martedì 7 ottobre 2008

Io e tanta bella gente

"È qui che va la bella gente." È bastato che Er Tinta profferisse queste magiche parole per farmi capire che sarebbe stata una serata difficile. E gli altri "Sì, dai, che è pieno di figa". Al fatto che anch’io sarei una gran figa sotto falde freatiche di trucco nessuno ovviamente ci pensa. Che poi uno usi il termine "bella gente" in senso non derogativo, mi spaventa non poco. Comunque di andare a casa non ne ho voglia, di fare l’asociale nemmeno, quindi che fare? Dai, ci andrò, facciamo sto sforzo, al massimo troverò qualcosa per il mio blogghetto che nessuno ha mai letto.

Ed è subito sospiro di sollievo, perché pare che il buttafuori ci neghi il privilegio di accedere, credo grazie al mio vestiario colorato. Ma poi arriva Er Magnaccia, un deficiccio molto ciccio che prima di lasciarci per gli impegni di cui in seguito fa cenno alle guardie di farci entrare, cercando possibilmente di far notare il suo potere a chiunque nel raggio di svariate miglia marine.
Questo ovviamente solo dopo averci illustrato il suo problema: sarebbe dovuto uscire con cinque fighe, e almeno una gliela avrebbe data di sicuro. Però prima avrebbe dovuto portarle a ballare e la tipa avrebbe ceduto solo verso le 6 di mattina e lui è troppo vecchio poverino per stare in giro fino a quell'ora.
Il primo istinto è quello di indagare se anche uno solo di noi gli crede, o se lui stesso crede che noi gli crediamo, ma gli altri sono già passati al guardaroba e ora puntano già i loro tagli scelti.

È al bancone che capisco che il Veronese è con me. Ma è troppo buono per pensare male e troppo timido per commentare. Allora lui e io ci affidiamo ai simboli e ordiniamo della volgare bbira. I due romani invece solo roba che si serve nei tumbler.
"Qui sono tutte carine" esclama il candido Dà, "Ammazza quanta fregna", ribatte Er Tinta raggiante e si mette a puntare una bionda.
Dopo un po’ la bionda ricambia lo sguardo, così Er Tinta si spaventa e attacca col piano B, rivolgersi a noi per parlare di finanza, anticiparci con disinvoltura merger e acquisizioni.

Il Veronese sembra intuire la densità della situazione e mi chiede se ho voglia di fare un salto con lui in un altro bar a trovare alcuni suoi amici. Il sollievo si dipinge in rapida successione sul mio volto (luce in fondo al tunnel) quello der Tinta (con quelli appresso nun se rimorchia) e quello de Dà (me dispiace, ma sto a cercà l'anima gemella).
Sono sorpreso quando scopro che questi amici nell'altro locale non sono una scusa, ma esistono davvero. La sorpresa aumenta quando al Weber non li troviamo e raggiunge il culmine nel momento nel quale il Veronese proclama convinto di voler tornare al postaccio di prima.

Non dico niente, anche perché, che ci facciamo io e lui soli in un bar strapieno? Tanto stavolta Er Magnaccia nun c'è e sto cazzo che ce fanno entrà. Infatti è così, i buttafuori fanno passare tutti quelli intorno a noi, mentre noi attendiamo. Il Veronese si rivela più candido del previsto, non intuendo il motivo di tale attesa. Poi dopo una mezz'ora i manzi si commuovono per la nostra pazienza, tipo "quei due devono tenerci proprio ad entrare in questo esclusivo buco", e ci aprono le porte. Cerchiamo gli altri. Spero che siano fuggiti con due fighe, ma so che così non può essere.

Temporeggio bevendo spuma, diceva il saggio. Ma qui spuma non ce n'è e provo a ordinare birra, operazione più complicata del previsto. È calca: un'intera generazione di figli di papà, ancora sicuri di essere dei bimbi speciali, fanno prevalere il loro diritto spingendo e schiacciando il sottoscritto insieme ai figli di altri papà. Un trentenne con i capelli di Briatore tira fuori una mazzettona di biglietti da cinquanta e ne porge uno al barista.
Arrivano le birre, i romani non si vedono e allora meditiamo una per me dolce ritirata, che non si rivela facile, impantanati fra schiene nude e blazerini di Armani.

Siamo davanti alla porta, il Veronese è già quasi fuori, io mi giro per un secondo e in un fotogramma vedo dei capelli tinti di nero, seduti al tavolino all'entrata. Non so che mi prende, ma segnalo l'avvistamento e i romani, ormai arresi alla triste realtà, sembrano felici di vederci e ci fanno accomodare.

Nel giro di dieci minuti i romani però si ringalluzziscono e propongono la puntatina in disco. Stavolta non ce la faccio e mi congedo. Il buon Dà sembra non aver capito e insiste un po', ma riesco comunque a svignarmela.
Appena slego la bici mi sento sicuro, fra le vie del centro di Amsterdam. Nelle finestre senza tende degli appartamenti del quartiere dei musei si intravedono le sagome della bella gente, che ha lasciato il locale prima di noi per fare quello che a volte chiama amore. Io tiro dritto e mi fermo solo davanti al cortiletto di casa. Il giorno dopo esco con gli svaccati e andiamo in uno squat. Quando racconto della sera precedente si fanno tutti due grasse risate.

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