giovedì 31 dicembre 2009

Distanze

Non è che sia questione di essere originali o meno. Si fa semplicemente fatica a fare diverso. Ogni anno, a fine dicembre sale sta mania di tirare le somme e ogni dieci anni la mania becca il jackpot, o il géppot, come si definirebbe in questa sede di estremisti della bellalingua.
Ci pensavo in seggiovia verso la cima della Paganella, dove avrei visto la parte fallica del Garda, Trento, il collo dell’utero dell'Alto Adige e su fino alla parte alta della Val di Non, il tutto in 10 minuti, dall’alto. Ci sono tornato a Treviso, in aeroporto, mentre scontavo la terza di sette ore e mezza di ritardo. L’ho sognicchiato stamattina, nella fase postREM, sotto la nuova cornetta della doccia.
A questo, pensavo: a cosa facevo dieci anni fa. E il fatto è che è solo a forza di pensarci che dieci anni fa comincia a non sembrare ieri.
Dieci anni fa il secondo DVD della storia della mia vita era appena - ma comunque già - cominciato. Fuori sede, con sempre meno voglia di tornare alla sede- Abitavo a Meldola, un posto molto più in provincia del mio paese in Val di Non, ma pazienza, era esotico e ci era nato Zaccheroni, che un paio di mesi prima ci aveva portato lo scudetto più divertente degli ultimi vent’anni.
Preferivo il coinquilinaggio alla famiglia e mi ero pure trovato la morosa. La prima, ché non sono mai stato profeta in patria. Anzi, era lo scopo pricipale per il quale l’avevo lasciata, la Valle.
Il capodanno del duemila lo avevo passato a Rimini, nella stessa piazza dove lo aveva passato Piero Pelù, che era appena uscito dal gruppo. Pare ieri, non fosse che ascoltavo Emerson, Lake & Palmer e avevo quasi smesso di leggere libri.
Gli ultimi libri, me li ricordo, erano stati 1984 e The Lost Continent, il mio primo libro in inglese. Poi solo roba per l’università, tranne la sera, prima di andare a letto, L’America perduta, di Bill Bryson, che poi mi sarebbe venuto comodo nel secondo semestre. Gli ultimi dischi “In the Court of the Crimson King”, regalo per la nuova morosa, che se ci penso ancora rido, per quanto poco era azzeccato, “The Piper at the Gates of Dawn” e “Pablo Honey”, solo perché i Radiohead erano la colonna sonora dell’università e virtualmente sconosciuti nella mia verde valle, e mi ero appena copiato David Bowie e i Cure per lo stesso motivo. Tutto roba che poi ho ascoltato poco, tranne magari il pifferaio alle porte dell’alba e Paolo Mieli.
Pare ieri ed è quello il problema. Perché sono arrivato al punto da pensare che in fondo, dieci anni, cosa vuoi che siano. E poi ci penso ancora e mi viene in mente che fra altrettanti anni, quelli dalla mia nascita saranno quaranta. Anzi, peggio, se sottraggo gli anni che ho vissuto dal mio anno di nascita arrivo al 1950, e questo fa paura, perché 50 e 80 sembrano distanti anni luce, invece sono là, solo lo spazio della mia vita. Per dire, la distanza fra Volare e London Calling è la stessa che passa fra i Joy Division e gli Editors. Fra l’Uruguay che vince i mondiali (Pelè è un bambino, Puskas sta esordendo con l’Honved) e Zoff sono distanti quanto Paolo Rossi premondiale e Balotelli.
Sono cose che fanno pensare. A classifiche idiote, ma fanno pensare.

lunedì 28 dicembre 2009

Uno ogni tanto torna anche a casa

Uno una volta ogni tanto torna anche a casa. Anzi magari no, perché nel frattempo chiama casa quella per la quale paga l'affitto e comunque quella casa, quella dove non è che sia nato, ma ce lo hanno portato appena partorito dall'ospedale, i genitori l'hanno rivoltata da capo a piedi.
Per andare a casa vede l'Italia, o almeno il campione più o meno gratuito-vietata-la-vendita fra i due tre d'Italia, Treviso e Trento.

La prima cosa che uno nota sono le case italiane, case come quelle che ha trattato come archetipo di casa per la maggior parte della vita: niente mattoni marroni, ma intonaco giallo, giallognolo, giallino, rosso, rosato, grigio. La differenza è che stavolta sembra che tutti facciano a gara a dipingere le facciate in colori sempre più sgargianti. Uno si domanda: può il colore rosso bordò assumere tonalità sgargianti? Da oggi sa che la risposta può essere sì. Può il giallo asburgico sembrare un tuorlo nucleare? Da oggi sì. Deve essere un nuovo componente, un ingrediente Ics che trasforma i colori in pugni negli occhi.
Una su tre di queste case è dotata di Babbo Natale arrampicondo. Ma questa, signori miei, è un'altra storia.

Vicino a Treviso ci sono paesi con nomi stupendi. Talmente nord-est che quando li pronunci senti in bocca il sapore della pasta e fagioli del sudore delle fronti dei nostri avi. Lo senti nelle Z che scivolano, nelle vocali al termine del nome, che quando ci sono sanno di imitazione napoletana. Come quelli che dicono Trèvisan invece di Trevisàn. Non c'entra, ma rende.
Il migliore, di sti nomi, è Zero Branco.

Poi sono quasi sette mesi che uno non tornava a casa, che è un record ed è destinato a rimanerlo almeno per i prossimi sette mesi e si accorge, uno, che certe parole, ma solo certe, gli vengono in inglese. Tipo che al bar urta uno e gli fa "sciòwi", che è la corruzione della lingua imperialista che usano lassù per dire sorry. E poi parla al bar e invece dei soliti "cioè", gli viene da dire "like". Sempre quasi, mai davvero, ma sempre quanto basta per creare pause di pochi centesimi di secondo nelle quali l'interlocutore si chiede perché si è fermato a metà di una parola senza senso. Così quando uno ordina il secondo giro di birra, parla con calma e si concentra sull'evitare l'"asciubliff" a fine frase, che sostituisce con un "per favore" che fa tanto italiano nato all'estero.

Non per dire, ma quell'uno sarei poi io.

giovedì 24 dicembre 2009

Tanto lassù siete tutti crucchi

Quando all'università mi chiamavano "il Crucco", quando mi accusavano di non voler essere italiano e parlare tedesco, io, unico del mio corso che il tedesco non lo sapeva ancora, beh, forse comincio a credere che un po' di ragione magari ce l'avessero anche avuta.

Il fatto è che sono tornato a casa. A casa dei miei, perché quella dove sono nato e ho vissuto per 18 anni completi più dieci altri con cadenza saltuaria, è stata rivoltata e ricostruita e ora faccio fatica a chiamarla casa mia. Tutto questo nonostante mia madre ci tenga ogni volta a specificare che hanno tenuto la mia camera e anzi, me l'hanno fatta bella e accogliente nella speranza di rivedermi presto.
Hanno allargato la sala, in modo da strappare al bagno la vista sulle Dolomiti occidentali e su Castel T**n, ora in grande spolvero grazie all'apertura al pubblico e alla relativa promozione da parte di Mamma Provincia, e soprattutto, hanno piantato in mezzo al nuovo supersalone iperilluminato l'ultimo degli status symbol valligiani: el fornel a ole.

Non chiedetemi come si chiami in italiano, ma si tratta di uno di quegli enormi camini che si trovano nelle stube altoatesine, solitamente ricoperti di piastre di ceramica, tranne nel nostro caso, semplicemente imbiancato con spatolate di rosso tendente al magenta.
Il fatto è che, col fornel a ole in casa e il castello con le sue imposte rossobiancorosse che ci si specchia nelle vetrate dall'altra parte della valle, si respira un'aria vagamente tirolese. Per complicare la cosa, mia madre è stata a Bolzano/Pozen e ha comprato pane di segale e salamini secchi piccanti. Tutto questo detto, anzi, scritto, mentre con una mano inforco la crosta dello strudel di mia madre. Forse che noi autonomisti buoni ci stiamo adeguando ai nostri cugini cattivi e reietti?

Ma non è del Suttirolo che volevo parlare, perché quello lo faccio già abbastanza quando incontro qualcuno che mi accusa di appartenere alla loro genia, mentre io sono nato sull'altro versante della montagna, a ben venti chilometri dalle terre germaniche. Volevo parlare delle coordinate di tirolesità del Natale scorso, in attesa di quello nuovo. Del ritrovo alla casa nuova di mio cugino, riscaldata da venti fiati con cromosomi simili e - in percentuale maggiore - dal prodotto più recente della tennologia autonomista cattiva.

Il fornel a ole di mio cugino è rivestito di ceramica, con inserti di conchiglie spezzate, a mo' di finti fossili. Per un intero pomeriggio si era parlato unicamente del nuovo status symbol, di chi ne aveva uno in cantiere come noi, o come il fratello della moglie del suddetto cugino, chi già lo aveva o chi ne progettava l'installazione. Mentre le generazioni più giovani donavano natiche ancora fresche alla ceramica riscaldata, godendo impanciollati del nuovo beniamino di mamma e papà. Nessuno era indifferente di fronte al fornel a ole. Scendendo in cantina e studiando il sistema di alimentazione automatica a legna avevamo scoperto i suoi segreti e si leggeva massima concupiscenza negli occhi di parenti di nascita e acquisiti non ancora dotati dello scaldaceramica d'ordinanza.

E mi sono immaginato una famiglia dell'Italia non autonomista, dove il desiderio non spinge sulle vie del tepore, dove a Natale magari ci sono 10 gradi e al pranzo si parla di calcio.

Ora qui non è che ci sia da aspettarsi una conclusione tipo "meglio qua" o "meglio là". Non è questione di meglio o peggio, è che per un attimo ho pensato che magari ha ragione chi ci accusa. Crucchi siamo e crucchi restiamo. Nulla da fare. Ma non siamo mica cattivi, eh! E non parliamo mica tedesco. E poi col cavolo che vogliamo passare all'Austria e perdere mondiali di calcio e interesse da parte delle ragazze straniere.

Non scherzo mica. Il mio amico Tobias, di Innsbruck, mi ha detto che là, all'università, è pieno di altoatesini che parlano fra di loro un italiano pesantemente accentato e giocano a fare gl'italiani per compiacere le pulzelle.

lunedì 21 dicembre 2009

Omelia del mese: robe che hanno significati

Qualcuno ha ciuffato la scritta di Auschwitz.
Chi, non si sa. E non a molti frega più di tanto di saperlo.
Per fortuna, perché chiunque lo abbia fatto non ha capito una cosa. Non ha capito che il tanto vituperato mondo moderno ha almeno un pregio: che dei simboli e degli atti simbolici, almeno quelli non inerenti modelle che si spogliano in favore o contro qualcosa, non gliene frega più una mazza a nessuno.

"Schiaffo alla comunità ebraica", titola la Repubblica. Ora, per chi ha avuto i nonni internati in un campo di concentramento, o come minimo espropriati, deportati o emigrati, più che uno schiaffo questo è un buffetto.
Neonazi? Macchè. Immaginateli chiusi in una cantina per mesi a studiare il piano, mentre i coetanei frequentavano discoteche per praticare nuove forme di sessualità. Immaginateli chiusi in una cantina fra salami affumicati di sigaretta, pensando seriamente a come entrare nel campo di concentramento. Immaginateli arrancare fra la neve, non come i nonni a Stalingrado, ma come una setta di nerdi, tutto questo mentre i coetanei si scambiavano umori in pista da ballo. Immaginateli che entrano, segano la scritta, la portano a casa, bevono un Montenegro, sentendosi uomini veri proprio come quelli della repubblica ex yugoslava.
E perché? Per dimostrare cosa? Dubito che i coetanei intenti a scoprire nuove pratiche amatorie ne abbiano tratto alcuna lezione.
E tutto questo per niente. Perché obiettivamente, cosa cambia al mondo senza la scritta di Auschwitz? Al massimo un artigiano incaricato di costruirne una fac simile non perde il lavoro grazie a questo incarico. Speriamo un immigrato.

