martedì 30 novembre 2010

Del suggere i momenti

Dieci anni fa ero all'università. Avevo i capelli lunghi. Avevo i capelli. Un paio di volte l'anno si andava a Cesena a vedere qualche concerto. Era un evento. Per prepararsi si compravano i CD o ce li si masterizzava, che con i collegamenti internet che c'erano si faceva prima così che a scaricarli da Napster. Si studiavano i CD per un paio di settimane e poi si andava preparati, cercando di piazzarsi in posti che fossero vicini al palco, ma lontani dal pogo. Oppure alle falde del pogo, ma in posizione da sentirci bene.
Qui invece di concerti ce n'è uno al giorno e c'è gente che ci va come dire vado dal lattaio. Io come dal lattaio no, ma più spesso che dal barbiere. E cerco di fare come all'università, di aumentare l'attesa, crearmi un'atmosfera, ma il più delle volte non è proprio lo stesso, l'effetto Paese dei balocchi si è consumato.

La settimana scorsa sono stato ad un concerto, non importa di chi. Ad una piazza di distanza dallo stadio, dove gli orgogliosi lancieri locali contemporaneamente ne stavano prendendo 4 dai cristoronaldati reali di Madrid.
A parte per il fatto puramente statistico che è stato il punto di maggiore prossimità a Mourinho della mia intera esistenza, neanche questo importa. Importa che, mentre un promettente gruppo americano faceva del rumore organizzato e ritmico per attrarre l'attenzione sul palco, entrambi i partiti della coppia davanti a me controllavano Facebook sull'iTelefono, con cadenza regolare e in un contesto rischiarato da un baluginio di schermi a risoluzione elevata. E le canzoni lente erano vuote, come sottofondo di dibattiti accesi e protratti e delle gesta teatriche di chi si divincolava fra corpi contorti in danze per l'importante impresa di procurarsi della birra.

E poi c'era sta tipa bionda e diafana, in un vestito biancofiorito, con rose rosse nella foggia che mia nonna Lina sceglierebbe per le tende. La bionda aveva passato la prima metà del concerto a scambiare sillabe con valenza semantica locale con l'amica mora, a volume riconoscibile, senza mai premurarsi di rivolgere il capo al palco. Poi ad un certo punto, esauriti i temi di dibattito, aveva guardato il palco e forse accorgendosi che il cantante era bono (ma con la b minuscola) era stata presa dal sacro fuoco che anima le genti che assistono a rituali legati al ritmo e si era trasformata nella fan principale della band. A fine concerto, da come esultava, si sarebbe detto che era la presidentessa del fan club, la ragazza del tennico del suono o una tifosa del Real Madrid.

Però mi sa che anche lei non c'entra. Per farla breve c'entrano quelli che vanno ai concerti in scioltezza, spesso e con naturalezza. Quelli che secondo me lo fanno quasi per dovere, o semplicemente non si interessano di suggere ogni secondo e perdersi nella musica come hippy giulivi.

E perché come i voli diretti hanno reso meno poetica Catmandù, così, potendo scegliere fra tre concerti al giorno, va a finire che tutta l'idea di evento speciale va a remengo. Come festeggiare un Natale al mese, un matrimonio all'anno e una festa di laurea ogni paio di mesi. Come tifare per una squadra che vince tutte le domeniche e anche i mercoledì. Quasi (solo quasi) come tenere per il Real Madrid. È che se è troppo facile non c'è più soddisfazione.

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