sabato 30 ottobre 2010

Crederci

Presente quei blogghi dove la gente parla degli ultimi film usciti al cinema? Non qui, qui siamo indietro di anni.
Per esempio ieri ho visto The Beach: c'è Di Caprio che vuole fare il turista alternativo e cerca una spiaggia che sia etica, equa e solidale e dove vadano solo le persone eque e solidali, non gli americani con la maglietta con la bandiera americana. La spiaggia la trova, però la storia non è facile, perché anche gli equi e solidali non sono mica tutti buona gente e poi se uno sta male non gli va che si faccia curare.
Alla fine [occhio che ora scrivo come finisce] c'è la regina degli equosolidali che quasi uccide uno per tenere unita la comunità equosolidale. La lezione per me è che se credi troppo un una cosa, va a finire male.

Ogni singola volta che la vedo, la regina, mi viene in mente la mia caporeparto. E non credo sia un caso.
E pensare che non le assomiglia per niente. Tilda Swinton è magra e bianca come solo nelle isole tropicali quando passi le giornate a suggere pollini rari all'ombra di capanne di bambù, mentre la mia caporeparto è carnosa, ma senza mollezze, poco timida di seno, carenata dietro e ha un'espressione dai tratti a china. Cos'hanno in comune? L'impegno di chi ci crede.

E così ho come l'impressione che come l'equosolidale che quasi uccide uno, anche la mia capo stia perdendo di vista l'orizzonte della realtà. È che se tu sei convinta, e alle cose ci credi a priori, non ti fai domande su quello che fai e va a finire che porti avanti gli errori come quello che ha investito un cane e lo trascina sull'asfalto credendo di esserselo lasciato dietro.
Invece uno che ha dubbi si mette in questione, si fa domande, prova e riprova per altre vie. Alla fine magari non arriva all'obiettivo, ma è meglio di chi arriva troppo avanti per poi rendersi conto di aver perso la via del ritorno.

Insomma, non voglio mica dire che essere insicuri sia meglio che non esserlo, solo che vale la pena di cercare una via di mezzo. Anche nel cercare vie di mezzo, ed è questo che ci frega.

venerdì 22 ottobre 2010

Il senno

Sono in ufficio e aspetto i file. I file non arrivano. Li aspettavo sto pomeriggio alle 2 e non sono arrivati. Dicevano: arrivano alle sei. Alle sei non sono arrivati.
Allora porto giù la bici, la imbarco sulla zattera di legno che hanno messo da quando hanno chiuso il ponte per lavori. Due uomini la spingono da un versante all'altro del fiume con due manici di legno rimovibili, che fanno presa e scorrono lungo un cavo di metallo teso fra i due versanti del fiume.
È una scena da National Geographic, col cielo color vaniglia, rosa e azzurro, che sembra una luce di neon. Arrivo a casa e mi collego al computer dell'ufficio, e i file non sono ancora arrivati. Organizzo la serata, fra email che mi dicono che i file arriveranno presto.
I file non arrivano e comincio a pensare, per ingannare il tempo, io che col tempo vorrei essere sempre onesto, perché se hai bisogno di ingannarlo, il tempo, allora forse è meglio che ti iscrivi in palestra, ti compri il cofanetto di Lost o ti colleghi a Meetic.
E poi penso che non sono l'unico, il venerdì sera, alle 10, a lavorare. E forse è ancora peggio, perché il lavoro dovrebbe essere un mezzo, mica un fine.
E se vuoi puoi farne anche un fine, se ci credi, come la mia direttrice, che non a caso, è diventata direttrice. Io invece no, di essere direttore, porca bestemmia, non me ne sbatte una mazza. Per me, il lavoro, è decisamente un mezzo.
Lo faccio per soldi, voglio li sordi, per uscire, stasera, incontrare i miei amici, comprare birra belga, berla, senza pensare al domani.
Con il senno di poi, il senno di domani mattina, forse è meglio lavorare.

giovedì 21 ottobre 2010

Ancora stereotipi

Se c'è uno stereotipo che non è uno stereotipo è che gli italiani siano disorganizzati. E mi ci metto.

Si organizza un ritrovo fra vecchi erasmus. Si sparano salve di email incrociate. Date, luoghi. Io dico che io a Roma ci volo comodo e a tutti va bene Roma. Poi gira un calendario: ognuno indica i fine settimana in cui è disponibile. Dopo due mesi è fatta, tenetevi libero il primo fine settimana di novembre.

Poi a tre settimane dall'incontro arriva la Marghe. La Marghe era un po' la madrina dell'Erasmus. Era quella che teneva banco nella sala principale della mensa dell'università di Colonia e che a fine pasto proclamava con convinzione: "Leute, ich mache wie Baglioni" (Gente, mo' faccio 'home Baglioni*).

Il mio professore di linguistica italiana II diceva che seguendo le isoglosse della parlata toscana, Prato era il punto di massima purezza. La Marghe, mentre esternava la sua intenzione di dedicarsi a costumi tipici del Claudione nazionale, ne forniva la prova. Anche quando parlava tedesco.

La Marghe - ad aggiungo che è un peccato che l'accento pratese non si legga per email - scrive che le dispace, ma codesto fine settimana proprio un po' venì, perché sarà ad una fiera a Rimini, fogata di lavoro. E poi - bum - aggiunge: visto che alcuni di voi sono di Rimini, non è che ci si trova là? Seguono email con tanti sì e un paio di no. Così ci si trova a ridiscutere tutto. Alla fine l'incontro non si fa.

Io nel frattempo ero già sicuro di non andarci, ma vista da fuori ho pensato che quassù, chiedere di spostare le date di un incontro già organizzato, non si farebbe.

