martedì 22 luglio 2008

Sa ghe? Sigur Rós!


Seguros! Verso il duemila avevo sentito parlare di un nuovo gruppo con un nome così o simile.
Al tempo schifavo qualsiasi cosa suonasse latino come una zanzara di città può schifare il sangue coriaceo di un pastore sardo. Preferivo la musica nordica, stereotipicamente meno caliente, ma più profonda e Seguros mi suonava come lo ska artificiale più edulcorato.
Poi un giorno scopro che il gruppo in realtà si chiama Sigur Rós ed è islandese e decido di porre l’orecchio, giusto perché sono islandesi e non sono Björk, anche se la copertina del disco mi dà una spiacevole sensazione di becero metallo.

Il disco, che è poi l’ormai celeberrimo secondogenito Ágætis byrjun, non mi dice niente, se non "coraggioso". Siccome i coraggiosi, quando non sono in qualche film americano, mi stanno simpatici, concedo al disco qualche altro ascolto. Il risultato è un deciso boh.
Però pensandoci bene, il fatto che scrivano in islandese, oltre che coraggioso è anche molto figo. Allora mi scarico i testi, con traduzione, che non sono per niente malaccio, per quanto un po’ criptici. Ma almeno non sono metal. Così, visti i testi, non il fatto di non essere metal, a distanza di tre anni, quando ormai il terzo album è in uscita, concedo al mio bel disco un altro ascolto.
Stavolta il contatto funziona. Mi innamoro di Flugufrelsarinn, pochi accordi tradizionalissimi, ma un suono mai sentito prima. E poi come si fa a parlare di accordi?
Li vedo dal vivo, alle tre di notte di un concerto che avrebbe dovuto iniziare un’ora prima, al secondo giorno di un festival impegnativo. L’audio fa schifo, io quasi collasso di stanchezza, ma il contatto non fa che saldarsi. Dal festival torno cantando la prima strofa di Flugufrelsarinn, che nel frattempo ho imparato a memoria.

Il tempo corre e dopo una notte di particolare rilevanza alla luce degli eventi mi sveglio col cinguettio degli uccelli del primo giorno di primavera. Solo che io e la mia ospite dopo un paio di minuti ci accorgiamo che ok per il primo giorno di primavera, ma gli uccellini sono quelli di Ágætis byrjun, il brano che dà il nome all’album, che era rimasto in ripetizione continua per tutta la notte.
Così mi trovo a girare felice per il centro di una città della provincia del centro destra d’Italia, fischiettando una canzone islandese, mentre le campane della domenica mattina mi fanno realizzare che non sto vivendo la realtà, perché il tutto è troppo cinematografico per essere vero.
Nel frattempo i Sigur Rós escono con altri album, singoli, EP e sbarciccoli vari e io non sempre ho voglia di ascoltare tutto otto volte, così li amo sulla fiducia, nonostante il loro stato di cult, adorati dalle modelle che sanno chi adorare anche senza ascoltarlo. Li amo nonostante il titolo di una loro canzone sia stato deturpato in inglese per Vanilla sky (ovviamente il film, non il gruppo).

Ma l’ultimo disco è diverso. È uscito da poche settimane, l’ho comprato ieri e mi piace già. Forse è stato scritto proprio per concedere alle graziose damigelle dell’apprezzamento aprioristico la possibilità di ascoltarlo, forse sarà che il buon Jónsi con l’età comincia ad apprezzare il ritmo, ma il risultato in alcuni brani, che sembrano essere stati scelti di proposito, è decisamente melodico. Semplice, ma comunque incantevole.
Lo stile è il solito, a tratti, ma suonato in modo leggermente più deciso, con più percussioni e diverse tracce di ritmo. Un album apprezzabile da tutti, non commerciale, ma commerciabile. Un album che probabilmente consegnerà ai Sigur Rós quei quindici minuti di celebrità che il magnanimo Andy Warhol aveva promesso a tutti. Un album che ha appena fatto addormentare il gatto del mio coinquilino e che quindi proprio pop non può essere.

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