Gli atti simbolici servono per parlarne, ma solo in termini di battute o discorsi che non hanno termine e non portano nulla di nuovo. Oggidì, di cose ne succedono ogni secondo. Parlo di cose concrete, tipo risultati di partite di calcio, sfratti al grande fratello, celebrità che divorziano, politici che fondano pocketpartiti. Per le cose simboliche, quelle valide solo sul piano discorsivo, che non hanno conseguenze pratiche, non ha più tempo nessuno.

Tranne in Italia, dove l'alto grado di socialità della gente li costringe a trovare argomenti di discussione sempre nuovi. In pratica in Italia il dialogo ha assunto il ruolo di azione. In Italia si parla ancora di simboli. E le guglie del Duomo di Milano ne sono piene.

martedì 15 dicembre 2009

Altri colori

Non c’è modo migliore per impressionare la nuova quinquilina di raccontarle della prima volta che ho visto un nero.
Lei viene dal ventre di Parigi. Non quello di Zolà, ma quello ingrassato di periferie adipose del giorno d’oggi, quelle maniglie d’amour e quelle trippe extraurbane dove ogni tanto danno fuoco a una Pegiò o una Renò. Poi non credo che la sua area sia così, ma a me, se mi dici che vieni dalla periferia di Parigi mi viene in mente quello, che ce voi fa’, I’m a valley boy, come ormai amici e colleghi ben sanno.

Lei è rimasta colpita da sta storia del nero, nel fine settimana in cui è tornata a casa sua dice di averla raccontata un po’ a tutti. Una storia nònesa, nel ventre di Parigi.
La prima volta che ho visto un nero, “negro” era il termine accettabile, perché veniva dal latino, mentre “nero” era sprezzante, basato sulla grigia fattualità del colore. Poi gli americani hanno deciso che “negro” non si dice e noi il latino abbiamo dovuto lasciarlo soccombere sotto i morsi a bocca piena dell’inglese. A dire il vero non dicevamo né “nero”, né “negro”, ma “marocchino”, per qualsiasi africano e parecchi arabi, perché il mio dialetto si ferma a o’ magreB (in arabo il senso di lettura va invertito) e si vanta di essere impreciso. “Marochìn” è tutt’ora il termine che tutti usano dalle mie parti, ed è imprecisione, non razzismo.

A Lilù, che poi questo non è che sia il suo nome, è che di Orelì già ne conosco n’altra, le ho raccontato di quel marocchino che era passato col borsone a vendere calzetti e asciugamani e io ero andato in sollucchero e visibilio quando dalla valigia era emersa la sua sveglia personale adibita ad uso privato, verde ospedale, con un gallo che si muoveva al ritmo dei secondi. Siccome sono stato un precursore dei bimbi viziati che girano oggidì, mi ero impuntato e la mia brava mamma moderna me l’aveva comprata per qualche liradiddio.

Quello era stato forse il primo degli africani che passavano di porta in porta a convincerci a comprare i calzetti. Sapevo che esisteva gente nera per via di libri e tivvù, ma non mi sarei mai immaginato di trovarmela là, sulla porta di casa, con sta specie di cerone scuro in faccia. Perché è anche lecito chiederselo, cosa ci fa uno che viene da Yaoundè o da Dodoma a D***o, Tennessee. Guarda, ha perfino il colore che gli sfuma sui palmi della mano. Sembra viola, perché non li chiamano “viola”, invece che “negri”?
Comunque mi sa che sti ragazzi dopo un po’ avevano la cartina, delle case del vicinato e di tutte le donne a casa sole, che bene o male due monete le cacciavano.

Le ho raccontato sta cosa di cui mi sono accorto solo lo scorso maggio, la mia ultima visita nella metropoli alpina che chiamiamo Trento. Le ho raccontato che ogni volta che vedevo un povero nero giravo al largo, perché ancora oggi sai che probabilmente ti chiederà un paio di euri buttati là male. Sospetto spesso fondato, purtroppo. Magari a me no, ché c'ho la faccia da studente e quindi alleato, ma quando giro col padre, la richiesta parte fissa.

Ed è anche un peccato però. Ma che ci vuoi fare, è un pasaggio obbligato per una città adolescente. Gli immigrati che tastano il terreno, cominciano a trovare lavoro in fabbrica, poi in centro, mandano i figli a scuola, che crescono, diventano italiani uguali ai compagni italiani, solo con la pelle e magari gli occhi e i capelli di colore diverso, giocano nel Trento e se hanno culo in nazionale. Tac. Lassù dove abita Lilù a quel punto ci sono già arrivati, ci hanno già vinto i mondiali. Da noi boh.

Boh l’integrazione. Al centro sociale Bruno ho parlato con un ragazzo del Sudan, uno studiato, aveva già letto qualsiasi cosa. Si parlava di libri, non è che fosse tanto amichevole, ma si parlava bene. Poi abbiamo attaccato discorso con la cantante, che era una tipa da Gnuiorca, lui mi ha sentito parlare inglese e mi è saltato addosso “grande, idolo, parli inglese? Non sapevo che i trentini parlassero inglese. Ma sei sicuro che sei trentino?” Questo per dire che integrazione vuol dire anche non vedere nell’autoctono il male.

L’integrazione si impara anche con lo shock, che ai tempo si scriveva choc, ma poi anche la lingua franca è dovuta soccombere agli stessi morsi a bocca piena che hanno dissanguato il latino. La prima nera del mio paese era una ragazza indiana, adottata alla nascita da una coppia nostrana. La sua classe dell’asilo era venuta a trovare la nostra quinta elementare perché ci avrebbero sostituiti l’anno successivo. La maestra aveva regalato un pennarello colorato ad ognuno di loro. Lei era l’ultima della fila e le era toccato il marrone. “Per forza”, ero saltato su io, con quella brillantezza nel dire candidamente la cosa sbagliata al momento giusto che non mi ha mai lasciato, “è marrone”. A me pareva un dato di fatto e quello che mi interessava era la coincidenza, non il colore, figurarsi, io biondo in una classe di mori e castani. Lo sapevo bene io, cosa volesse dire avere addosso un colore diverso. Niente, non voleva dire, per me.
Era partito un boato, con i compagni solidali fra loro a negarmi la parola almeno per le prossime due ore. Le maestre non sapevano cosa fare ed erano partite con un’invettiva sul razzismo, una parola che si cominciava a sentire in giro, ai tempi di Mandela, ma della quale non conoscevo il significato, un po’ come “omosessuale”, accusa che andava di moda lanciarsi contro a ricreazione, pur non avendo idea né di sessuale, né tantomeno di omo.

Quel giorno comunque avevo capito il significato di razzismo: che era meglio tacere. Avevo imparato a tacere la razza, le malattie, le bocciature e i dati di fatto imbarazzanti in generale. Perché essere neri fosse imbarazzante, probabilmente non lo avevo capito. Forse la mia coetanea Lilù già lo sapeva.

sabato 12 dicembre 2009

Politica


Questo mese, lo ammetto, non ci sono stato molto, fra queste righe.
A parte il fatto che sto lavorando ad un paio di altre cosette poco utili e ho una serie di nuove attività, ho iniziato decine di articoli, che alla fine risultavano tutti impubblicabili. Le cose di cui mi va di parlare, al momento, preferisco tenerle fuori onda.

Comunque il denominatore comune dell’ultimo paio di mesi sembra essere la politica, soprattutto quella estrerma, ma non solo. Di quello si può parlarne, anzi, lo fa praticamente chiunque. Perché non io?

C’è stato l’anniversario della caduta del Buro di Merlino. Su quell’ISTAT di dimensioni globali che è Facebook, evento commentato da praticamente tutti i miei conoscenti italiani dotati di titolo di studio superiore (io incluso) e nessuno-ma-proprio-nessuno dei miei contatti tedeschi. Ogni paese ha un suo Sud e la Germania occidentale se ne era già costruito uno fra le industrie del Lungoreno. Uno nuovo non serviva mica.

C’è stato il giorno del noncompleanno di Berlusconi. Una politica anarchica, senza fazioni, con chi in teoria dovrebbe votare il Piddì che ci andava nonostante la direzione centrale suggerisse il contrario. Un misto fra la cultura del dire sempre di NO, quella dell’Okkupazzione e la nuova coscienza politica nascente, indipendente da chiunque sieda in parlamento, soprattutto dai tristi uomini soli che litigano a chi fa più SX. I giornali mettevano lo Psicogrillo a capo dell’antipolitica, ma per fortuna ultimamente sembra essere sparito. Forse ora il personaggio che rappresenta queste posizioni apartitiche è Saviano, che secondo me farebbe meglio a tenersene fuori. Dal momento in cui uno entra in politica, smette di essere inattaccabile. E la lotta alla mafia ha bisogno di gente inattaccabile. Non serve che ci dica che fermare i processi è male. Lo sappiamo già, solo che se tifiamo a DX cerchiamo di convincerci che non è così. ‘serve a un cazzo raccogliere firme su Repubblica.

C’è stata tutta sta musica che mi capita di leggere e ascoltare, a caso, senza finalità precise. Woody Guthrie con la chitarra con scritto che è una macchina per uccidere fascisti. Ma correvano gli anni '30 e la cosa era giustificata, molto più giustificata della vecchia canzone dei 99 Posse che c’hanno sto “bernoccolo antifascista, se vedo un punto nero ci sparo a vista”. A parte il fatto che la dermatologia conosce ben altre soluzioni, ma, come è già stato ripetuto in questa sede, se l’alternativa al fascio è “senti come picchia il compagno”, allora annamobbene.
C’è anche Bobbo, che anche lui è sempre stato uno da dire senza fare, ma almeno lui dopo un po’ se ne è tirato fuori e ha cominciato a cantare d’amore come tutti i cantanti degni di rispetto come Baglioni, Nick Cave e Apicella.

Che poi uno si chiede anche cos’è che bisognerebbe “fare” in politica. Ed è qui che ti voglio. Al momento l’unica risposta che ho è “qualcosa di nuovo e divertente”. Non che qualcuno mi abbia fatto la domanda, ma in questo mondo di blogghi uno le domande se le deve fare, perché gli interlocutori stanno già leggendo un altro blogghe migliore, o scrivono nel loro.
Comunque, quello che bisognerebbe fare sono diverse cose, ma non urla, discorsi, raccolte di firme e manifestazioni. E niente nuovi tormentoni su Berlusconi, che ormai leggo compiacimento negli occhi di chi li cita.

domenica 6 dicembre 2009

Niente compleanni in piazza Dam


In inglese, “No B. Day” significa “Questo non è un compleanno”.
Era il testo di un lungo striscione viola che campeggiava incorniciato da un paio di bandiere italiane nella parte tranquilla e reclusa del Dam di Amsterdam, quella verso le puttane e le fumerie.

E all’inizio, i passanti, invece di pensare “che bel fior”, come gli suggeriva cantando l’assembramento di capelli scuri e giacche a tinta sobria dietro lo striscione viola, si saranno probabilmente chiesti cosa stava succedendo. Forse un centenario della Fiorentina troppo triste per essere celebrato? Poi anche i partecipanti, fino ad allora timidi e impacciati ad osservarsi a vicenda, si sono resi conto di essere loro stessi i manifestanti e con italico ingegno hanno costruito cartelli e manifesti improvvisati, sul posto.
Forse qualche turista si sarà chiesto “who the hell is papi?”, ma poi qualcuno ha pensato bene di risolvere la situazione d’impasse con un’equazione universalmente comprensibile: “Berlusconi = Mafia”. La manifestazione ha preso corpo così, all'italiana, partendo dal caos e organizzandosi via via in maniera creativa, con la gente che si aggiungeva via via che l’iniziativa prendeva corpo.

Io sono uno scettico. Non su Berlusconi, ma sulle modalità della protesta. In principio credo nelle manifestazioni, ma solo se in quantità limitata per non svilirne il valore. Se si manifesta tutte le settimane, per il piacere di farlo, per autocompiacimento, i poteri forti cominciano a fregarsene, perché sanno che qualsiasi cosa si faccia, ci sarà una comunque manifestazione. Ma questa manifestazione poteva essere ascrivibile alle poche degne di essere celebrate. Non fosse magari per il nome, che assegna al presidente del consiglio dei ministri il ruolo di B per eccellenza, come se non esistessero Bossi, Bersani, Baresi F. e G., Boranga, Baglioni, Bugo, Baudo, Braccobaldo, Bonomelli e Bormioli Rocco. Non fosse per il manifesto dai toni superficiali (lo so che non sembra, ma l'Italia non è uno dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi economica).