E poi ci si lamenta che in Italia i politici non combinano mai niente.



* mi levo da 'hoglioni

martedì 12 ottobre 2010

Il logorio della vita moderna (bilogia della roba buona, parte 1)

“Ouderwets lekker”, dice la confezione: “buono come una volta”. Cos’è? Una salama? Formaggi caserecci?

No, placchette di liquirizia. Sottili, dicono che una volta i ragazzini delle elementari olandesi se le avvolgessero al dito per far credere alle maestre che si succhiassero il dito, invece delle caramelle, che quando sei un bambino l'igiene orale è tutto. Alla maestra Marisa dava più fastidio il dito in bocca delle caramelle, ma non è questo il discorso. È più che altro che tu al concetto di Buono come una volta ci associ qualcosa di nutriente, genuino, sano, bilanciato, equilibrato, casereccio, artigianale, fatto in casa. Invece no.

Ecco, ti vedo, là davanti. Alzati, dillo. L’hai detto: “Eh, ma questi qui sono nordici, non hanno il senso del gusto che c’abbiamo noi che ci hanno civilizzati prima”, come se fosse merito tuo se i Nostri conquistavano l’Europa mentre quassù c’erano ancora gli Snorky.

Siediti, bestia.

Lo sai che le cose, quando invecchiano, acquistano valore. Tra vent’anni anche tu, bestia, aprirai un sacchetto di patatine Pai, trovate in un negozio di roba vintage e praticamente cartonate di stagionatura ed esclamerai “Ah, le cose buone di una volta!” Ti sembrerà l’apice del mangiar sano, quel pacchetto di patatine, e non solo perché fra vent’anni i pomodori li venderanno nei tubetti del dentifricio.

È che le cose invecchiano, anche tu invecchi e tendi ad idealizzare ciò che ti ricorda i tempi andati. Le patatine Pai non ti hanno ucciso di grassi insaturi, ma solo avviato alla gioia che puoi ottenere masticando ed ingoiando. Le patatine Pai sono il Bene. Le Pringles, che ti ficcavi in bocca più avanti, da adulto responsabile, con già a carico una moglie fuggita dall’amante con figli, casa e suv, quelle non ti suscitano gli stessi ricordi. Sono arrivate dopo, quando la mattina non ti alzavi per scoprire il mondo, ma per fare straordinari. E per di più sono americane: le Pringles sono il Male, il logorio dei tempi moderni.

E non vale mica solo per il cibo. Ho sentito gente della mia età decantare ad alta voce le lodi dei cartoni giapponesi che passavano in tivvù quando eravamo piccoli, contro la volgarità di Pochemon e porcate moderne. Chi è nato qualche anno prima di me sicuramente sosterrà la superiorità del dolce Remì su Mila e Sciro, fino ad arrivare a chi è convinto che Carosello sia l’unica forma d’arte dell’intrattenimento giovanile. Carosello: uno spettacolo fatto interamente di pubblicità. E poi saremmo noi, quelli a cui la tivvù fa il lavaggio del cervello.

E poi c’è la generazione dopo la mia, che su Facebook decanta i pregi dei suoi cartoni, quelli che per la gente della mia età sono già corrotti come i tempi moderni. I tempi cambiano, e senza un po’ di elasticità mentale, cambiano solo in peggio.

martedì 5 ottobre 2010

Del dormire in treno fra troppi confini

Alla faccia del pluralismo linguistico. Prendi il Thalys, che sarebbe questo treno supertecnologico e supercostoso che va da Amsterdam a Parigi in tre ore e venti e il viaggio comincia con una voce registrata. Dice, Benvenuti sul Thalys da Amsterdam a Parigi. Abbiamo vagoni di prima e seconda classe e una carrozza ristorante. In olandese. Poi in francese, perché c’è chi non capisce l’olandese. Poi in inglese, perché c’è chi non capisce nessuna delle lingue del tracciato. Poi in tedesco, perché in Belgio c’è anche la minoranza tedesca e per quanto pochi siano, e lontani dal tracciato ferroviario, le minoranze più deboli non si possono mica offendere. Specialmente se pagano, vorrai mica che vadano in macchina? Quando il messaggio quadrilingue è terminato, è ora di annunciare la prima fermata. In quattro lingue, perché Amsterdam Schiphol si pronuncia Sxhiphol in olandese, Scipò in francese, Skipoll in inglese e Scipol in tedesco.

Ci si ferma e si riparte pieni di valigie rigide con l'etichetta biancoverde dell'aeroporto da cui sono partite ed è il momento di spiegare a chi ancora non lo sapesse che si va verso Parigi. In quattro lingue. Notare che a questo punto chi avesse preso il treno sbagliato non potrebbe comunque scendere prima di Rotterdam.

Pochi secondi di pausa e le stesse quattro lingue ci invitano a fare attenzione ai ladri. Immagino che il messaggio sia piuttosto efficace per scoraggiare i poveri ladri, a meno che al mondo non sia rimasto ancora qualche malvivente che parla solo Tagalog, Urdu, Xhosa o Mocheno.

Visto che rendere servizi utili sta così a cuore alla società Thalys, proporrei di avvisare della presenza di bagni, elencare il menu della carrozza ristorante con prezzi e offerte speciali, farci sapere il nome e lo stato civile dei controllori e descrivere quello che possiamo vedere dal finestrino per i non vedenti. Anzi, per questa categoria ancora ignorata suggerirei di ripetere ogni messaggio facendo vibrare le poltroncine in codice Morse.

E perché non pensare anche alle nutrite minoranze italiane e congolesi del Belgio, o ai magrebini di Parigi? Per favore, qualcuno tenga i ferrovieri di quassù lontani dalle statistiche sull’immigrazione.