martedì 9 dicembre 2008

Oi nemo a veder i Deerhoof

Stavolta non sono il solo ad essere da solo. Penso che tutti gli estimatori dei Deerhoof siano soggetti alla mia stessa sindrome, quella da allergia verso il gruppo da parte di tutti gli amici.
Provate a farli ascoltare ad amici e conoscenti e se passano indenni oltre alle basi veloci, dissonanti e frammentarie, ci pensa sicuramente la voce melodiosamente stridula della giapponesina portatile a farli fuggire.

The human version of Hello Kitty, scrive l’Amsterdam Weekly, e sembrerebbe una metafora triste e stereotipata, se non corrispondesse perfettamente alla verità. Più bassa del suo basso a violino stile Paul McCartney, la Satomi è simpatica come uno di quei personaggi dagli occhi enormi.

“’Cazzo c’entra la statura?”, direte voi. Beh, c’entra perché la sua voce è quella di una che è bassa, ma che ci tiene a farsi sentire, altre scuse mi sa che non ne trovo. Comunque è proprio bassa.

Invece Greg Saunier è alto come un pilone dell’ENEL. È il leader indiscusso, che porta la batteria in primo piano sul palco, esegue di persona saluti e ringraziamenti alzandosi dal sediolino, raggiungendo Hello Kitty e chinandosi sul suo microfono.

Attaccano con Milk Man e si capisce subito che sono un gruppo che si esprime al meglio sul palco. Anche Saunier lo sa e per tutto il concerto ha il sorriso di chi conosce il proprio valore, come quei ragazzini americani che crescono con i genitori che gli fanno ripetere davanti allo specchio "io sono speciale".

Ma nonostante ciò è simpatico, perché si contorce sulla sua batteria fragile come un cestista in una Y10, fa smorfie di concentrazione e fatica e aggiusta continuamente la posizione del suo sonoro ambaradan. Una volta tira perfino le pelli dei tamburi. Si vede che la ama, la sua batteria.



E va bene così, perché il gruppo è costruito attorno a lui, con i due chitarristi che sembra stiano facendo una gara per servire al meglio il loro signore. Una potenza enorme. Tutte le canzoni, dal vivo, assumono una carica stratosferica, tanto da farti pensare che avevi sbagliato a giudicarle. Non solo perché pompano di più, ma addirittura la qualità è migliore.

La batteria detta i tempi, le chitarre si sfidano fra arpeggi da ritiro della patente e riff stralunati, con parti melodiche cucite qua e là, giusto per dare un aiutino all’ascoltatore. Per fortuna c'è la Satomi a ricordare ai ragazzi che non sono i Melt Banana e canta con la sua voce fragile, che è la fortuna, ma soprattutto la maledizione, della band, perché riesce a renderli unici, ma soprattutto indigesti per le masse.

Ma proprio per questo l’atmosfera al Melkweg è più familiare, come spesso accade ai concerti dei gruppi meno noti. Familiare e rarefatta, visto che la sala si è riempita in modo sospettoso solo a dieci minuti dall’inizio. Talmente familiare che il leader del gruppo spalla può permettersi di cantare in mezzo al pubblico, dopo aver cantato il primo pezzo nascosto, per poi sbucare dietro la mia schiena. Bravi i Parenthetical Girls, electro rock con un cantante che è la versione alternativa di Mika e ha tanta, tanta voglia di mettersi in mostra, con colpi di teatro come la scena finale, dove tutti i membri del gruppo terminano uno alla volta con il suonare un elemento della batteria.

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