Poi ho deciso che ci sarei andato come osservatore, per carpire il lato sociologico della manifestazione.

E gli spunti sociologici sono stati variegati. Il capopopolo (definizione sua, che alla fine è venuto, anche se solo alla fine) che dà il via alle danze arrampicandosi su una cassetta di plastica di birra Bavaria gridando “Hey, Antiberlushconi!” e incitandoci a recitare poesie, come se la fantasia non fosse già al potere.

“Stefano Cucchi, se era vivo, magari era qui”, detto da un gruppo di turisti intenti a rollarsi una canna, preoccupandosi di essere notati nell’atto apotropaico. “Mettessero in prigione i politici, non quelli che si fanno le canne”.

La competizione fra altri capopopolo dotati di barba e capelli meno istrionici. Uno fa del raziocinio la sua bandiera e dalla cima della scalinata del monumento fallico, cerca di intavolare una discussione seria sugli stipendi dei parlamentari.

La bandiera della pace, che qui è il simbolo degli omosessuali e non tanto della pace.

La bambina di cinque anni vestita di rosa, presa d’assalto da stormi di gabbiani fotografici appena comincia a giocare con un volantino con scritto “No Berlusconi”. Più tardi la ritroverò ai margini dell’assembramento, mentre gioca con uno di quei serpentoni di peluche che servono a bloccare gli spifferi che entano da sotto le porte, un serpentone con la testa di porcellino e la scritta “Berlusconi fuck off!!!” sul dorso rosa.

Il cartello “Antibodies against the Berlusconi virus” e il ragazzo che gira a distribuire “Andibboddis against Berlusconi” di stoffa viola fra il giubilo degli astanti.

E nonostante tutto un’atmosfera pacata e positiva, nonostante i molti NO. Nessuna bandiera rossa, che un olandese o un turista americano o russo potrebbe interpretare in modo diverso rispetto ad un italiano, molti elettori del Piddì, che non solo aveva disapprovato la manifestazione, ma veniva denigrato nel suo stesso manifesto. Segno dell’evidenza scontata che la stanchezza non ha affiliazione politica.

Si sente occasionalmente “Bella ciao”, in versioni timide e a mezz’asta. Qualcuno che deve aver fatto il Sessantotto grida, che il popolo unito giammai sarà vencido, ma è un coro solitario, che non trova molto supporto.

Non si notano stranieri, perché non è che vai a casa di altri a protestare contro il capofamiglia, no? In realtà sui gruppi in rete gli stranieri sono tanti, ad incoraggiare senza osare prendere parte.

E alla fine per qualche attimo viene anche da pensare a Berlusconi, che come premio ha avuto un’altra giornata interamente dedicata a lui. Nel metro di giudizio attuale non conta se quei quindici minuti sono di gloria o di infamia.
E pensi a Berlusconi visto dall’estero, a come parlare male di lui sia stato spesso un ottimo modo per intavolare un discorso con gli stranieri, anche se uso il passato, perché ormai un senso di pudore ti impedisce di farlo. A come una volta, diversi anni fa, in uno degli ultimi giorni a Colonia, un’accesa lettura su di lui ti abbia aiutato a finire sotto le coperte di P., avvenente giornalista locale e a come, ogni volta che il Presidente ti ha fatto perdere la ragione, tu abbia cercato di mitigare la rabbia pensando a lei. Ma quello era solo un risarcimento per le conseguenze che poche settimane prima avevi patito come italiano in Germania, dopo la famosa frase sui kapò nazisti. Il professore di linguistica che entra in classe con una copia dello Spiegel con Lui in copertina, in tenuta da mafioso, lo sguardo canzonatorio dei tedeschi, che non si capacitano di come un paese possa votare un uomo solo perché è divertente, loro che per l’intrattenimento sono dotati di strutture apposite.

Dopotutto, Berlusconi è un prodotto tipico italiano, come la pasta e il mandolino. Mi sono reso conto di quanti lo sostengano solo perché all’estero fa parlare di noi. Perché in Italia, già dai tempi degli oratores romani, il piano retorico conta più di quello reale.

lunedì 30 novembre 2009

Un'altra manciata di stereotipi e generalizzazioni

Mi vedo il 9 sfilare davanti. Di solito da quel punto basta accelerare il passo, fare una corsetta da jogging leggero. Il tram prende tempo per fermarsi e sparar fuori gli sportelli, così basta focalizzare l'attenzione sul pulsante per tenere la porta aperta e terminare lo scatto con un salto con poca elevazione, per atterrare davanti all’obliteratrice elettronica.
Stavolta però il tram non si ferma, perché la seconda fermata della linea, quando non c’è nessuno ad aspettare, la si può anche ignorare.
La scena è quella biblica del “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, alzo lo sguardo al cielo, allargo le braccia a mezzaluna sdraiata, quasi cado sulle ginocchia, proferendo ingiurie contro un’incolpevole cantante americana.
Tutto questo anche se il prossimo tram passerà fra dieci minuti. Si sa, incazzarsi è gratis e chi è tirchio come me non può perdere l’occasione..
È qui che si ferma una berlina grigia, un fedele appena entrato nel secondo tempo della vita apre la portiera e mi fa, nella sua lingua piena di graffi, “Monta su, profeta. Nel Nomediddio ti condurrò in salvo, se non a Damasco, almeno alla prossima fermata”.
Iddio e sua madre la cantante americana mi consentono di sconfiggere Babele. Non quella dei rasta, ma quella della torre, scambio due termini ritriti con questa versione norrena del buon salernitano nella sua lingua e la mia giornata è fatta, più felice, in quanto illuminata dall’umana caritas.


L’italiano, quando parla del nordico, pensa ad un individualista serio e noioso, che si fa un mazzo tanto al lavoro per poi tornare a casa sotto la pioggia a mangiare una cena di merda. Il nordico non ha vita sociale, è stressato, non si gode la vita.
Magari lo pensa dopo aver lavorato fino alle 8 di sera, ma questo è quasi un altro discorso.

In realtà l’olandese è “gezellig”, una parola difficile da tradurre, che invero a forza di sentirla comincia a smazzolare non di poco in zona inguinale, che contiene in sé la radice del termine “sociale” e indica fra l’altro la sensazione che si prova in una serata tranquilla fra amici, seduti attorno a un tavolo con una luce gialla calda e un vinello rosso. In pratica significa “divertirsi in modo socievole”.

Un altro termine abusato quassù è “asociaal”. Che ha una valenza diversa da “asociale”, perché non indica una persona solitaria, ma un egoista che non si attiene alle regole della società.

Ora, in Italia e non solo, la pecora nera è un eroe romantico. Anche qui, con la differenza che da ste parti anche un Cassano o un Ceghevara si atterrebbero alle regole della società. La pecora nera ha un ruolo nella società, quello di sputarti in un occhio per tenerti sveglio. Lo sputo avviene in termini metaforici e finisce che non ti incazzi per l’umidità fra le orbite, ma lo ringrazi comunque perché ti tiene sveglio.

Il barbone che ti dice “grazie lo stesso” dopo che gli hai negato il pane quotidiano non è meno duro e puro del pancabbestia che sa che quando gli morirà il cane suo padre gliene comprerà un altro, di quelli rugosi, allevati ad arte per essere brutti, che chissà quanto costano.

Finisce che la gente è meglio disposta verso il prossimo, si fida.

Sabato scorso tornavo a casa in bicicletta, tardi di notte. Pochi metri davanti a me c’era una ragazza mai vista prima, che svolta nell’apertura stretta fra le siepi che porta all'ingresso del mio stabile. È un posto ideale per un agguato o uno stupro, tra l’altro non certo nella zona più sicura della città. Per questo vorrei tenermi a distanza per non spaventarla, ma sono già troppo vicino e non riesco a farlo senza sembrare ancora più sospetto. La ragazza è intrappolata fra la porta d’ingresso chiusa a chiave e la mia bicicletta, si gira, mi guarda e, senza il minimo timore, mi saluta col sorriso sulle labbra.

Non perché qui sia più sicuro che in Italia (non c’è neanche il poliziotto di quartiere!), piuttosto perché si sa che le possibilità che dietro di te ci sia uno stupratore, probabilmente le stesse riscontrabili in Italia, sono troppo basse per rovinarsi la salute.

Un anno fa, sul treno per Nimega. Ad Arnhem, notizia d’emergenza, agite con urgenza. Un fulmine è caduto sulla linea e tutti i treni sono cancellati. I mezzi sostitutivi sono poche corriere scalcinate, proprio come in Italia. I passeggeri vengono evacuati come tanti profughi eleganti, raccolti in un piazzale, ad aspettare qualsiasi opzione dotata di ruote.
Il capostazione ci tiene d’occhio, a volte qualcuno gli chiede notizie sull’accaduto o sulle alternative, ma nessuno si lamenta dell’incapacità di queste ferrovie che sanno solo farti pagare cifre esorbitanti per portarti qua e là su treni da terzo mondo, obiezione peraltro inconfutabile.
Alla fine l’ammassamento di profughi si risolve in un allegro CPT dove si può attaccare discorso con gli sconosciuti anche senza lamentarsi dell’inefficienza di governo e ferrovie.


È la tranquillità, che si sente qui. Qualcuno dice che è perché sono ricchi, altri che è perché fanno yoga. Io dico che è perché tanti sanno rinunciare all’imposizione coatta di se stessi per venire inncontro agli altri. Una mia amica la chiamava empatia.

venerdì 27 novembre 2009

Mai dire mai

“Mai” non si può dire mai. Lo dimostra il fatto che “mai” si può dire. Si può dire ad esempio che nessuno sia mai vissuto millanni. Il fatto che “mai” si possa dire dimostra che non si può mai dire “mai”.

In pratica nulla ha mai valore universale, nulla non accade mai. E perché questo sia vero è necessario che il “mai” non abbia valore universale, che non si verifichi che esso non accada mai.

E tu mi puoi dire che non è vero che nessuno sia mai vissuto millanni. Gesù per esempio, o Gimmorrisson o Carcobein, volendo trovare il pelo nell’uovo, vivono in chi li ricorda. E questo dimostra che è vero che il “mai” è relativo e non si può dire mai, ma anche che non è vero che non si può mai dire “mai”.

C’è questa scena nel libro che leggo.
Sono in guerra, lei va all’obitorio a trovare l’anziano padrone di casa morto di un colpo in testa. E va bene così, è il quadrarsi del cerchio della vita. Poi di fianco a lui vede un bambino, blu come quelli delle chiese. E per lui invece soffre davvero. La sera suo marito torna a casa, anche lui è stato all’obitorio. Sulla soglia calpesta una lumaca, gli dispiace, dice che ormai, in guerra, gli dispiace per tutto.
Poi lei gli chiede se ha visto il bambino. “Quale bambino?” fa lui e si compiace di cazzate, della sigaretta che ha messo nel taschino dell’anziano padrone di casa, per il suo ultimo viaggio, come le rockstar o le rostelle. Si sente bello e maledetto.
E uno capisce che “tutto” non si dice mai, proprio come “mai”, che non è mai corretto.

Poco prima pensavo che un paio di cose ultimamente mi hanno reso immune. Immune a diverse cose, salvo, sterile, ibernato, protetto da tutto.

