sabato 19 novembre 2011

Katherine, NT

Alla fine mi sono convinto che “saccoapelisti” suona antiquato. Si dice “backpackers”, che con tutte quelle K suona giovane, dinamico e croccante. È che a me le K, le J, le Y e le X piacciono poco quando parlo italiano. Sul sito di Repubblica li chiamerebbero “il popolo del sacco a pelo” o “il popolo con lo zaino in spalla”, ma a questo punto mi arrendo e ricorro all’inglese.

Comunque a Katherine, Northern Territory, i backpacker li trovi al McDonald a succhiare internet gratis. In realtà la connessione non funziona mai, ma al Mcdò sono furbi e sanno che tanto la gente resta lo stesso e si connette pagando col modem a chiavetta, perché una volta che ti sei promesso un panino, la tua mente è in modalità panino e non ne esce senza violenza. E vale anche per i saccoapelisti, come me per dire, per quanto mi sforzi a non cedere.

A Katherine, “Birthplace of Cadel Evans”, non c’è niente. Neanche Cadel Evans, immagino, che per diventare campione del mondo di ciclismo non ti puoi mica allenare a 40 gradi, su strade piatte e dritte, popolate da camion con tre rimorchi e canguri, disponibili nella versione salterina e in quella spalmata su asfalto.

Quello che c’è da fare, a Katherine, è raccogliere manghi. Belli, buoni ed insidiosi, come tutta la flora e la fauna qui (sorvoliamo sul fatto che non sono endemici): quando li raccogli devi fare attenzione al sap, una linfa caustica, che se ti cade sul braccio ti scava un cratere. E anche se eviti il sap, solo toccando la frutta prima che venga lavata e trattata hai ottime possibilità di beccarti il rash, una reazione allergica che ti dipinge braccia e mani come la fronte di Gorbacioff.

Io però sono fuori pericolo, perché i manghi mi arrivano impilati su quelli che in noneso si chiamano pelez e in italiano non so. Il mio compito è legare le cassette sul pelez con quattro giri di nastro di plastica, sigillato a pressione con una staffa di metallo. Per chi lavora al negozio è solo roba fastidiosa da tagliare e buttare via. Nessuno immagina che ci sia un essere umano dietro a quel nastro di plastica nero, che ognuno dei quattro giri attorno alle cassette di cartone sia unico, con la sua storia e i suoi problemi. C’è quello che ho dovuto rifare perché il cavo si è sfrangiato, quello con due sigilli perché il primo è riuscito male, quello storto perché mentre lo facevo parlavo col ragazzo francese che mi aiuta. Ognuno di quei giri di nastro è unico e ha i suoi come-dove-quando, proprio come ognuno dei backpacker che lavorano con me ha una provenienza, una destinazione ed una modalità di trasporto, uno, più o nessun compagno di viaggio, una nazionalità e una mamma sua, che si chiama Luisa, Gudrun o Paulette, o Catherine, se sei fortunato come Lilù, così le puoi mandare la cartolina col suo nome, che è sempre cosa apprezzata.

1 commento:

Anonimo ha detto...

:)

A.