venerdì 7 ottobre 2011

Notte insonne a Jogjakarta

Se fossi il presidente dell’Indonesia, o almeno una specie di dittatore illuminato, per prima cosa rifarei i fusi orari. Perché qui il sole sorge alle 5 e la notte cala esattamente 12 ore dopo, alle 17. Se poi ci metti che Allah sveglia discepoli e miscredenti prima dell’alba, ne deriva che qui la vita comincia ogni giorno fra le 4 e le 4.30. Per dire, i musei aprono alle 6 e chiudono alle 2, o anche all’una, come capita di scoprire dopo aver camminato qualche chilometro in salita per raggiungerli appena troppo tardi. E la gente, che deve pure dormire, lo fa qua e là, senza orari fissi e senza mai superare le tre ore consecutive. Al mercato trovi cinesi col cappello piatto di corteccia intrecciata che sgomberano il pesce dal bancone e ci si sdraiano beati. Chi vende cibo per strada passa le notti all’interno della sua cucina mobile, che è una cassetta di un metro e mezzo per mezzo metro con due ruote da bicicletta. Lo stesso fanno i tabaccai nelle loro edicole, fra bustine di caffè e sigarette al chiodo di garofano, mentre sugli autobus c’è un materasso di fianco al posto di guida. Nelle reception degli alberghi, le stesse persone che fanno turni di 24 ore sono in grado di scontare il loro debito con Morfeo sonnecchiando fra un cliente e l’altro.

Ci pensavo l’altra sera, che mi piacerebbe riuscire ad addormentare qua e là, come capita, come fanno loro. Ci pensavo verso mezzanotte, mentre mi giravo nel letto come una scaloppa nel soffritto, ascoltando le risate ubriache della strada. Risate stridule, senza contegno, esplosive. Si direbbe ragazze inglesi, ospiti di qualche losmen del ghetto turistico di Sosrowijaya. Poi però deduco che deve esserci anche qualche autoctono: si sente un motorino, che qui come nei paesi alpini è l’accessorio più importante per avere una vita diversa da quella ascetica di un monaco. Il motorino rimane acceso per ore, perché qui sulla benzina si risparmia il più possibile, ma nessuno sembra aver capito che spegnere il motore è un ottimo modo per limitare i consumi.

Poi finalmente mi addormento, cullato dal rombo plastificato del ventilatore, che almeno è più regolare dei bassi dei motorini, finché a svegliarmi ci pensa Allah, che alle 4 esplode in un turbinio di sacri decibel. Ecco, io la storia del muezzin non l’ho mai capita, perché mi sembra un ottimo modo per perdere proseliti, piuttosto che guadagnarne. Credo che se il prete mi chiamasse ogni mattina presto del marciapiede sotto casa, incitandomi a pregare, ecco, io la divinità la chiamerei in causa in constesti ben lungi dal sacro.

Mi dicono che anche ai musulmani a volte danno fastidio gli urlatori troppo zelanti. Deve essere il caso del misterioso personaggio che qui ogni mattina, cinque minuti dopo che il muezzin ha smesso di ricordarti quanto grande sia Allah e di come neanche Maometto stia a scherzare, vira a dritta la manopola del volume dello stereo con una canzone pop indonesiana. Sempre la stessa, con un ritornello in inglese che dice che “every little thing is gonna be alright”. Evidente citazione marleyana, perché per qualche strano motivo, forse per una questione di gradi centigradi, l’ex allenatore della nazionale dell’Etiopia sembra essere l’idolo indiscusso di qualsiasi paese tropicale, indipendentemente dalla longitudine. La grande peculiarità indonesiana è che qui l’uomo dai capelli di corda se la gioca alla pari con Eric Clapton e credetemi, per scoprirne il motivo sarei disposto a pagare diverse migliaia di rupie (1 rupia = 0,00008 euro).

Con la parentesi musicale il quartiere prende vita. Al di là di un paio di centimetri di cartongesso si sveglia la ragazza svizzera. L’accento da educatrice bacchettona che ha quando parla inglese col suo ragazzo americano fa passare il mio desiderio di prendere sonno in secondo piano rispetto a quello di colpirla ripetutamente con un metro di legno, prima sulle nocche e poi sui denti. Con grandi manovre di ricompattamento di un bagaglio gonfiatosi di batik e marionette di cuoio si prepa per visitare il tempio di Borobudur, che come tutto qui va visto all’alba, fra gli sbadigli di turisti che si aggirano in cerca di una sfumatura rossa del cielo che li mondi dal peccato di aver puntato la sveglia su di un orario da sanzione penale.

Con loro si svegliano decine di galli (le battaglie fra galli sono passatempo nazionale) e gli uccelli da gabbia, che mi dicono essere per i locali uno dei cinque oggetti di cui vantarsi, insieme a moglie, cavallo, coltello e casa, anche se direi che il paniere qui è leggermente meno aggiornato di quello dell’ISTAT.

Verso le 5.30 dai vicini è come consuetudine l’ora di risvegliarsi in musica, con una riproduzione in ciclo dell’unica canzone in loro possesso, ahimè quella degli Evanescence (perché, ne hanno fatte altre?). A questo punto, con il sole già alto, decidiamo che è ora di alzarci e trasciniamo le nostre stanche membra verso la sala colazione, dove diversi altri sguardi corrucciati ci rivelano che non siamo i soli a non essere abituati ai ritmi locali. Da queste parti il jet lag non si accontenta di colpirti quando arrivi, ma tiene il colpo segreto in canna per quando credi di averlo sconfitto. Con buona pace di chi viene qui per riprendersi dai ritmi della vita lavorativa.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Non parlarmi del momento del risveglio: qui alle 6 é giá giorno, con tanto di sole, secondo me; azzardo, perché non ho ancora avuto il coraggio di tirare le pesanti tende di cotone grezzo color crema, a quell´ora (ma dico, mettimele blu scuro, no, come i crucchi, che almeno avrebbe un senso...). Alle 6 e mezza escono giá di casa e la bestiola, nonostante i quasi 6 anni, ancora si ostina a svegliarsi secondo i ritmi giorno-notte. Per fortuna che alle 7 é giá buio, valá...:-)
ciao! claudia