venerdì 2 aprile 2010

Cronaca di un sedicesimo trasloco


Domenica scorsa, prima di prendere la bici per andare a ritirare il furgoncino, prima di giocare a Tetris da bagagliaio con scatole, scatoloni e altri oggetti di geometria non per forza regolare, Lilù mi ha detto che ora che si cambia casa, vuole cambiare vita.

A Lilù piace cambiar vita, annuncia spesso di farlo. Lo annuncia così spesso che dopo un po’ ti stupisci se pensi che quando ha deciso di venire a vivere ad Amsterdam lo ha fatto davvero.

Stavolta però insiste, motiva, fornisce esempi pratici e possibili scenari. Quando la vedo lavare i piatti rimasti, di sua iniziativa, passare lo straccio nel bagno della nuova casa, allora capisco che forse stavolta è quella buona. Potrebbe farcela, magari anche per un paio di giorni.

Dice che ogni trasloco ti cambia il modo di vivere. Io dissento. Se così fosse, nell’arco degli ultimi 10 anni e 5 mesi avrei cambiato vita 16 volte, invece l’ho fatto solo 7 volte, contando le maggiori mutazioni di scenario e le ragazze che mi hanno sopportato più a lungo.

Comunque ad una settimana o quasi dall’evento, nella mia vita è cambiato quanto segue:

- Ho imparato ad abbassare la tavoletta del vater (il cesso nuovo sa di piscio sedimentario di generazioni precedenti, roba che manco lo avessero affittato ad una famiglia di gatti).
- Sono ufficialmente un atleta, non solo dall’inguine in giù (invece di un’ora e venti di bici al giorno ne faccio due e dieci, a cui aggiungere due rampe di scale – strette, ripide – con la bicicletta in spalla come i bersaglieri: un esercizio piuttosto completo, direi).
- Non ho scritto nulla per una settimana (in questo momento lo sto facendo di strafugo dal lavoro, solo perché è venerdì santo e non ho molto da fare. Il numero dei pacchetti accatastati in soggiorno non accenna a calare).
- Ho la barba (il rasoio è in fondo alla valigia blu. O nel cestone dei libri?)
- Invece di una coinquilina ho una convivente (definizione di suo padre, attendo solo di comunicare la notizia a mia nonna. Magari un giorno le dirò anche che la mia PACS non è cattolica).

Per quest’ultimo motivo, e forse un po’ anche perché ulitmamente lo nomino solo parecchio invano, il Signoriddio deve averci gettato contro il malocchio. Che poi se ci pensi, è il colmo che la divinità ti mandi contro il diavolo. È un po’ come se il Presidentissimo nominasse Beppe Bergomi ministro dello sport. Tradotto per le mie lettrici (è ormai risaputo che questo bugigattolo qui lo leggono solo le ragazze), come se Veronica Lario diventasse il ministro della famiglia. In questa legislatura.
Signoriddio o signoriddei, a seconda che uno sia monoteista o politeista, ieri era il primo aprile e invece del solito pescetto di carta, dietro la schiena mi sono trovato la sfiga in persona.



Il programma è semplice: dopo lavoro si va a Diemen, all’appartamento vecchio, lo si pulisce, si consegnano le chiavi e si porta via l’ultima roba con le biciclette rimaste là: l’ammiraglia di Lilù e la mia di riserva (in gergo tennico: “il muletto”).

Tutto liscio fino alla consegna delle chiavi, a parte quella mezz’ora di straordinari proprio il giorno sbagliato e il fatto che devo trascinarmi dietro il portatile (“lappetoppe”, si dice qui) per connettermi a distanza al computer dell’ufficio e controllare una consegna proveniente dalla California (quelli, si sa, si alzano tardi), nell’appartamento deserto, fra l’aspirapolvere e lo spazzolone. Ma questo non basta per parlare di sfiga.

Tutto ancora più che liscio verso le 10, quando carichiamo sulla bicicletta diversi prodotti per la pulizia della casa, un sacchetto di patate, un contenitore di vetro pieno di farina, il sopraccitato portatile, vestiti, tende e soprattutto un mociovileda completo di secchio d’ordinanza. Don Chisciotte allampanato, con il suo destriero, mocio in resta e secchio a mo di scudo. Mi spiace per Lilù, ma con il completo da pioggia addosso e la bicicletta con le borse gonfie di vestiti dietro, non posso far altro che assegnarle il ruolo di Sanciopanza.

Salutiamo Koko, l’alpaca del minizoo dietro l’angolo, lui che ogni sabato mattina ci belava la sveglia (muggiva? barriva? grufolava? ragliava?). Spinti da timore reverenziale verso l’elevata quantità di mulini lungo l’oremmezza di ciclabile da Diemen a Spaardammerbuurt, decidiamo per la prima volta di caricare Ronzinante e il muletto sulla metro.