È stato là, leggendo ste paio di pagine di sto libro che mi piaciucchia sì e no, che ho capito che non si può mai dire “tutto” o “mai”. E sono stato felice, di non essere protetto.

lunedì 16 novembre 2009

Colori

Oggi mi sono sentito moderno. In bicicletta, di ritorno da Ouderkerk, il mio momento di contemplazione.
Mi hanno attratto le strisce di luce dei lampioni riflessi sull’Amstel. Giallo arancio su blu notturno, ho pensato al simbolo della IP.
Poi la pista ciclabile color vino, separata dal prato ancora verde da due cordoli bianchi sottili. Come la maglia della Fluminense.
I colori, ormai, hanno tutti una marca.

domenica 15 novembre 2009

Stimoli

Ad Amsterdam gli stimoli sono tutti di tipo visivo.
Cinema d’essai, musei, gallerie d’arte del Jordaan, le mostre del FOAM e quelle case dalla linea curata, con finestroni che si prendono tutto lo spazio possibile per non perdersi le belle cose che succedono all’esterno. Le cattedrali di mattoni e i barconi abitabili col praticello sul tetto, le insegne Art Decò dei buurtcafè e i parchi di aceri e olmi.
Stimoli solo visivi, sarà anche per questo che qui sono tutti fotografi.
Odori non se ne sentono. Non nei mercati postcoloniali, né sui binari della stazione. Neanche l’acqua dei canali ha odore, nonostante basti vederne il colore in fotografia per suscitare l’istinto di tapparsi il naso.
I rumori sono pochi ed è comunque consigliabile evitarli. La lingua olandese non piace neanche a chi la parla, vittima di R troppo croccanti e lunghe S scivolose. La musica che si sente in giro poi è fatta per essere ballata, preferibilmente in stato di estasi indotta, mai per essere ascoltata.
Amsterdam è una città bella.
Pensandoci bene ci sarebbe un altro senso che qui non viene completamente schifato, il gusto. Centro e sobborghi sono pieni di ristoranti e mangerie, fuoco dell’espressività delle decine di etnie e nazionalità del mia personale Venezia del Nord.
Non ci ho mai fatto caso, perso sempre nel mio mondo visivo, ma comincio a realizzarlo ora che frequento gente che parla spesso e volentieri di cibo.
E poi ho deciso che la prossima riceverà credito aggiuntivo se saprà cucinare bene.
Mi sa che sto diventando adulto.

lunedì 9 novembre 2009

Noi, i ragazzi del muretto di Berlino

Il Muro di Berlino non è che sia caduto così, una mattina senti un rumore, ti giri e patratrac. No, prima si è incrinato per settimane, roba che non serviva essere il tipo della perizia abitativa col martelletto per dire che sarebbe venuto giù.

Infatti non c’è voluto l’esplosivo, ma il cucchiaino del te. È questo che mi ricordo io, che avevo appena compiuto 9 anni, quelli che scavavano col cucchiaino. E chiedevo a mia mamma quanto ci sarebbe voluto a forza di cucchiaiate ad abbatterlo, sto muro. E mia mamma non sapeva rispondere, ma la pratica ha dimostrato che una settimana poteva anche bastare.

Io avevo appunto 9 anni e la cosa mi aveva colpito, ma era un pezzo che le cose avevano cominciato a colpirmi. Credo che tutto fosse iniziato in Romania, con Ceausescu, ste storie con il figlio che aveva fatto strappare (anzi, per un novenne "aveva strappato") le unghie della Comaneci ad una ad una perché lei non gli voleva bene. Le bandiere con il buco dove prima c'era la sua brava aquila socialista. C'erano ste parole scivolose che giravano, "perestroica","glasnost", la più scivolosa di tutte era “Solidarnosc”, sta scritta rossa fatta a mano, simpatica, come i titoli delle storie a fumetti, con sto Walesa che a volte chiamavano anche Vauenscia che gli volevano bene un po’ tutti. Io ci ho messo un po’ a separare il concetto di Walesa da quello di Wojtila. Forse è successo solo quando ho scoperto che il primo aveva i baffoni pelosi e si vestiva meglio.

E c’era stato Tienanmen. Sti ragazzi che "ma sono scemi?" tentavano di fermare i carri armati a forza di braccia. Io provavo a fare lo stesso con la Passat rossa nuova, ma non ce la facevo. Figurarsi i carri armati, è una battaglia persa. Così non mi ero stupito che loro, la loro battaglia, l’avessero persa.

L’unica battaglia persa, perché tutti gli altri avevano vinto.
E sembrava ovvio che avessero vinto, perché avevano ragione loro. Non eravamo ottimisti, non eravamo idealisti. Finiamola con sti discorsi nostalgici sugli anni ’80. Diciamo piuttosto che davamo molte cose per scontate.

Per colpa di questi eventi, questi cambiamenti, ho presunto per anni che la giustizia alla fine trionfasse davvero.

Ho sempre pensato che chi ha avuto un’infanzia troppo facile poi ci si rintani e rinunci ad evolvere, rimanendo indietro un po’ come il figo delle medie, che è ancora fermo alle medie, o quello al liceo, che ora è sempre intento a organizzare cene di classe.

Così chi ha passato troppo tempo al sole poi sente dieci volte tanto le randellate sulla pelle scottata. Rimarremo indietro, noi che gli ideali li davamo per scontati e cerchiamo, per rinverdire i fasti, Berlino a Genova, Baghdad, Kabul, Teheran, L’Avana, Gaza. Avanzeranno i giovani d'oggi, per sfuggire al cecchinaggio del nostro sputtanamento, si fermeranno di nuovo i loro figli e proseguiranno i nipoti.

Anche il tempo, come la vita, non andrebbe preso sul serio.

mercoledì 28 ottobre 2009

Soloalbum

Quando mi è giunta comunicazione che stavo per essere piantato, mi attendevo qualcosa di diverso per il periodo a venire. Ho pensato “minchia, ora per un paio di mesi mi ciuccio la depressione con i suoi begli annessi e connessi”.
Invece no. Non è che la cosa sia allegra. La depressione c’è. Magari “depressione” non è un termine esatto, meglio malinconia, la stessa cosa che ti fa ascoltare, che ne so, “Impressioni di settembre” e invece di buttarti giù ti senti meglio.
Ci si sente soli, ma è più una cosa tipo “soli contro il mondo”, quasi eroica, ahimè l’odiata parola. Una cosa stile “belli e maledetti”, non fosse che qualche capello perso e un’infanzia spensierata mi impediscono di essere entrambi.

Ma la cosa migliore è che ti puoi ritrovare in qualsiasi canzone triste e malinconica. “Impressioni di settembre”, si diceva. Ebbene, è successo di settembre (ma qui è solo culo).
Diciamo De André, che per l’occasione è diventato un ascolto ossessivo, “Verranno a chiederci del nostro amore” e “La canzone dell’amore perduto”. Ascoltate nel contesto giusto hanno una potenza di fuoco più che triplicata.

E così ora, che cerco di tenermi attivo, pedalo fra i 60 e i 90 minuti al giorno, da casa al lavoro, dal lavoro al centro e poi di nuovo a casa, e la parte migliore non è quella in cui conosci le tipe, che tanto quando cominci a sperarci tirano sempre fuori il ragazzo, che dai, ammettiamolo, se hai almeno 25 anni, un po’ di cervello e un aspetto decente lo devi avere per forza, il ragazzo, però potevi dirmelo anche prima. La parte più bella non è quella, ma quando torni di notte e ti ascolti la plailista sulla protesi musicale in sella alla bici nuova, che è costata un matrimonio, ma fila che vengono quasi le lacrime.

Ecco, forse sono diventato un solitario. E per l’occasione vado di là a schiaffare sulla plailista “The Loner”.

martedì 20 ottobre 2009

Babiblù

Quando le foglie s’ingiallano, capita spesso che le cose cambino.

Cambia che fuori diiventa freddo e tu mi dici “ma è ovvio” e io ti dico “ti pare poco?”, cambia completamente la disposizione mentale, il palinsesto RAI, i primi allenatori sulle panche delle provinciali, il fatto che la morosa mi ha mollato dopo cinque anni e passa, ma soprattutto cambia la musica.

Ieri sera ho piantato la protesi musicale nel calcolatore, ci tengo a specificare un PC, perché i Mac sono robe da fighetti dell’alternativo, da gente che compra la roba da bigiotteria perché fa la sua porca figura, ho fatto tavola ragia della musica che ascoltavo st’estate e ho messo la roba autunnale.

Fuori l’allegria, dentro malinconia, accordi in minore, testi importanti. E sono sempre i soliti nomi, con una squadra che di anno in anno si consolida.

C’è il vecchio Bobbo, che forse stavolta magari aggiungo un altro paio di dischi ai soliti tre, che non è che lo ammiri poi più di tanto, però capita che in qualsiasi cosa decida di fare ci sia dentro un pezzo di lui, così ho deciso che quest’anno smetterò di dire che non è che mi esalti e anche se lo trovo sopravvalutato, lo celebrerò come merita.

C’è Neil Young, pronunciato Nigliang, che sarà ignorante quanto vuoi, però quando lo ascolti, con quella voce lamentosa da vecchietto in fila alle poste e quel chitarrista caprone che deve avere i segni delle dita sui tasti della chitarra, perché tocca sempre quelli, beh, quando lo ascolti, ti viene voglia di chiuderti in te stesso e bere un tè caldo, proprio come si fa in autunno. Metti Cowgirl in the Sand, un titolo che più ignorante è difficile, mettici che va avanti dieci minuti, con sta chitarra che uno in pratica muove due dita, che suona lei da sola come se facesse mammaomammaomammacheccetoccafapeccampà. Mettici che lui c’ha sta voce, con dietro le foglie che cadono, gialle, arancio, marroni cachi come le giacche degli olandesi. Fa eroico, il sentimento tipico delle 7 di sera in bicicletta sulla via dal ritorno dal bugigattolo cavanervi, dopo aver ammaestrato miracolosamente le esigenze di clienti, manodopera, capo, manager e operation manager.

Poi metti stasera, c’era quella canzone di Tom Waits, quella che dà il titolo a Rain Dogs e c’era sta fisarmonica che sapeva di fumo nella pioggia, fumo dei falò di San Niccolò, di copertoni e refrattari, fumo di città, con l’acqua che amplifica le note acri e sta chitarra che gli diceva chiaramente di star zitto e smetterla di fare l’eroe romantico, che lui ogni tanto sta cosa ce l’ha e ha bisogno che qualcuno gli dica di calare le ali. Come fa Benigni in Giù di Legge, ora che ci penso.

Poi un po’ di gezz, ma solo a casa, non sulla protesi, perché in bicicletta per il Duca non c’è la pazienza, anche se chissà, forse Coltrane potrei magari anche provarlo, un giorno. Ma forse no, la vedo dura con i battiti al secondo. Al massimo quando ho già preso l’onda, la pedalata lenta ma potente del rapporto più duro può reggere il tempo del batterista di A Love Supreme.

E poi mi conosco, verso novembre, quando le foglie non ci sono, e la stagione dei colori lascia il posto a quella nera, in quei momenti scuri mim andranno le chitarre cicaleggianti e il neon impolverato di Marquee Moon dei Television e più tardi, verso Natale, passerò al rosso e al nero del Nick Cave di mezzo. Il punto critico qui è gennaio, periodo grigio, con la luce che esce, ma non ha niente da illuminare. Questo è il periodo in cui ho comprato tutti i dischi dei quali mi sono pentito. Rock progressivo, esperimenti tedeschi, elettronica, certa classica.

Talmente triste che a fine febbraio smetto di ascoltare musica per il mio bene. In attesa che la primavera mi riporti i Ramones.

Comunque, se mi cercate sono qui.

sabato 10 ottobre 2009

Baracco che mi vince il Nobel

Obama non ha ancora fatto molto, a parte essere eletto, ma sa apparire, è un grande oratore. La gente vota i grandi oratori perché ha voglia di sognare.

Ecco, io mi sarei rotto i coglioni, di sognare.

martedì 22 settembre 2009

Sarei tornato

Con la febbre.

Comunque per un pezzo mi trovate più che altro qui.

Brutta l'idea di tenere due bugigattoli allo stesso tempo, lo so, ma metti caso che in mezzo mi viene da scrivere altro.

sabato 12 settembre 2009

Soluzione del quiz del 18 marzo 2013

Io avrei detto il salmone, perché non è che pianifichi così la tua morte. O l'echidna, perché onestamente, che te ne fai di quattro bocche da fuoco? O il gatto, perché la natura tende a difendere le sue creature dalle pratiche dolorose.

E invece no. Alla fine la spunta lui:




giovedì 27 agosto 2009

Dicono che il diciannove settembre torno

Che domani si parta, non mi pare neanche strano.
Il biglietto l’ho comprato il 6 gennaio, 234 giorni fa. Nel frattempo ho vissuto sempre come se partissi il giorno dopo, metabolizzando l’idea stessa di andare.
La borsa l’ho preparata in un attimo: mentalmente lo avevo già fatto centinaia di volte.
Così come avevo già visto, dentro di me o in libri scritti da altri, Mosca, Kazan, Caterinburgo, Perm, Omsk, Irkutsk, Ulan Ude, Ulan Bator, Pechino.

