederà mai: il collegamento non funziona e il nostro tennico, con il doppio delle ruote che abbiamo sotto il culo noi, è bloccato nel traffico per treoremmezza.

Lilù, che oltre a coinquilina num. 25 è pure collega, invece non ci prova neanche ad attaccarsi al compiuter. Ma il bello è arrivarci, a casa. All'imbrunire siamo in diversi a partire in bicicletta, compresa Clara, che è incinta quasi al giro di boa. Ci sono già un paio di centimetri di neve reale, che convertiti in termini telegiornalisitici equivalgono a circa 10 cm. Io resto subito da solo, sono l'unico ad abitare sulla sponda destra dell'Amstel.

La neve scende a fiocchi grandi come gocce di polistirolo, mi si accumula in grembo e sul fronte della giacca tecnica da snobbordista, vezzo di trentinità al quale non riesco a rinunciare. La neve, non la giacca tecnica, è un grembiule bianco da cuoco biodegradabile.

Consiglio a tutti di pedalare, una o due volte nella vita, su di un materasso. È morbido. Non si sente nei piedi, naturalmente, non tanto neanche nelle chiappe, che ste bici moderne sono belle ammortizzate, ma si sente nell'anima, nientepopodimenoché. C'è questo velluto che parte da sotto le ruote e ti avvolge fin sotto la calotta cranica e il cappuccio nero. Ti scalda, o forse invece è la neve a scaldare, ché si sa, quella tira sempre su il termometro. E poi tutto diventa bianco, che pare un'ovvietà, ma quando dico tutto includo i canali e il fiume, che ghiacciato e bianco sembra quasi più camionabile delle stradinelle che lo seguono come le strisce dell'Adidas. Includo anche il cielo notturno, grigio di un grigio che ti chiedi se è l'unica manifestazione in terra di grigio luminoso. Grigio fosforescente, che se ci fosse un evidenziatore, di sto colore, mi immagino già tutti i proattivi, quella gente di classe che arreda le case come gli uffici per potercisi stressare meglio, beh, li userebbero per non lasciare nulla al caso sui documenti più vitali, quella gente là.

Lo chiameremo snowbike, troveremo sponsor, inventeremo accessori moda, chiederemo alla Gazelle e alla Colmar di pagare Madonna per dire che si mantiene il culo pedalando nella neve.

Intanto arrivo a casa e nell'appartamento sembra tutto più giallo. Così me lo godo, per una volta, tutto sto giallo, con un bel libro e un grappino. Metaforico, il grappino, e chi ha orecchie per intendere mi sa che stavolta non intende.

domenica 3 gennaio 2010

Aree attrezzate

Io trovo sempre gente che mi vuole portare per parchi. Dico parchi, ma mica Stelvi, Gran Sassi, Yellowstoni, dico il surrogato denso e proprio di queste Lande Fitte: in mots pauvres, parchi cittadini.

I parchi cittadini riscono sempre a mettermi tristezza. Ci riescono bene, estendendosi non intorno alle mura delle città, dicendo “città, sta qui con me, ci siamo io e i miei cervi a proteggerti”, ma facendosi piccoli piccoli, limitando il loro ego che avrebbe ragione di essere smisurato in una modestia non richiesta, accucciandosi come un gatto su di un cuscino con le teste delle case, tutte attorno, a dirgli con tenerezza “bello, il mio micino”. I cervi, se ci sono, li trovi in un recinto e puoi sdebitarti solo portandogli il salgemma da leccare, o qualche granaglia assortita che non sai che a loro non piace. I cervi, amico, non sono uccelli. Non tutti gli animali in cattività si nutrono di granaglie.

I parchi, nelle Lande Fitte, sono puliti, curati come un salotto in parchè. Al centro, come scusa e giustificazione, laghetti rubati ai campi da golf, macchiati di anatre con livree sportive, ma eleganti. L’anatra è un animale ipocrita. Sarà forse il fatto che all’anatra piace la granaglia, ma chi ha mai visto un’anatra libera, in un bosco o in un lago di quelli veri, quelli verdi di umore clorifilliano, quelli con le canne dei pagafrati che entrano fino a metà, senza giardinieri a limitarle all’angolo delle ochette? L’anatra, o anitra, come si fa chiamare per darsi un contegno, nei parchi cittadini, ci vive da gran pascià. Il germano reale con il suo catarifrangente blu metallico sull’ala per dire “vieni, umano, porgimi granaglie” e la testa verde regolamentare per avvisare l’automobilista incauto della propria presenza. L’anatra, unico animale che l’evoluzione ha adeguato al codice della strada.

I parchi, nelle Lande Fitte, sono adeguati alla circolazione. Hanno piste per biciclette e aree attrezzate. Capirai, benedetto uomo, benedetta donna, benedetto lettore, che se per il parco mi ci giri in bicicletta, finisce che poi ti perdi un sacco di cose. Per carità, parlo di cose che non gliene frega molto a nessuno, tipo il nido del beccofrosone, ma che ne sai, che se un giorno ti fermi, il beccofrosone non possa salvarti la vita?

Al parco, ci sto per andare ora. Perché se in città la natura non c’è, mica te la puoi inventare. Così per un’ora e dieci camminerò su strade panchinate attorno a un vetro d’acqua che stupisce solo i salici piacenti, con i capelli lunghi e quell’aria un po’ grunge. Sentirò i tram e le Toyote flottare su ruote appena oltre un’inferriata di ferro battuto, forse addirittura con punte a giglio dipinte d’oro. Schiverò menheer e mevrouw che parlano fra di loro nella stessa lingua delle anatre, con i loro bambini che vedono il mondo da oblò scavati fra piumini d’oca azzurro pastello e berretti di lana giustificati da pon pon.

E poi, sbrigata la mia ronda nella natura semiviva, uscirò da un cancello vicino al centro, farò il giro delle librerie, una punta al negozio di dischi per tirarmi su di morale con qualche copertina colorata. Forse troverò delle scarpe nuove per sostituire quelle bucate che premo ritmicamente su mattoni, asfalto e cemento.
La natura, quella vera, è bello sapere che c’è.