domenica 16 febbraio 2014

Varie ed eventuali, fra Venezia e le Alpi



Troppe cose da dire ci sarebbero, così che finisce che non ne dico nessuna. Allora facciamo diverso, facciamo che stavolta provo a dirne qualcuna, anche a caso.

C’è da dire che parrà scontato, parrà una di quelle risposte che ti darebbe un turista di Tulsa, Oklahoma, ma se uno mi chiede qual è la città più bella al mondo, io gli devo dire Venezia. Perché non ce n’è. Perché a parte che non ci sono macchine, neanche volendo. Perché in ogni angolo c’è una storia, un dettaglio che ha qualcosa da raccontare. Storie di viaggi, da Marco Polo a Corto Maltese, come piace a me. Quasi roba da Salgari, che però era di Verona e chissà come l’avrebbe presa. Noi troviamo un anziano veneziano che devia la passeggiata serale per raccontarcene qualcuna. E finisce che la gente entusiasta riesce sempre a contagiarmi. 

Comunque a Venezia c’era l’acqua alta, i gabbiani a galla che sostituivano i piccioni e i cinesi che sguazzavano, mentre gli autoctoni bestemmiavano trasportando portantine per farci camminare i cinesi, con quella R che hanno solo in laguna, che non è moscia, ma è spazzata via con il dorso della lingua. Un cinese nell’acqua alta ci cade a pesce. Io cerco di mantenere un contegno, ma sotto sotto me la rido, mentre lui spiana lo schermo dell’iPhone con la mano a tergicristalli. Come un pesce. Ti saresti dovuto vedere, cinese, che scendevi direttamente dalla gondola all’acqua alta e non hai considerato che la pietra sott’acqua è scivolosa.

Sulla terraferma invece c’è una persona molto molto vicina a me, che dopo tre anni di disoccupazione ha praticamente smesso di cercare lavoro. Non che avesse mai cominciato davvero, che tanto c’era la scusa della crisi e se non ce la fanno i miei amici, perché dovrei farcela io? Così mi sa che finirai anche tu, caro parente mio, a raccogliere le mele, che a te magari fa schifo, ma credimi, guadagneresti il triplo del gestore d’azienda che vorresti diventare. Sembra stizza, ma è il cuore che parla onesto.

E infine c’è quel tipo sull’aereo, sulla cinquantina brizzolata, che prima parla di Marchionne e Benetton col fratello italiano di Depardieu e poi qualcosa d’un tratto mi distoglie dall’Autobiografia di Morrissey ed è lui che mi apostrofa oh, dovresti guardare sotto il sedile, che mi sono caduti gli occhiali, così, senza un per favore, uno scusa o meglio uno scusi, che a me hanno insegnato a dare del lei. Poi, appurato che gli occhiali gli erano finiti sotto il culo, torna sulle sue e si mette a sfogliare Libero. E allora io penso che devono essere questi, sti capi di cui mi racconta chi lavora in Italia, che ti allungano ottocento euro messi male al mese e dire grazie che ti pagano per quel merda di lavoro che fai.

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