mercoledì 14 luglio 2010

Tramonta qui questo mondiale in arancione

Quassù la gente crede nella giustizia. È quello il problema. Perché poi la giustizia ti porta a credere cose. Cose come per esempio che se una squadra di calcio arriva in finale per la terza volta, dopo aver perso le prime due, impegnandosi fra l’altro per creare una coreografia adeguata all’evento, abbia diritto automatico a vincere. Come se nella vita bastasse sbattersi. Isolare calvinisticamente l’isotopo dell’arancione e registrarne i diritti d’uso. Comprare prodotti a tema, bruciare carne d’animale in un rogo marinato nei parchi, bruciare la propria, di carne, al sole che a luglio anche qui è inevitabile. Solo perché gli altri, prima, non erano neanche mai arrivati in semifinale. Basta, abbiamo preso il biglietto e ora chiamano il nostro numero.

Nei giorni precedenti mi è già capitato più volte (due). "Italiano, anche tu in arancione?" "Come vedi..." "Bravo, ne abbiamo bisogno". Come se stesse a noi.

E allora cosa succede? Che quando vedi che ti sei fatto un mazzo tanto e poi picche, un po' ti incazzi. E ti incazzi anche se vivi in un paese dove ti va sempre bene tutto. Anzi, ti incazzi di più, perché il monaco tibetano che non si siede da due anni, appena lo fa gli si spezza il bacino.

E sarà un caso che i monaci tibetani si vestono di arancione?

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