Ma dopo?

È come se andassi a morire. Non che abbia intenzione di farlo. Ma con tutto il tempo che ho passato a pensare alle mie tre settimane in treno, mai ho pensato alla vita che verrà dopo.

Tutto è rimasto sospeso.

Non ho pensato al primo jet lag della mia vita da recuperare, al fatto che Tomas rimane anche la domenica e già il giorno dopo arriva mia prozia dalla Svizzera e chissà povera K, lei che sarebbe anche contenta di avermi per sé, che si lavora che senza ferie chissà quando rivedrò l’Italia.

Forse da qualche parte nella steppa una fisionomia mi farà pensare a quel coglione di Erik, ma intanto il mondo finisce.

Finisce che il contratto alla fine l’ho beccato, che ho cominciato a chiamare questo posto “casa”, mentre i miei, la loro, hanno quasi finito di rinnovarla. Intanto mio padre aspetta la raccolta felice, perché è arrivato il trattore nuovo. Finisce il giorno prima del derby e chissà se Ronaldinho dura. Finisce che il suo presidente, di Ronaldinho, è ancora anche il mio, almeno per diritto di nascita, che ad Amsterdàm i mezzi pubblici chissà se esplodono davvero, il giorno dopo l’introduzione del nuovo sistema di pagamento, quello che, dicono, uno sgarra quando vuole. Finisce che la bicicletta è riparata provvisoriamente e a Bas non glielo ho ancora detto che non ho deciso se comprare la Gazelle nuova, perché da qui a un mese ci sono più di diecimila chilometri e chissà quanto ci vuole

Finisce soprattutto che alla fine ho beccato gli svassi. E invece di mettervi i video mongoli dei CSI, che saprebbe di scontato, ve ne metto la prova, a voi, che degli svassi non ve ne frega una mazza. Buon viaggio a tutti voi. Fra tre settimane ho un volo da Pechino.



E alzate la mano solo se vi interessano gli svassi.

martedì 25 agosto 2009

Altre ventotto virgolette e parliamo di vergogna

Invece la parola che mi piace meno è “vergogna”.
“Vergogna” suona scivoloso e sapido, come una limaccia inzaccherata nel fango. La V che taglia l’aria come una lama, “rgo” e “gna” come due pernacchie con la faccia di Moggi e Schifani.

Solo “sgombro” suonerebbe peggio, non fosse per la S sibilante che impedisce di prendere sul serio la G gutturale e lo "mbr" che troviamo anche in "imbranato", buttando in burletta cotanta tracotante boria.

“Vergogna” però è una parola molto più importante. La più importante d’Italia, si direbbe, la più usata, la più descrittiva.
Da quassù in basso, l’Italia la seguo dai forum. L’alternativa sarebbe guardare il TG1 via satellite, quindi credo che mi capirete. Uno che l’Italia la vede da internet si accorge subito dell’onnipresenza del termine incriminato. Non ci credi, pensi sia un caso, ma ogni volta te lo trovi davanti di nuovo: “devi vergognarti”, “devono vergognarsi”.

“Vergogna” ha la peculiare caratteristica di trovare applicazione solo per gli altri. Anche quando è il soggetto a vergognarsi, lo fa solo per gesti di persone dalle quali si dissocia, di solito esponenti della fazione politica avversa. È un gesto retorico, dove si aggravano i misfatti dell’avversario ingigantendoli, ponendolo come simbolo della nazione, o meglio, di quello che non va nella nazione. In pratica, questi “mi vergogno” suonano come dei colossali “vergognati”. Sul sito del Corriere hanno pubblicato la lettera di un ragazzino che si vergognava dell’unità d’Italia.
Figliolo, dico io, non ti crucciare, credo che Garibaldi si sarebbe mosso anche senza di te.

La vergogna in conto terzi è la prova che aveva ragione Montanelli, o Biagi, o comunque quel tale di quei tempi là che diceva che il nostro è un paese di moralisti senza morale.

Io dico che la morale c’è, ma è l’autoindulgenza che ci frega: le cose immorali in Italia si fanno dopo aver trovato una scusa che consenta di farle, pulendole dall’immoralità.

Fra le scuse, la più tipica è “C’è gente che fa di peggio”, che è universalmente applicabile e consente quindi di evitare la vergogna in qualsiasi caso.

Forse anche per questo l’italiano è filosofo, perché deve imparare a relativizzare.

Un po’ di vergogna l’italiano la prova solo quando vede che all’estero qualcosa funziona meglio che entralpe. In questo caso il compaesano reagisce inizialmente dando la colpa alla nostra mentalità, per poi rendersi conto che l’italica inefficienza non è una cosa cattiva, ma un’espressione di creatività, di arte di vivere, in netta contrapposizione con la vita grigia di quei noiosissimi nordeuropei inflessibili.

E forse su questo c’ha ragione: senza vergogna si vive meglio.

domenica 23 agosto 2009

Trentasei virgolette per parlare di politicamente corretto

L’altro giorno, fra queste righe, ho scritto “frocio”. E siccome non sono maschilista, ho aggiunto “frocia”.

“Seguirà dibattito”, dicono alle presentazioni dei libri o alle proiezioni di diapositive. Il dibattito è seguito. Sulle righe di sto coso qui, ma soprattutto fra le varie incarnazioni del sottoscritto.

“Frocio” è un termine offensivo. Ma è anche un termine che ho sentito usare più di una volta da omosessuali per definirsi. È una parola che isolata dall’accento romanesco ha un suono dolce. Una parola di etimologia a me sconosciuta, che non richiama abitudini o parti del corpo spregevolmente associate agli omosessuali.

Rimane comunque che un omosessuale, trovandosi sto termine a manco un metro dagli occhi, ha tutto il diritto sentirsi offeso. Dopotutto è vero che anche gli africani e i loro discendenti fra di loro si chiamano “nigger”, ma questo non significa che chiunque possa fare lo stesso.

Negro, appunto. Una parola che viene dal latino, secondo me più elegante di “nero”. Una volta si poteva dirlo, poi gli americani han detto che no, e allora anche noi no.

Il fatto è che è un dato obiettivo: la maggior parte degli africani ha la pelle nera. Nel mio magico mondo fatato, “negro” si può dire, perché si può dire “biondo” e ad avere la pelle nera non c’è niente di male. Perché i capelli neri sì e la pelle no? Invece, nei verdi pascoli della mia mente non si dice “di colore”, perché se vogliamo essere obiettivi, siamo noi ad essere decolorati.

Neanche “handicappato” mi piace, perché è un calco troppo fresco. Nel mio italiano si direbbe “ostacolato”. “Handicap” è una parola inglese e per adattarla all’italiano ci vuole un po'. E hai voglia a dirmi che “handicappato” non si dice. Chi appartiene alla categoria si affretterà a precisare che gli ostacoli, o handicap, esistono eccome. Il termine per definire gli ostacolati è forse quello che cambia più rapidamente nella lingua italiana. Nel mio ventennio di vita conscia si è passati da “handicappato” a “portatore di handicap”, “invalido”, “disabile” e “diversamente abile”. Un termine nuovo ogni tre anni, che non si limita a far abdicare il predecessore, ma lo fa passare immediatamente dalla parte del torto.

È che per me, tutte queste forme di correttezza politica puliscono solo esteriormente. Come si diceva prima che se non ci fosse il razzismo non ci sarebbero problemi a parlare di neri, vale anche il discorso secondo il quale accettando le differenze di orientamento sessuale qualsiasi epiteto non offensivo andrebbe bene per i gay, mentre quelli offensivi non avrebbero ragione di esistere (c’è per caso qualcuno che chiama “figattoni” gli etero?). La cosa è ancora più evidente con chi trova ostacoli fisici o mentali nella società: basterebbe ammettere che un problema c’è.

Succedeva con mio cugino nei suoi due anni di vita da tetraplegico. Io non sapevo che termini usare per parlare del suo stato, mentre lui ci avrebbe quasi scherzato sopra.

Bisognerebbe smetterla di dire che siamo tutti uguali e cominciare ad apprezzare le differenze.

mercoledì 19 agosto 2009

Uh uh hù

Sappiate che per me, la parola ma proprio in assoluto la più bella della lingua italiana è e deve essere Gufo.

È una combinazione perfetta di vocali e consonanti, un monumento all’arte e alla tecnologia della modellazione dell’aria. La lingua blocca la laringe, per poi stapparsi in una G, sulla U la cavità orale si stringe a mantice finché il labbro inferiore addenta gli incisivi superiori, questa è la F, dove l’aria striscia contro i denti finché la bocca si fora come una camera d’aria nello sfogo della O.

Gufo.

Non UFO, manca l’esplosione iniziale e tutto il fenomeno risulta afflosciato. Non Tufo. La T, che in italiano è plosiva e dentale, causa un suono troppo alto, come un sasso gettato in un lago fra schizzi di saliva, mentre una delle particolarità della G velare è proprio quel suono forte ma cupo, che viene da dietro e si fa strada verso le labbra. Tufo parte davanti, con un rinculo che gli dà la rincorsa per tornare da dove la parola era iniziata. Gufo viene direttamente dal profondo, è tutta aria a chilometro zero, arriva dalle corde vocali per direttissima, in un moto violento, ma plastico e armonico.

Gufo. Uh uh hù, cantavano gli Stones in Sympathy for the Devil.

lunedì 17 agosto 2009

Essere spesso soli in mezzo a mill'altri

In questa città ci sono centinaia di cose da fare, ma non c’è mai nessuno con cui farle.

Venerdì volevo andare a vedere gli Oneida. Ma in più di un anno qui non ho ancora trovato nessuno che si interessi della musica che dico io.
Come ultima risorsa ho chiesto alla mia collega francese, che aveva lo stesso problema. Voleva andare ad un cinema all’aperto e nessuno la voleva accompagnare, soprattutto perché il film sarebbe stato in tedesco. Così è finita che per solidarietà sono andato con lei, reclutando tra l’altro alcuni altri colleghi.

Poi alla birretta dopofilm è stata lei a parlarne, di come ci si senta soli, qui, in mezzo a migliaia di persone.

In Irlanda non era così. Vivevo in una città che era uno sputo, dove nonostante la fama e il paio di eventi clù non c’era molto da fare che non fosse prettamente legato all’ambito dell’alcolismo, così si tendeva a coinvolgere ogni nuovo arrivato nelle spire della nostra grande famiglia di zingari del pub e sbevazzarcela fra di noi, se proprio era sbevazzare che si doveva.

Tempo un paio di mesi e anche Od la francese timida era alcolizzata.

Qui invece ognuno ha le sue attività. Fra i miei colleghi c’è chi suona, chi bazzica le case occupate, chi fa volontariato fra froci e froce, chi tiene famiglia e chi gira per ristoranti. Poi si scopre che nonostante tutto ognuno si sente solo a modo suo.

In questo regno sottomarino ma asciutto, tutto si svolge all’aperto. Le case stesse hanno pareti intere di vetro, senza tende, attraverso le quali è possibile godere di teneri quadretti di vita famigliare.

‘Azzo c’entra? Direte voi.

È che in questo paese grande a malapena come tre o quattro Trentini con Suttirolo annesso ci abitano una quindicina di milioni di capi di esemplare umano.

‘Azzo centra? Dirà qualcuno che la grammatica l’ha imparata sul forum della Gazzetta.

Non capisci? Ribadirò io, pur conscio della comprensibilità di tale incomprensione. Tutti questi capi umani, per convivere, devono scendere a compromessi. Il compromesso è che ognuno svolge le sue funzioni proprie e private in pubblico, mentre chi gli sta attorno si impegna a far finta che non esista. Un po' come in quel film di Lars da Treviri, Dogville, dove i contorni delle case sono disegnati sul terreno, ma tutti si comportano come se fossero reali. Film che peraltro non sono mai riuscito a sforzarmi a guardare, dopo essere stato sottoposto ad un breve sunto della trama.

