sabato 6 settembre 2008

Please Kill Me: The Oral History of Punk


Ho una strana tendenza a conservare le cose che mi piacciono per godermele in futuro. Così capita ad esempio tutti gli anni che l’ultima stecca di torrone duro alla mandorla finisca verso la fine di giugno.
Il discorso vale ovvimente anche per i dischi: conservo i miei album preferiti per momenti speciali, perché non vorrei mai rovinare i ricordi a loro legati. Non ascolto mai i miei dischi preferiti. Ma ultimamente su questo versante sto migliorando. Mi concedo ampi ascolti di dischi prima intoccabili e, estendendo il discorso ai libri, ho finalmente ordinato, ottenuto e intaccato “Please Kill Me: The Uncensored Oral History of Punk”, di Legs McNeil e Gillian McCain.

L’avevo adocchiato anni fa in un negozio di roba di seconda mano a Colonia e un paio di mesi dopo l’avevo ritrovato, citato e lodato da Wu Ming I come grande ispirazione per il suo romanzo solista “New thing”, altro libricino che in meno di duecento pagine stipa una selva di ispirazione, idee e rimandi a tematiche reali, dal free jazz al black power.

All’epoca, di Please Kill Me non esisteva una traduzione italiana, così appena laureato, lo sbarbato neotraduttore che ero aveva scritto a Minimum Fax, che già deteneva i diritti di traduzione, per proporsi come traduttore per l'opera. Mi viene ancora da ridere a pensare che forse speravo davvero che mi rispondessero, o che addirittura accettassero la proposta. Fatto sta che un annetto e mezzo dopo esce sta benedetta traduzione. Ovviamente non ho la minima presunzione di aver fatto scattare io la molla, credo che Wu Ming I si battesse già da anni, e poi mica vanno ad ascoltare un ragazzino con la sua bella pergamena fresca in mano. Però ogni tanto il mio immodesto ego ama cullarsi fra i “c’ero prima io”.

Legs McNeil è uno che nella scena punk americana c’era immerso fino al collo, avendo lavorato per diverse riviste della scena locale e inventato il termine stesso “punk”. Di racconti memorabili deve averne sentiti raccontare diversi. Tanto è vero che decide di raccoglierli e scrivere la sua versione della storia del punk, mettendo in fila dichiarazioni fatte da diversi protagonisti e lasciando parlare anche chi stava dietro al palco, il che fa sì che i musicisti vengano descritti in modo più naturale, togliendo l’aura di mito e immergendoli nella vita quotidiana.

Emerge fra tutti sto Danny Fields, l’uomo che facendosi della droga del momento è partito dai Velvet Underground (speed) e ha scoperto Doors (whisky), MC5 (marijuana) e Stooges (eroina). Uno che a giudicare dalle sue parole da frocione incallito, questa gentaglia l’ha selezionata più per l’aspetto esteriore che altro.

E questo è tutt’altro che un aspetto marginale. Fields ammette che la musica degli Stooges, prima di incidere album, fosse una cosa assolutamente marginale. Quello che contava era che Iggy vomitasse sul pubblico. Poi è arrivata anche la musica, un buon produttore in uno studio decente può fare miracoli. Per i New York Dolls il discorso è ancora più evidente, sono stati scritturati perché si vestivano da donne (ah, a proposito, erano tutti talmente eterosessuali e Johnny Thunders era terrorizzato dal fatto che la gente potesse pensare che fosse gay) e non per la loro musica.

Non che mi aspettassi che la realtà fosse differente, ma è veramente triste leggere la conferma che praticamente chiunque dotato di una presenza scenica decente (ma forse un bel culo aiuta di più) possa diventare un musicista importante. In pratica quello che conta è il produttore. Stop. Come se nel calcio un buon allenatore potesse portare la Reggina allo scudetto.

Partendo da queste basi, il nostro bel libercolo procede a demolire diverse biografie di cantanti celebri. In pratica, almeno nelle prime 200 pagine, tutti i leader dei gruppi nominati fanno la figura degli egomaniaci. Pare ad esempio che il ruvido Iggy sia in realtà molto più colto dell’intellettualoide Lou Reed, solo che il secondo ama credersi e porsi come uno che sa, per poi pregare uno sconosciuto di cagargli in bocca, ma qui fermiamoci, se no entriamo nel gossip. Soprattutto Jim Morrison, quello a petto nudo, che allarga le braccia sulle magliette, ne esce demolito. Jim è un alcolista fin dai primordi, passa le serate pisciando sul pavimento dei bar perché non riesce neanche a trascinarsi al bagno, si dimena fra le acque di scolo ed è vero che alcuni suoi concerti sono memorabili, ma solo uno su dieci, tanto che ci vuole un po’ per convincere i dirigenti dell’Elektra a scritturarlo. Ah, dimenticavo, pare addirittura che il vecchio Jim non fosse neanche tutto sto grande letterato dopotutto.

Ok, ammetto che da questa descrizione pare che stia leggendo un libro scandalistico. In realtà si parla soprattutto di musica, ma per descrivere al meglio la musica bisogna conoscere il musicista, possibilmente immerso nel suo habitat. In pratica la storia personale e la personalità dei musicisti vengono usate per spiegare il loro stile e la loro attitudine. E il punk è un genere che più di ogni altro nasce dalla personalità del musicista, perché, lo vogliate o no, il punk è immagine ancora prima che musica. Quello che risalta nel punk non è tanto la musica, quanto la personalità. Chi conosce i New York Dolls? Vedo tante mani alzate. Chi conosce le loro canzoni? Così pochi? Chi sa dirmi il titolo di una canzone degli MC5 che non sia quella che tutti sappiamo?

E qui torniamo a Danny Fields. Il punk ha bisogno di un magnaccia come lui, o come l’infame Malcolm McLaren, uno al quale interessa solo l’immagine, uno che della musica se ne frega fino ad un certo punto.
Fino alla fine degli anni ’60 il rock era tutto sommato basato sulla musica. La personalità degli artisti contava fino ad un certo punto. Dei Byrds, degli Animals, dei Jefferson Airplane, si conoscono le canzoni, non la biografia. Elvis, i Beatles, gli Stones sono i primi a costruirsi un’immagine, ma dai Velvet Underground in poi la cornice comincia a contare più del contenuto. E non sto qui a dirvi che così non dovrebbe essere, perché non sta a me. Anche lo stile ha la sua importanza, non lo nego.

Il succo del discorso è che al musicista punk non basta cantare canzoni, le deve anche vivere fuori dal palco.

Detto questo, che pare molto romantico, Legs ci insegna anche che per farlo bisogna essere dei bei cazzoni. Sul musicista come testa di cazzo sentenzierò a breve.

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