E questo ci sta, ci sta che piova, faccia freddo e tiri un vento che manco nel Mare di Weddell. Ci sta anche che ci si metta mezz’ora per capire come varcare le mura della metro con bardatura completa. Alla fine basta spingere il mociovileda oltre il cancello come il cavallo di Troia, il sensore ci vede snelliti, saluta le nostre tessere ricaricabili con un bip e ci apre le porte della terra di Stramezzo.

È qui che ci si para dinnanzi il dilemma decisivo. Come raggiungere la pensilina sopraelevata? Io faccio per andare verso l’ascensore, aperto e illuminato come il trono di San Pietro, ma Lilù mi precede e imbarca Ronzinante sulla scala mobile, per guadagnare qualche secondo. A quale pro, ci si chiede con il senno di poi, considerando che abbiamo appena sentito la metro passare e dovremo comunque attendere dieci minuti. Ma questi sono quesiti che il cittadino del mondo non si pone: soffia il vento, infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar, come recitava un antico adagio.

Aizzato dal miracolo della scala che si muove da sola, Ronzinante si imbizzarrisce e si impenna lanciando un nitrito metallico disperato. Mi giro e vedo Lilù crollare come il partigiano di quella fotografia di Robert Capa, sotto il peso di Ronzinante e rimanere sdraiata come un crocefisso dissacrato in una guerra troppo santa, mentre la scala la trascina verso l’alto. Fisicamente, non solo l’anima come succede a quelli che risorgono.

Sulla cima del suo personale Calvario, il crocefisso viene soccorso da due diemeniani in attesa della 51 per Centraal, io la raggiungo di corsa e lei con voce flebile fa appena in tempo a mormorare “torna giù e prendi la bici, prima che te la ciulino”. In inglese.

Tranquilli, la bici c’è, anche la sfiga ha un limite, la porto su, con l’ascensore ovviamente, mentre Lilù si lecca le ferite. I Signoriddei hanno pensato di punirla in questo periodo di penitenza quaresimale per mezzo di contusioni sui punti più peccaminosi del suo giovane corpo, seno e inguine, non trascurando, con sottile ironia, l’osso detto anche sacro. E pensare che di solito mi piacciono, gli dei dotati di spirito.



Ma non è mica finita qui, eh, che non si pensi. Carichiamo Ronzinante e il muletto, spada, scudo, lappetoppe e mociovileda sulla 51 e in venticinque minuti di studio dello spostamento dei pesi durante frenate e accelerazioni siamo a Centraal. La casa nuova è a dieci/quindici minuti di pedivella, le porte di Itaca ci si parano di fronte. Ma prima di quelle di Itaca ci sono i cancelli della metro da varcare di nuovo, perché ad Amsterdam non basta fare il cecchin, ma da un paio di mesi ti tocca fare anche il ceccaut.

È qui che Lilù si accorge di aver perso il tesserino nella colluttazione con la scala mobile. La blasfemia non aiuta, ma in questo caso ci supporta comunque più dei controllori ai cancelli. Non ci sono cristi, ci tocca tornare a Diemen Zuid. È quasi mezzanotte e nel vagone la colonna sonora è l'imprecazione francofona (che poi diciamocelo, sempre di quei due o tre epiteti si tratta, ancora una volta non c’è confronto con il genio italico). Intanto io me ne sto là, bici in una mano, mociovileda nell’altra, tenendomi in equilibrio con la fronte appoggiata alla sbarra, in un silenzio tale che la mia neoconvivente deve sospettare un’ultima cena a base di pane e Xanax.

Ovviamente a Diemen la tessera non si trova, ma si trovano due controllori un po’ più disponibili degli strani ceffi di Centraal, che ci indicano la via per Damasco.
Per fortuna Amsterdam è più vicina. Ci trasciniamo a casa sotto la pioggia, in una scia ancora interrotta di “putain”, “bordel” e “merde”, che alla fine se non mancasse ogni accenno alla divinità crederesti che stia imprecando in padovano. A casa ci accolgono i pacchi ancora da spacchettare, con un sorriso sornione e la manina ad indicare le poche ore rimaste prima della sveglia anticipata, perché mi tocca mediare fra i californiani di prima e il traduttore in Corea.

Nei giorni successivi, a causa a turno di californiani, coreani, computer che non si connette perché il tennico ci ha dato la parola chiave sbagliata, i pacchi hanno modo di spassarsela bellamente alle nostre spalle. E questo fine settimana abbiamo già prenotato la macchina che ci dovrebbe portare a nord, per tornare lunedì sera, con i pacchi ancora là a sfottere.

Mi sa che questo trasloco la vita me la sta cambiando davvero. Sto imparando la pazienza. Altro che tavoletta del cesso.

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