In pratica qui ognuno si fa i fatti suoi. Non per timidezza o riservatezza, ma per convenzione sociale.

Il mio amico Davide usa lo stile capitolino per attaccar discorso con la gente. Finisce ogni volta che le tipe pensano che ce stia a provà.

E i tipi fors’anche. In una paese dove l’omosessualità non ha nulla di strano, parlare ad uno sconosciuto lascia trasparire il desiderio di imbarcarsi insieme verso lidi sconosciuti a bordo di una nave con coperte e lenzuola.

Ma questa, signori miei, altro non è che l’esplicazione canonica della situazione. Quella che accontenta tutti anche quando nessuno ci crede davvero. Io mica ci credo, eh. Credo che la verità sia un’altra, anzi, forse un paio di altre.

Prima di tutto trattasi di grande città, popolata dai temibili (grandi) zitadini, gente che se favellasse l’italico idioma ripeterebbe spesso e con convinzione “cioè” e anche “voglio dì”. Gente che, noi valligiani lo sappiamo, se gli muori davanti non viene certo a disturbare la tua eterna quiete.
Quindi, un po’ è il vostro ragazzo di valle che si deve adattare.

Ma non del tutto. La lista di chi lamenta solitudine presso il vostro umile sputasentenze annovera membri provenienti da luoghi affatto circoscritti, quali le capitali delle repubbliche italiana e francese. Quindi non uscitemi ogni volta con questa storia del ragazzo di campagna, perché da un po’ avrebbe anche rotto.

E se trovate qualcuno che voglia venire a vedere lo zoo con me ditemelo. Pare che per i zitadini sia da sfigati interessarsi di bestie che non facciano le fusa o lecchino la faccia del padroncino.

E comunque occhio, che l’entrata costa diciassette euri. Meglio che ve lo dica subito.

giovedì 13 agosto 2009

Io nel mondo dei proattivi

Ultimamente non riesco più a scrivere. Ne ho iniziati diversi, non ne finisco uno.
È una questione di stresss.

È che sono diventato uno di loro, uno di loro nella definizione che darebbe un ventenne con la maglietta del Che.
La prima a dirmelo è stata la seconda Aurélie. “Marco, you have changed”. E ora per i nuovi colleghi è diventata la mia presa per il culo ufficiale. “Marco, you have changed”.

Non ne ho parlato subito su sto coso, perché in un mondo dove il precario è il nuovo eroe, vedersi rifilare un contratto a tempo indeterminato non può che minare la credibilità della mia rubrichina a milleventiquattro x settesessantotto.

Sembrano passati pochi mesi da qualche mese fa, quando sospiravo sprezzante di mirabile speme decantando l’incedente estinzione dei termini del prezioso foglio vidimato. E non a sproposito. Quando il capo ti dice che non gli servi, che sia vero o no, hai tutto il diritto di macchiare le braghe.

Poi, però, ecco la genialata, gli faccio una proposta: vuoi tu, capo, il cui nome si traduce con Martino Signorino, che io cambi ruolo? Basta noiose traduzioni di manuali per putrellatrici e cotillon, è giunta l’ora di passare fra i proattivi, l’elite di questa nostra azienda, quelli che le traduzioni invece di farle le fanno fare agli altri. E io che sono italico sono pienamente conscio di come in presenza di un lavoro sporco sia importante avere altri a cui darlo da fare.

Si scopre che Martino aspettava già da un po’ questa mossa, proattivo come un profeta che anticipa la conversione del più scorato degli peccatori. Vieni figliolo, mi accoglie a braccia aperte, tanto che uno invece di bearsi della genialata si chiede quasi perché non gli sia venuto in mente prima.

Questo ci serve, figliolo, non gente che spali merma al fronte, bensì pubblicani, esattori di tributi, gente che il greppio lo faccia scrostare a terzi. Persone che quando per un lavoro da tre ore ne hai due a disposizione, la terza ce la mettono di tasca propria.

E scendo in campo al momento giusto, la settimana dopo che Cesare ci ha lasciati per i luminosi lidi della cassa malati, un paio prima che un'altra collega partorisse la stessa idea. Ah, le gioie dell’esaurimento nervoso.

Intanto si capisce subito che la mia non sarà una gitarella a Sharm. Lavoro quasi cinquanta ore in settimana, la mia manager, che in italiano si chiama caporeparto, la settimana scorsa ne ha fatte 65,5. Il tutto nel paese d’Europa dove la gente se la prende più comoda. Dopo tre settimane, Cesare torna a farci visita. Il suo sguardo è molto più sereno del nostro.

Avete capito bene, voi che credete che fuori dal mondo latino siano tutti noiosi e stressati. Voi, che almeno una volta nella vita avete sognato di trasferirvi a Barcellona (categoria, questa, che non esclude il vostro imbrattafile). Qui al piano terra dell’Europa il 33% dei lavoratori fa part-time e quelli che lavorano quattro giorni in settimana sono tantissimi. Padri e madri di famiglia e non solo. Nelle classifiche europee, al secondo posto viene la Danimarca col 9%. Gli italiani intanto credono ancora nella legge del non sputare nel piatto dove mangi.

Non per niente nel reparto superlavoratori siamo tutti stranieri. Tutti tranne Cesare, il già citato esaurito.

Ma il segreto di queste aziende americane è che tutto ruota attorno al vile mammone, o denaro, per voi che non avete letto la Bibbia. Fra noi e il cliente infatti ci sono i nostri propri personali addetti vendite, i salespeople, le genti delle vendite. In pratica, chi decide il prezzo e le prestazioni ha una formazione economica e non linguistica e noi ci troviamo con bagget da strozzini da imporre ai poveri tratuttori, che sono il quarto e ultimo anello della catena cliente-prodotto. Perfino San Siro si ferma a tre.

Non solo, ma ci tocca pagarli in miseri dollari americani, facendogli perdere al cambio valuta.

Manon è finita qui, dobbiamo anche negoziare i prezzi e se non lo facciamo i colleghi gnuiorchesi ci scrivono e-mail che sanno d’aglio.

E lo dicevo già un paio di rubrichine fa, che l’America inquina il mercato. È la seconda volta che mi trovo a rigirare progetti in un'azienda appena passata oltreoceano ed è la seconda volta che vedo arrivare un giro di vite sulle spese esterne e sull’efficienza. L’azienda americana vuole il processo, lo standard, vuole trasformarci in soldati che non sprecano moneta di rame. E vuole tagliarci le ferie, non pagarci gli straordinari, lascare i traduttori senza companatico. Il tutto motivandoci a perseguire il bene dell’azienda.

E i traduttori tendono a starci, accettare sempre, anche quando potrebbero permettersi di non farlo. E questo seplifica la vita a quelli nel mio ruolo, ma io, che vengo dal loro stesso ghetto, provo una grande empatia.

A volte vorrei dirglielo, ai traduttori, che si svendono, mandargli un qualche genere di descantabaucchi. E un giorno lo farò. Anzi, forse è già ora. Valter, che abiti in Piemonte, sì, proprio tu, quanti Valter con la V credi che ci siano che fanno il traduttore in Piemonte? Perché, Valter, ti vendi a 7 centesimi di dollaro a parola? Sei conscio del fatto che sei bravo e anche se me ne chiedessi 10 o 11, di centesimi, io ti darei lavoro lo stesso? Lo sai che quando correggevo il tuo test per quell’azienda tedesca che comincia con Sie e finisce con Mens ero tentato a penalizzarti perché mandavi a remengo il mercato? Poi non l’ho fatto, ma solo perché a dieci anni mi hanno beccato che rubavo le macchinine al tabacchino e mio padre mi ha inculcato il valore dell’onestà, con metodi retorici e non solo, ché allora si poteva fare.

Però devo ammettere che mi piace, stare dall’altra parte del tavolo. Mi piace perché comunico con esseri umani da tutto il mondo. Ma non può essere tutto qui. Non so perché mi piaccia. Di solito nelle cose parto pieno di entusiasmo e dopo circa tre settimane mi stufo all’improvviso. Qui di settimane ne sono passate quasi il doppio e continuo a resistere. Boh, so solo che non sono i soldi, perché l’aumento non me lo hanno neanche dato. Non è la gloria, perché di contribuire al benessere dell’azienda me ne sbatte in maniera strettamente circoscritta.

Per ora me lo spiego in un modo solo: fare il traduttore è nocivo per l’autostima.

domenica 9 agosto 2009

Vorrei leggere come magno

Nel centro di Amsterdàm c’è piazza Spui e a volte ci sono io che faccio il giro delle librerie.

Allo Spui c’è l’American Bookshop, con quattro piani di libri fotografici, riviste, tutte le guide turistiche esistenti, una parete intera di romanzi da mezzi pubblici e un piano di narrativa in edizione tascabile, tascabile ma nobile.
All’altro angolo c’è la concorrenza, che è Waterstone, libreria inglese, con saggi, sport, viaggi, rosa, design e lo stanzone panoramico con poltroncine per sfogliare le Taschen nell’ambientino che fa per loro.
Là di fronte, alla libreria universitaria, offrono saggi molto specialistici, che ti fanno venir voglia di essere ogni volta architetto, politologo, sociologo. Il tutto in un palazzino in stile De Stijl.

Le giro tutte e non compro niente. Appunti mentali e torno a casa. Con internet non si compete.

Fare il giro delle librerie è come levarsi di torno per un po’, trovare spunti, scoprire argomenti che non sapevi che ti interessassero, ti capita in mano il sapore del tuo prossimo mese, esci da te stesso per una mezz’oretta. Insomma, tutta roba che altri ottengono facendo yoga o buttando giù sostanze poco biologiche. È una cosa che ho imparato su in Irlanda, le domeniche grigionere a rifugiarmi da Charlie Byrne’s, che a volte uno crede sia stato concepito all’uopo.

Questi spunti sono meccanismi che si innestano per caso, secondo criteri censurabili, perché di solito i libri che capitano in mano sono quelli con le copertine più belle, e secondo percorsi ricorrenti, viaggi-saggi-sport-romanzi solo T, ché a forza di cercare Theroux e Thompson, quelli li conosco tutti e gli altri molto meno.

Ma la cosa che mi blocca è l’anglocentrismo. In tutti questi negozi la maggior parte dei libri in vendita sono in inglese e mentre entrando in una libreria italiana si trovano traduzioni di ogni genere, nel regno anglosassone vige l’autarchia. Librerie grandi il doppio delle Feltrinelli più monumentali, dove quasi tutto è opera di gente che parla inglese.

E qui vale il principio dello sciroppo Fabbri, che se lo allunghi troppo poi non sa più di niente.

Nella saggistica il dominio anglofono è assoluto. Fra la narrativa si trovano un paio di eccezioni. Gli autori italiani di solito sono Eco, i Wu Ming/Luther Blissett, che sono diventati popolari in Inghilterra come curiosità da trasmissioni sportive, un Saviano sempre in offerta, il Milione e il Decamerone. Manco Primo Levi.

Così l’altro giorno ho fatto una lista degli spunti e mi sono accorto di quanto le mie frequentazioni domenicali stessero anglificando il mio panorama. T.C. Boyle, Philip Roth, Eggers, Salinger, un Fante digerito male, Franzen, Redmond O’Hanlon, Hornby che è come un ragazzino che guarda Friends ma è sempre divertente da leggere, Coe, Zadie Smith, Kureishi, Safran Foer.

Parlando di musica, ho sempre teorizzato che il predominio angloamericano derivi dalla lingua. Le scimmie artiche e gli Oasis ci sono in tutto il mondo. E chi ha detto che la versione inglese sia la migliore? E allora capace che convenga allargare la banda e andare ad ascoltare un po’ da un'altra parte.

Lo dico perché ho come l’impressione che il discorso valga anche per i libri.

Ora, siccome nelle intenzioni sarei un uomo di azione e siccome culturalmente tifo Europa, starei cercando di leggere meno inglese.

È che è dura. L’altro giorno mi sono sfogliato il sito della Minimum Fax e ho scoperto che anche là è tutto angloamericano. In italiano, ma è angloamericano.

