venerdì 27 agosto 2010

Cles City Rockers

Ho una zia che è una leggenda urbana. Anzi, una leggenda alpestre, dato lo scenario.

L’ho scoperto quando ho avuto l’età giusta per sapere chi erano i Clash, che in Val di Non, dove in epoca preinformatica c’era un solo negozio di dischi, dove i doppi ciddì li pagavi come due ciddì (76.000 lire per il disco bianco dei Beatles, circa 1996), corrisponde suppergiù ai 18 anni.

La storia che comincia a girare per i paesi, irradiandosi da bar e barbieri, è che la mia Zia Matta, ora una paffuta professoressa anzianotta, durante il suo periodo londinese all'inizio degli anni Ottanta, bazzicasse i membri ormai depanchizzati della banda.

La voce fa il giro lungo, scende verso la Rocchetta, risale l'altra sponda, lambisce il Mezzalone e punta verso Cles sfruttando correnti d'aria che le fanno accarezzare il pelo dell'acqua del Lago. Poi vira verso sud e solo alla fine raggiunge la famiglia della protagonista.

All'inizio non ci credo, poi comincio a pensarci. In effetti la Zia viveva a Londra nel periodo in cui sono stato scodellato al mondo. Comincio a svelare la trama nascosta. Quell’appartamento per cui mia nonna era orgogliosa della figlia, giusto dietro Buckingham Palace, ma affittato a prezzo amico, altro non sarebbe stato che uno squat nel quale girava certa musica e certa gente. D’un tratto anche l’eccentricità della Zia quadra: evidentemente droghe. Perché a 18 anni si scopre la disillusione e per un po' garba portarla all’estremo.

E le cassette reggae che metteva quando andavo a trovarla nell’appartamento di Gardolo? Però chiederle conferma era ammettere la sconfitta, ammettere di essere interessati alle storie del passato di una vecchia zia. A 18 anni, mia seconda adolescenza, semplicemente non si poteva fare. Al massimo si metteva London Calling quando passava per casa, per vedere la reazione. Nulla.

E poi c’è l’università. Fuori sede, come dicono dalla sede, quando in realtà nella tua sede ci sei, solo che è un'altra. Fuori abbastanza per convincere i parenti che sei in grado di sopravvivere, anche in un ambiente relativamente pulito, e magari anche di mantenere una zia in visita.


Così dopo anni di distanza, la Zia Matta viene a trovarmi mentre faccio lo stage a Firenze. È faticoso starle dietro, soprattutto nei momenti come in fila per fare il biglietto ai giardini di Boboli, dove la tirchia cerca, fra pile di turisti in fila dietro le nostre spalle, di convincere i bigliettai che lei nei giardini ci è sempre entrata gratis o per lo meno a darle uno sconto per professori, esibendo la tessera turca di quando insegnava inglese ad Istanbul.

Però una di quelle sere faticose, l’ultima, quella dove si gode della fine delle fatiche, si finisce al bar dietro l’angolo e circolano rinfreschi alcolici. Birra, nulla di che, ma basta quella a pulire la punta della lingua per far scivolare via quello che vi alberga.

“Zia, senti, mi dovresti spiegare quella dei Clash”

“Cosa?"

“Ah, vedi. Lo sapevo che non era vero” – Delusione

“I Clash?”

“Sì” – delusione disarmante – “in Valle gira voce che a Londra girassi coi Clash. Sai che ne girano tante…"

“No, i Clash no”

“Ah”

“No, però quello sempre incazzato, il chitarrista, l'ho conosciuto"

“Mick Jones?”

“Esatto”

Pare che Jones fosse sempre nervoso perché Strummer rompeva i coglioni, erano le fasi finali e già si pensava al poi. Anche per questo era sempre incazzato. Come polizza per il futuro aveva deciso di produrre un altro gruppo, i Big Audio Dynamite, con gente tipo Don Letts (produttore, diggei, l'uomo che la leggenda vuole primo mescolatore di vibrazioni statiche caribiche e angoscia verso l'avvenire in stile nordeuropeo) e Greg Robert, il batterista, quello che frequentava mia zia.

Ora sono d'accordo con voi, come leggenda metropolitana non è proprio un gran che, ma come leggenda alpina, in un mondo dove non si è visto molto a parte i gruppi cover, i Figli di Dioniso e Bob Dylan (con i soldi della Provincia), il batterista degli Audio Dinamite ha delle credenziali importanti.

Mi veniva in mente così, perché la Zia è venuta a trovarmi ed è tornata a casa con una tortina alla canapa. Anche a quasi sessant'anni giustifica chi la chiamava Fulmy.

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