martedì 24 marzo 2009

Parabole di montagna

Noi tutti qui per anni ad aspettare la rivoluzione mentre perdiamo tempo fra le distrazioni della rete. E solo dopo una decina di anni, ricordandoci come eravamo allora, ci accorgiamo che la rivoluzione è passata, noi c’eravamo in mezzo e ci è sgusciata fra fianchi e lombi, ci ha lambito le maniglie dell’amore e ci ha pizzicati sull’inguine, ci ha coinvolti più sì che no, ne siamo stati parte sì e no in egual misura e adesso che quello che sognavamo è reale ci dispiace quasi. Ci dispiace perché è successo quello che volevamo, ma noi non ci siamo, abbiamo cambiato canale perché sul Due c'era un film più bello, siamo tornati durante la pubblicità e ci siamo visti un finale che quasi ci dispiace di aver cambiato canale.

Succedeva dieci anni fa che ci si guardava intorno. Dal Brenta si vedeva la valle e si capiva che c’erano due scelte. C’era chi giocava a calcio e chi suonava la chitarra. Stranamente e forse per caso le due cose si escludevano. Un chitarrista poteva leggere la Gazza, ma non giocare a calcio. I chitarristi erano tanti, così finiva che per forza di cose qualcuno doveva accontentarsi di quattro corde o abbandonare completamente il manico. Quarantamila abitanti, un migliaio di calciatori e sai quanti chitarristi? Tanti. Tanti facevano schifo, tanti avevano talento, tanti facevano schifo e avevano talento. Quelli che non facevano schifo e avevano talento condannati a perdersi cercando di imitare in scala 1:1 le cover dei Deep Purple. Quelli che facevano schifo era perché non sapevano suonare. Erano tanti e di solito avevano parecchio talento. In cassetta giravano i Marlene Kuntz e quelli di Seattle e io li ripudiavo, pensando che da noi ce n’erano a decine che erano meglio di loro.

Poi, una notte di settembre me ne andai. Non che all’università fossi al centro del mondo, ma almeno Videomusic si prendeva. La cosa che stupiva era che tutti ne sapevano di musica. Lascia stare le migliaia di chitarristi, ma in Valle la musica era roba da iniziati. Iniziati che si dividevano rigorosamente fra Metallari, Punk e Grunge, dove G = M+P. I metallari avevano i Metallica, i punk i Sex Pistols, i Nirvana erano patrimonio di tutti e io odiavo tutto ciò perché sapevo che c’era altro. Il che era poi un’illusione, perché Altro non andava molto oltre ai Pink Floyd. In realtà a casa avevano tutti la stessa decina di dischi.
Così arrivi in un posto nuovo e ti accorgi che chiunque ne sa più di te, ma non è del tuo status di intenditore che ti preoccupi, ma della tua patria seclusa. Ti accorgi che se solo a casa fosse arrivata la musica, allora sì era altro che Seattle. Ma prima doveva fare sto sforzo e arrivare, la signora musica.

E poi con la patria seclusa perdi contatto, ci torni solo fisicamente e solo dopo un cinque anni decidi che in fondo le vuoi bene e ti va di uscire con lei. Nei bar un sacco di facce nuove. La tua generazione sta lasciando il passo, ma soprattutto gli iniziati sono aumentati alla X. C’è un gruppo che suona trip-hop. Trip-hop in una baita di montagna. Quando eri partito i Massive Attack non erano arrivati oltre la Val d’Adige. Li conoscevi di nome, ma la musica suonava tipo roba da discotecari. E poi trovi anche un ragazzino di diciottanni che ti parla dei Pavement e ti accorgi che qualcosa non va, ma nel senso positivo. Era successo questo, era successo che Emtivvì, il satellite e soprattutto internet avevano portato la musica nelle valli del Trentino. Non una Seattle agreste, ma almeno ora se uno c’aveva il cervello poteva trovava stimoli e idee e la possibilità di farsi sentire anche sottorocchetta e oltretonale.

E infatti ora succede. Doppiamente, all’italiana. In radio quelli che fanno le cover dei Deep Purple finanziati da colui che siede in Provincia e millanta parentele con me, candidati come peggior canzone dell’anno. I presunti rappresentanti del bene invece a sostenere i valligiani d’Italia nei reality show.

E poco poco spiace, perché nel momento in cui il bene trionfa non sai neanche chi lo rappresenta, il bene.

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