mercoledì 15 ottobre 2008

I Sonic Youth a Bolzano?


Quando sei nato in un paese minuscolo in una valle alpina, il fatto che il tuo gruppo musicale preferito decida di suonare in prossimità di casa, per giunta nel giorno del tuo compleanno, non può che sembrare un segno del destino.
Non ci credevo quando ho scoperto che qualcuno aveva portato a Bolzano una mostra su artisti legati ai gloriosi Sonic Youth. Che poi il tutto sarebbe stato coronato con un concerto della band, nel giorno che avrebbe sancito per me l'impossibilità di morire a 27 anni come la maggior parte delle rock star, pareva quasi troppo.
Così dopo neanche troppi giorni di ponderazione ho comprato i biglietti aerei per una settimana a casa.

Un concerto dei Sonic Youth significa trent'anni di discografia fra gruppo e mille progetti collaterali e prima del concerto un ripasso è necessario per chiunque. Nelle settimane precedenti riascolto i primi dischi e l'ultimo, accentuando l'attesa.
Ma non sembro essere il solo ad essere impaziente come un bimbo prima di Natale (o come Pietro Maso in attesa di essere scarcerato). Nei giorni precedenti al concerto si avviano discorsi con altri appassionati su tutti i canali dell'internètt.
Così quando salgo sull'aereo per tornare a casa mi pare di partire io stesso per una tournée.

Quella di tornare a casa per il concerto si rivela una saggia decisione. Sembrava che in Trentino e Alto Adige tutti si fossero convertiti al verbo di Kim Gordon, Thurston Moore e Lee Ranaldo (accompagnati da una fitta ridda di batteristi). Perfino i miei genitori si sono preoccupati di risalire all'identità di questo misterioso gruppo, che poi così male non poteva essere, visto che gli hanno dedicato una mostra d'arte al Museion di Bolzano. Mia madre ha subito identificato la band come "chei da la majéta" (quelli della maglietta), memore di mille lavatrici.
E la mia amica Fabry, benedetta sia fra le donne, che lavora per i colleghi trentini di Museion, è riuscita addirittura ad imbucarmi nella conferenza stampa in corrispondenza dell'inaugurazione della mostra.

L'inaugurazione avviene il giorno prima del concerto. Sulla Skoda bianca di David, il moroso della Fabry, c'è anche l'"inviato" di Rumore (virgolette rese necessarie dalla gratuità della prestazione), che ha prenotato un'intervista con Thurston Moore, suscitando l'invidia di tutti noi e il seguente imboscamento della Fabry, sottoposta per questo alla gogna davanti ai suoi datori di "lavoro".
Dal finestrone della sala conferenze di Museion lo sguardo attraversa l'alta Val d'Adige fino all'Austria, quando appaiono un cinquantenne allampanato, uno stagionato viveur dai capelli pepe e sale, una rispettabile signora e uno spaesato turista americano.
L'impatto con i propri idoli è spesso traumatico, ma la senilità sonica ne esce comunque quantomeno dignitosamente.
Meno dignitosamente ne esce invece il giornalista della tv nazionale austriaca, che appena si accorge che la conferenza viene tradotta solamente in italiano, la interrompe per dichiarare che non è necessaria alcuna traduzione, dall'alto della rispettabilità conferitagli dai suoi baffetti da tredicenne. Avevo già avuto modo di notare come gli austriaci si sentano sempre in dovere di confermare lo stereotipo. Benedetta l'organizzatrice francese della mostra, all'oscuro del prurito linguistico che impregna il Suttirolo.

Tra l'altro lo stesso giornalista pone a Thurston la domanda più stupida possibile, la cui risposta si rivela invece molto interessante.
"Vat zu yu zink of the current art situazio?" Mr Moore risponde che non ne ha idea, perché lui di arte non se ne intende e tutti gli artisti esposti sono stati scelti per amicizia o incontro casuale. Il che conferma quello che noi tutti sappiamo, che quelli famosi non sono per forza gli artisti migliori, ma quelli che per un motivo o l'altro hanno ricevuto maggiore esposizione. Solitamente si tratta di artisti appartenenti a scene, che traggono beneficio da stimoli e fama di chi gli sta vicino.
Sulla fama non mi pronuncio, ma quella degli stimoli offerti dalla scena locale sembra essere una tematica rilevante nella carriera dei Sonic Youth. Dal punto di vista musicale, quella di New York è una fucina di scene, che spesso si contaminano e uniscono nella scena più grande e longeva al mondo, partendo dal primo jazz, passando per la Factory, il free jazz, il punk e la no wave, sporcandosi di arte di ogni genere. Una scena sempre attenta alle avanguardie e alla sperimentazione.
Moore ricorda come nel 1977 tutti gli artisti gnuiorchesi ascoltassero solo la disco, per poi giungere inevitabilmente a contatto con l'allora vivissima scena punk/no wave.
Ricorda anche come si fosse meravigliato ascoltando per la prima volta un artista non musicale discutere di no wave invece che di ballare Disco Inferno. Si trattava di Dan Graham, un placido vecchietto con la barba bianca e un giubbotto milletasche che, anche lui presente, si diletta a parlarci di Teenage Jesus and the Jerks.

Finita la conferenza stampa, mentre aspettiamo che gli altri finiscano di intervistare Thurston Moore, David e io facciamo un giro nella mostra, ancora in via di allestimento.
Riduco al minimo i commenti, non essendo io un esperto. Comunque c'è tanta pop art, ovviamente (dieci anni prima dei Sonic Youth la scena di New York era quella di Andy Warhol), tanti colori, ma anche sangue, pistole, violenza, che sembrano essere inevitabili in qualsiasi manifestazione di americanità. Fotografie originali di supereroi beat (Lee ne è un cultore) e fumetti, installazioni in via di costruzione e una yurta con strumenti per consentire ai visitatori di metterci del loro. O per sottolineare ancora una volta che al posto dei Sonic Youth, potrebbe esserci qualcuno di noi.

Intanto Steve Shelley si aggira ancora per ore timido e sperduto fra il negozio della mostra e il bar sul retro, con un paio di cd in mano. Fa tanta tenerezza, è proprio uno di noi.

Ma mi sa che per oggi ho scritto anche troppo, quindi direi che del concerto ne parliamo alla prossima occasione. Un blog senza lettori può permettersi di aspettare, no?

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