E allora la ricerca continua, accetto consigli, basta che nessuno muoia di morte innaturale e non ci siano di mezzo assassini e commissari. Intanto il prossimo mi sa che parlerà ancora inglese.

giovedì 6 agosto 2009

Cicli di cicli

…maggio, giugno, luglio, agosto, fra una settimana fanno quindici mesi qui in questa terra che è a pari livello con pesci e delfini.
E finché la matematica resta un’opinione ben sostenuta, quindici diviso tre fa cinque.

Cinque non è un numero magico, non ha le implicazioni religiose del sette o l’onnipresenza del tre. Al massimo gli si concede la virtù di essere tollerato dai precisini che amano le cifre tonde.
Comunque questo particolare cinque è il numero medio di mesi di sopravvivenza di una bicicletta di proprietà del vostro scribacchino in questo paese così quassù, così quaggiù.

Tre biciclette in un anno e un quarto dunque. E le ho amate tutte.
La prima era una Batavus Torino verde e viola. Cinque cambi, linea anni ’80, comprata al mercatino di Waterlooplein in un giorno piovoso di fine maggio, con il venditore isterico per la pioggia e per la mia indecisione. Perché scegliere una bicicletta non è mica facile, quando ti sembrano tutte uguali. Per fortuna che c'è K che ne conosce i punti critici.
Che poi uno dice “mercato” e pensa a roba da bancarella, e se sono biciclette, allora sono rubate. Qui invece no, i mezzi sono raccolti dai noleggi e sono grossi calibri dai capelli appena appena ingrigiti. Il mio Batavio era un George Clooney bello ed elegante nonostante l’età leggermente avanzata.

Mi era diventato fedele, docile ai miei comandi, nonostante la ruota giusto un po’ storta, lo facevo trottare verso l’ufficio, pensando a come trasformare la scritta “Torino” in “Trentino”. Era una bicicletta di campagna, non ha retto la città. Il 17 ottobre pioveva, ero stato in centro a vedere Heavy Metal in Baghdad, che è un documentario su sti ragazzi iracheni che suonano in un gruppo peso, sulla ciclabile è arrivato uno con un motorino dalla targa blu, di quelli che sono autorizzati a girare sulle ciclabili a patto che tengano una velocità decente, si è spaventato, ha inchiodato, ho inchiodato anch'io, lo ho visto al rallentatore, cadere, poi scivolare a terra per dieci metri per fermarsi solo contro la mia ruota posteriore. Bilancio: nessun ferito, ma la ruota posteriore del Batavio da buttare.

È andata bene, ridendo trascino il biciclope ad una sola ruota fino a casa, una cosa come tre o quattro chilometri e poi vado a dormire pensando solo a sostituire la ruota.

Il giorno successivo giro una mano e qualche dito di negozi e tutti mi dicono che è un modello particolare e cambiare la ruota mi costa più del valore della bestia.

Bestemmio, mentre Dio pensa “Sai che novità”.

Comincio subito a cercare mezzi di seconda mano su internet. Uno mi porta a casa di uno di quelli che qui come in America chiamano gianchi. La bestia che mi propone si tiene a malapena su due ruote, è chiaramente rubata e se c’è una cosa che l’etica impone in questo fondale idrorepellente è “mai comprare biciclette rubate”.

Per un rampichino blu giro di bus in bus nel freddo di novembre. Lo vedo, lo provo, lo compro. Appena parto mi accorgo che è troppo piccolo per me. Lo uso lo stesso, ridicolo sulla mia bici palmare blu, che sembra la biemmeicchese dei ragazzini delle culture di strada, dopo una settimana si spegne la luce, poi la ruota posteriore mi cade in depressione e non c'è più verso di sollevarla. La ruggine arriva nell’arco di due settimane, nonostante il telo protettivo, e la palmare pedala da sola sul viale del tramonto.

Allora torno al mercato, dallo stesso personaggio, stavolta felice e disponibile, sarà il tempo. Sempre con il prezioso consiglio di K, allargandomi un po’ compro una meravigliosa Sparta verde scuro, che fila dieci volte meglio del Batavio e diventa presto la mia beniamina.
In sette mesi di vita, neanche una foratura.
Poi due settimane fa si incanta il cambio. L’eroica creatura sopravvive ancora un ritorno a casa dal centro e un’andata verso il lavoro, per poi cedere miserandamente sulla via del ritorno.

A Chiesavecchia, il villaggio dove lavoro, ci sono due negozi di biciclette. Uno è il temuto De Haan, in pieno centro, dieci metri dall’ufficio e prezzi degni del paesino di ricconi dove risiede, fra anziani matti e pittoreschi e giocatori dell’Ajax.

L’altro è Bas, che vive defilato e aggiusta biciclette per sportivi di livello vario. È uno che parla poco, ma è anche un ragazzo onesto. Un ragazzo onesto che è appena partito per tre settimane di ferie.

Bestemmio, e gli dei mi canzonano.

Porto la Sparta a De Haan, dove mi dicono che riparare la fedelissima mi costerà 120, mentre per riprendermela intonsa ne bastano 11 e cinquanta.
Pago 11, 50 e bestemmio. Gli dei continuano la mano di briscola.

E ora, dopo una settimana di bus mi attendono altri 15 giorni senza ciclo, roba che se fossi una ragazza, beh, la battuta fatela voi. Ritardi, deviazioni, biglietti, per chi gira in bus, sono cose da mettere in conto. Ma uno che è abituato ad essere il tassista di se stesso, uno che di pedivella, in centro ci arriva in mezz'ora, partendo quando vuole, andando dove vuole, libero, a queste cose non ci è più abituato. La bicicletta è il sogno americano del pendolare.

Anche perché qui si dà per scontato che uno abbia un paio di pedali sempre sottomano. Capita infatti che intorno a mezzanotte del venerdì uno proponga di andare dall’altra parte del centro a prendere una birra. Senza pedali non si fa. E poi va bene, ti caricano sul mezzo di un altro, rischi l’osso del collo almeno un paio di volte, fai partire raggi che manco i denti di chi si prende i pugni nei cartoni animati, ma alla fine ci arrivi, in centro. Poi però, dopo quella birra devi andare a caccia del 357 notturno, che per modici 3,50 ti concede un giro panoramico della periferia della durata di ore una, per poi lasciarti a un chilometro da casa.

Ed è bene che sia così scomodo, perché altrimenti uno, dopo essersi giocato sei ruote in un anno, avrebbe quasi voglia di lasciar perdere ed evitare ogni mezzo con meno di tre ruote alla volta.

Una domanda però resta: perché tutti i rampichini che ho avuto in Italia sono sempre durati decenni e queste utilitarie a pedali dopo pochi mesi si spaccano?
Forse perché, come si evince dal massiccio uso di componenti da sfigati quali copriruota, campanello e fanali, qui la bici non è sport, ma un mezzo di trasporto e pedalando con la fedele protesi musicale conficcata nelle orecchie i chilometri si macinano che è una meraviglia. Devo averne fatti, qui, in un anno, il triplo che in tutto il resto della mia vita, senza sentirli.

Ma non è valido. Sul piano son buoni tutti.

mercoledì 29 luglio 2009

Quel ragno là

Vive bene, quel ragno, fra i doppi vetri della finestra del soggiorno.
È pieno di insetti, là dentro. Loro sono nati per volare, e là per farlo hanno a disposizione massimo massimo due centimetri di spazio. Così finisce che ci muoiono, fra le due lastre.
Quel ragno là invece no, è animale bidimensionale e un piano ce l’ha già. Della terza dimensione, lui, non se ne fa una mazza. Non deve neanche erigere tele, il ragno, ché gli insetti sono già là, bell’e che morti. La sua vita è un po’ così: a buffet.

Grande sì e no come un crocefisso, la forma della cassa toracica di uno scheletro, deve esserci nato, là in mezzo, perché non ci può essere entrato. Deve per forza aver fatto come le pere Williams nelle bottiglie di sgnappa.

E si sa, quando uno ci nasce, finché non gli raccontano che fuori c’è altro, ci sta anche bene, là. E a lui nessuno gli racconta niente, ci mancherebbe, insonorizzato fra due vetri.

E lui, che là c’è nato, deve essersi svezzato da solo, con la polpa dei genitori intrappolati. Ma non sarò certo io a dire che la cosa sia riprovevole. Dopotutto nessun prete era là, a dirgli che non si fa.

E allora viva quel ragno, che di problemi non se ne fa, che non ha capito che la semplicità migliora la vita, ma ne gode inconsapevolmente le piacevoli conseguenze.


Alla fine comunque uno potrebbe e non potrebbe scoprire che quel ragno non vive fra due vetri, ma fra un vetro e una ragnatela, il che è, se vogliamo, emblematico di come se uno vuole, può dire tutto, ma anche il suo contrario.

domenica 19 luglio 2009

Gente civile



In fila davanti al van Gogh/Stedelijk Museum

Mamma italiana a marito indefinibile: Mamma mia che paese civile, hai visto? I bambini entrano gratis!
Mamma italiana ai figli: Avete visto bambini? Voi entrate gratis!
Figlio italiano: E perché?
Mamma italiana: Perché questo è un paese civile, che incoraggia la cultura, altro che l’Italia…


Sto leggendo Ebano, di Ryszard Kapuściński, un libro che parla degli anni africani del giornalista e inviato polacco.
Fra le varie cose, parla del retaggio postcolonale dell’Africa subsahariana, dove la gente tende a sentirsi inferiore all’uomo bianco, che dopo centenni di schiavismo, ai loro occhi pare infallibile e invincibile.

Sembrerebbe che l’italiano soffra di un complesso simile. Un senso di inferiorità che cerca di nascondere prendendosela con chi considera a sua volta inferiore (immigrati) o consolandosi con quello che resta (cucina, calcio). Ma la cosa non mi stupisce. Da quando sono qui mi sono reso conto che culturalmente siamo molto più vicini ai paesi del Medio oriente o all'Africa di quanto crediamo. E non dico che la cosa sia negativa.

Comunque oggi il bambino italiano, figlio della mamma italiana, ha imparato una lezione: siamo inferiori agli europei del Nord. D’ora in poi spiegherà così le storture della politica e della civiltà italiana: siamo inferiori. Magari non lo dirà apertamente, ma ci penserà. Così non crederà alla possibilità di migliorare, ma si rassegnerà al suo stato di italiano mediocre. La userà come scusa quando parcheggerà in divieto o non pagherà il biglietto del tram. "Che ce posso fa’, qui in Italia c’è ggente che fa de peggio”, ma anche: “Che cogno farghe? Qua en Italia se fa anca de pegio”.

Ma torniamo al museo, perché uno entra e all’interno l’italiano è la lingua più parlata, segno che sti italiani proprio così ignoranti non sono. È così in tutti i luoghi storici che ho visto: i visitatori sono soprattutto italiani e francesi. I nordici, quando vanno in vacanza, cercano la natura, non la storia. È questione di come si è stati educati, non credo che uno degli approcci sia migliore dell’altro, ma non si può certo dire che gli italiani siano ignoranti.

Comunque è interessante scoprire come finisce, la storia di Kapuściński (quanto mi diverto a scriverlo, con tutte ste lettere strane). Durante la seconda guerra mondiale molti africani vengono in Europa a combattere per l’esercito coloniale di fiducia e scoprono che anche fra gli europei c’è guerra e miseria, che anche loro si ammazzano a vicenda. Così alcuni di loro tornano a casa e raccontano quello che hanno visto. Gli africani prendono coscienza e cominciano a credere di essere in grado di governarsi da soli, così a poco a poco, cominciando a credere in se stessi, i loro paesi conquistano l’indipendenza.

Le lezioni, se ci sono, traetevele da soli.

Carte


Ultimamente ho Ben Altro a cui pensare. Due Ben Altri di entità tutt’altro che trascurabile.
Una è la mia ultima spiaggia lavorativa, un’ultima spiaggia che qualcuno potrebbe leggere come promozione coatta, a tempo determinato, senza portafoglio e ad eliminazione diretta. Di questa posso solo dire che per sua colpa, sua colpa, sua grandissima colpa supplico ogni giorno la beata vergine Maria, gli angeli i santi e voi fratelli di essere per una volta in grado di lasciare l’ufficio prima delle settemmezza.

Per il resto è solo lavoro, come in “sono solo canzonette", solo che non sono canzonette, ma lavoro, volgare lavoro.

