lunedì 23 dicembre 2013

A casa qui



Insomma c’è voluto un po’, però alla fine ce l’ho fatta. Ci sono voluti metodi drastici, c’è voluto che Lilù perdesse il lavoro e si prospettasse la possibilità di andarsene, però alla fine mi sono innamorato di questa città. Ci sono voluti diversi passaggi sul Pont St. Pierre con viste da cartolina sul fiume e sul Pont Neuf, in combinazioni di colori più varie di quelle dei temi di Windows del mio smarfione.


L’ultimo “c’è voluto” lo spendo per la libreria Ombres Blanches, al cui interno ci si può anche perdere, per uscire da una qualsiasi delle cinque porte sparse lungo un intero isolato, oppure, un c'è voluto bonus e poi giuro che smetto, l'altra libreria – come si chiama? – quella coi libri radicali, che ti siedi a un tavolino di legno e ti portano un tè, mentre tu studi da lontano copertine da sfogliare dopo, che ora rischi di macchiarle.

Ecco, mi piace proprio la mia città. Davvero, al di là del fatto che rischiamo di smobilitare. Forse bisogna viverci in inverno, in una città della Vecchia Europa, per amarla. Forse solo l’inverno ti dà quell’atmosfera drammatica che fa uscire il meglio dalle città europee, la loro personalità. Anche se qui a dicembre fa 15 gradi e le tenebre calano alle 6.


Che anche Amsterdam, vecchia passione impossibile mai guarita, d’estate era uno spettacolo, ma l’atmosfera dei bruin cafè veniva fuori col freddo, dopo essersi incollati le mani alla catena della bici cercando di legarla a un palo.


Ecco, di Amsterdam, la ex (città) alla quale ci si ispira ancora per giudicare le altre, qui ci sono i mattoni. Però i mattoni lassù erano marrone scuro, mentre qui sono arancioni. Così arancioni che al tramonto diventano fosforescenti. La stessa cosa, ma vista con due obiettivi diversi: l’austerità calvinista e il gaudio cattolico, appena velato di un pudore di facciata.


Mi capita di uscire nel tardo pomeriggio e trovare dalle parti della Daurade un’orchestra di ottoni che per strada suona solo canzoni degli Iron Maiden e dei System of a Down, oppure, più tardi in un caffè, un duo jazz con un rappista on the mike che butta giù due rime. Sono cose moderne, che si ti piacciono quelle tradizionali ti tocca come minimo andare a vedere una partita di rugby. Là, in curva, ci trovi la fanfara che suona motivi popolari.


Intanto io mi perdo ancora nelle strade in centro e un anziano col cappello mi chiede se posso raccontargli una storia di questa via. E io gli dico che è la prima volta che ci passo. Lui mi fa: straniero? Io per istinto , poi ci ripenso: certo, ma sempre meno.

* La prossima volta ci metto le mie, di foto. È che sto cacchio di smarfione pare faccia tutto lui, però poi non c'è manco verso di copiare foto sul computer. Abbia pazienza, signò.

3 commenti:

Hombre ha detto...

Ho sempre pensato che tu volessi dirci qualcosa coi tuoi neretti.
Ecco il tuo post, solo nelle parti enfatizzate. Ho aggiustato solo un par di virgole:
Alla fine ce l’ho fatta: colori più varie di quelle dei temi di Windows
che ora rischi di macchiarle.
Quell’atmosfera drammatica che fa uscire il meglio dalle città europee, la ex alla quale ci si ispira ancora per giudicare le altre, l’austerità calvinista e il gaudio cattolico.
Un’orchestra di ottoni che per strada suona solo canzoni degli Iron Maiden: certo, ma sempre meno.


I tuoi post, adesso, non saranno più gli stessi.

bastian contreras ha detto...

Niente messaggi satanici per carità. Il neretto lo applico alle parole che vorrei venissero lette con più enfasi, un po' come i corsivi di Guido Laremi in Due di due (che mica di solo David Foster Wallace vive l'uomo).
A volte l'enfasi non va sulle cose più importanti. Sarà che sono uno che divaga.

Aria ha detto...

Ma che bello.