La seconda piaga si chiama “Aangifte Inkomstenbelasting”, per gli amici “Belasting” ed è una sorpresa per i più valorosi fra gli abitanti di questa terra al piano terra.

In italiano si chiama “Dichiarazione dei redditi”, ma il concetto non rende. Si tratta di una lunga gora oscura, in fondo alla quale si cela la ricompensa per tutti coloro che hanno saputo dimostrare doti di pazienza e integrazione.
Uno pensa “Dichiarazione dei redditi” e non serve che mi sbracci a spiaegare che serve pazienza. E fin qui ci siamo. Ma integrazione? Cosa significa integrazione?

Significa sapere la lingua che si parla qui in giro, ma qui ci arriviamo un po' alla volta. Per ora vuol dire semplicemente conoscere la terra dove vivi. Sapere che la regina si chiama Beatrice, che la capitale amministrativa è L'Aia-Den Haag-s'-Gravenhage-The Hague-La Haie e quell'altra Amsterdàm (mica Àmsterdam), sapere chi è Marco Borsato e che l’AZ Alkmaar ha vinto il campionato. Sapere che nonostante tutti, compreso il tuo capo, ti dicano che la Belasting non la devi fare, la devi fare comunque; sapere in ultimo che il motivo per cui tutti, compresi gli addetti alla Belasting ti incoraggiano a non farla è molto semplice: facile facile che facendola ci tiri su addirittura un paio di euri.

La Belasting però è una fiera difficile da domare. Si presenta innanzitutto in forma elettronica. Facile da scaricare, compilabile in modo semplice, qualora provvisti di amico nederlandofono con quindici minuti di tempo libero, abbastanza fidato da rivelargli il tuo stipendio.

È qui che scopri che il governo dell’Aia, quello che riconosce Amsterdàm come capitale, ti deve suppergiù un duemila euro. È qui che scopri che i cinquecento euri di occhiali con lenti adatte a uno che lavora al compiuter per tornare a casa e accendere il compiuter ti vengono restituiti. Non solo, ma vengono rimborsati al centotredici per cento. Capito bene, il numero dei carabinieri, in più per cento. Roba che il centotredici, per cento, ci deve mandare come minimo il nucleo antisommossa.

Ma compilarla, la Belasting, è come rivivere le tappe dell’Odissea. Presente quando Ulisse arriva a un paio di chilometri da Itaca e, reo di aver bestemmiato Poseidone, fora, torna indietro dal meccanico, trova compagnia e viene trascinato per bar per poi tornare a casa solo la mattina dopo e in stato pietoso, per trovare la moglie circondata di amanti che non ha altra scusa che il corso di cucito?

Mentre aspetti bel bello i tuoi duemilaequalcosa euro ricevi una bustona blu malva. Dici: “Bello, sono arrivati i dobloni. E anche sta bustona, che la teniamo per qualche bambino bisognoso che poi ci fa i lavoretti a scuola”.
La apri e noti subito l’assenza di dobloni in allegato. Leggiucchi la lettera per scoprire che la forma elettronica non va bene. In allegato trovi due libroni in formato A4, uno con novanta domande molto meno spassose di quelle del quiz della naja, l’altro con centinaia di pagine piene di numeri, lettere e caselle da riempire, che potrebbe e non potrebbe essere il libretto delle istruzioni.

Confuso apri la prima pagina del questionario, per scoprire di aver ricevuto il modulo 2008a invece del 2008m. Più tardi scoprirai che alla collega belga è successo il contrario.

Comunque ormai sei lanciatissimo: non ti farai incastrare facilmente. Chiami il numero verde speranza. Dieci minuti di attesa per sentirti dire in olandese che non sono autorizzati a parlare inglese. E qui scatta la seconda parte del corso di integrazione, perché per parlare di burocrazia in olandese con una visibilmente scandalizzata dal tuo stato di non olandese o forse di non parlante della lingua della regina, beh, ditemi voi, se non è integrazione questa. Alla fine passo l'esame e nel giro di tre giorni ricevo l'agognato 2008m.

Ebbene, cercare di riempirlo è diventato un hobby che pratico il sabato sera, al ritorno da lavoro e in altre situazioni di tipo sensibile. Mentre lo faccio mi incazzo come un lupo al quale stanno tagliando pezzi di coscia con forchetta e coltello. Le domande non hanno nulla a che fare con il modulo in linea, il che aggiunge un piacevole retrogusto di confusione.

Proseguo a più riprese, come in un incontro di boxe. Se non mi stendono prima, vincerò ai punti. Resto sulla difensiva, proseguo a forza di attacchi sparuti, rinvio, per dare tutto all’ultimo round, gli ultimi tre giorni di luglio.

Belasting, iscrizione al registro degli immigrati, cambio di residenza e visti per Russia, Cina e Mongolia. Nome, cognome, indirizzo. E intanto le mie giornate durano mezz’ora.

Ma finirà, questa estate che soffoca a freddo. Magari non avrò un lavoro, oppure ne avrò uno che mi toglie la vita, ma riavrò i miei duemila euro e la soddisfazione che il Belastingdienst non m’ha avuto. Non solo, ma ha risolto con toni malva anche il problema tappetino del mouse. Altro che bambini bisognosi.

mercoledì 15 luglio 2009

L'importanza dei tappi dei succhi Valfrutta sulle sorti del mio destino

Quando ero piccolo avevo una specie di timore reverenziale per la persona che sono ora.
Il limite erano i vent’anni. Mia mamma mi aveva detto che la prossima puntura mi sarebbe toccata alla visita di naja, a vent’anni e la soglia era quella, prima e dopo il grande dolore.

Quando ero piccolo avevo paura che a vent’anni mi sarei rinnegato, non mi sarei ricordato niente dell'infanzia e mi sarei vergognato di quello che ero stato.

Ora un po’ mi dispiace per quel bambino timido e saputello, che in fondo non era poi così cattivo. Aveva grandi interessi che duravano per un periodo limitato, nel quale riusciva ad immagazzinare tonnellate di dati sfogliando i libri della biblioteca di casa. Così ai tempi c’erano i succhi di frutta con i tappi con le bandiere del mondo e lui intorno ai 5 anni, in pochi mesi le aveva imparate a memoria, con tanto di nome nella lingua locale, ché l’Egitto a casa sua lo chiamano El Misr e l’Albania Shqipeira (ma lui approssimava a Scopeira).
Poi c’erano stati i passaggi ovvi con calcio, dinosauri, animali e verso la fine delle elementari la specializzazione ornitologica. Verso i dieci passavo ore a sfogliare l’atlante, con particolare simpatia per le nazioni tascabili tipo Sammarino, il Lesotho o Vanuatu. Verso i dodici gli aerei, poi la musica e un paio di altre cose.

Tutte le nozioni scollegate che conosco ora le devo a quel bambino con i capelli biancobiondi.

Così, siccome porello era tanto timido e solitario, ma era anche tanto tenero, ogni tanto gli attribuisco qualche tributo. Mi ripasso le bandiere e quando vedo lo svasso fra le ninfee, nella solita ansa dell’Amstel, penso che se ci fosse stato lui avrebbe fatto salti di gioia, a vedere l’anatra con la testa di volpe.

A forza di succhi e atlanti, sto bambino aveva sviluppato una specie di ossessione per l’estero. All’asilo era estasiato dal suo compagno metà greco, il primo mezzo straniero del paese.

Quando i suoi lo portavano al mare a Lignano Sabbiadoro, osservava con curiosità i bambini tedeschi, con la loro apparenza umana come la sua e le loro vite parallele, fatte di cartoni animati diversi dai suoi e soprattutto scissione dal trinomio imprescindibile Milan-Juve-Inter.

Avrebbe desiderato chiedere a quei bambini “e tu per chi tieni?”, ma la cosa era tecnicamente impossibile. Così quel bambino aveva deciso che un giorno avrebbe imparato le lingue.

Ogni tanto ci penso a sto bambino con gli occhiali di plastica, fatti su misura fin da quando aveva due anni.

E penso che gli sarebbe piaciuto essere al mio posto, vivere all’estero, avere amici stranieri, parlare un paio di lingue sfuse.

Ogni tanto ci penso, dicevo, e per un attimo mi rassereno. Ho raggiunto tutti i suoi obiettivi, anche se nel frattempo non sono per forza anche i miei. Poi penso che forse non è poi così sano raggiungere i sogni dell’infanzia a manco trent’anni.

domenica 12 luglio 2009

La terra dei canali

Constatazione ovvia: un paio di anni fa, quando uno ti scriveva un’email, si aspettava una risposta entro un paio di settimane. Ora, se non rispondi entro due giorni, lo stesso uno ti ha già depennato dalla lista degli amici, quella che gli ha prescritto lo psicologo (quello di Man’s Health) per aumentare l’autostima.

Altra constatazione: mentre cercavo un appartamento in affitto, per la prima volta, ho rifiutato a prescindere quelli dove non era possibile installare internet.

Ultima constatazione, ché dopo un po' sto gioco rompe. Per un mese l’umore dei due occupanti di questo appartamento, fra il canale, la palestra e il minizoo, è dipeso dalla ricettività della rete senza fili.

Poi i due hanno ceduto. Ci siamo comprati il decoder per la tv via satellite, solo perché con una banconota rosa al mese ci davano anche la rete.

E qui ci sono stati smottamenti. Perché nessuno di noi due è capace di stare seduto mezz’ora fermo davanti ad uno schermo, però un giro di zapping ce lo si fa sempre volentieri e con novanta e passa canali, il giro di zapping può investire lassi di tempo inscrivibili nel regime del parecchio.



Io sono uno che GF sono le iniziali della Finanza. Il Grande Fratello ho provato a guardarlo, ma più di mezzo minuto non sono mai resistito. Avrei voluto vederne un pezzo, per sapere di cosa parla la gente, ma se proprio devo vedere una trasmissione per gioire della stupidità dei partecipanti, preferisco di gran lunga il TG2.

Però quando uno ha novanta canali, si immagina che scorrendoli tutti troverà qualcosa di decente.

Spesso non è così.

Per cominciare, dieci sono di cartoni animati americani per bambini iperattivi, di quelli con i personaggi che corrono, esplodono, si trasformano tra botti, frizzi, lazzi e colori fosforescenti.
Poi ci sono i canali musicali. Ovviamente sette su dieci fanno le stesse cose, un altro è MTV, che ormai viene tenuto fra i canali musicali per abitudine, poi c’è quello delle canzoni olandesi e il Brand New, che fa musica che piace a noi giovani alternativi, se solo avessimo ancora diciotto anni (per dire, quello italiano è molto meno peggio).
Poi c’è la catena dei Discovery e dei vari geografici nazionali. Sono almeno venti. Programmazione da aspiranti somministratori di bullismo. Animali: squali, leoni, rettili che mordono, tigri, ragni, scorpioni. Fine, se non uccide non ci piace. Scienza: combustione spontanea, esplosivi, smantellamento edifici.

Il tutto indica che anche sul satellite l’audience conta.

Poi ci sarebbe Arte, che è un canale tedesco/francese dove fanno un sacco di roba culturale. Spesso roba talmente culturale da allontanare qualsiasi possibile spettatore, ma più spesso veramente interessante, ammesso che uno ci si abitui. Ci sono documentari a tema geografico, film europei, approfondimenti e un ottimo telegiornale. Tipico canale che tutti dicono di guardare e nessuno poi lo fa. Però forse qualcuno lo guardicchia anche, anni fa avevo letto che Sky Italia lo aveva aggiunto perché richiesto a furor di popolo. Ho iniziato a darci un’occhiata quando stavo a casa di Baldo, dove era l'unico canale in lingua non olandese. Dopo poco mi ci sono affezionato.

Ma soprattutto, al primo giro di zapping, mi accorgo che l’ultimo canale, immediatamente prima di Playb*y TV, è Rai Uno. Per un attimo mi lascio prendere da un’ingiustificata commozione. Poi parte il primo giro di pubblicità in italiano e capisco. Da allora torno occasionalmente e con circospezione. Vedo cose che non mi piacciono. Cose che credevo di avere rimosso. L'altro giorno, nel mio soggiorno, avvolto dalla fòrmica dell’armadione, è apparso il salotto di Vespa. In un’altra occasione ho sfiorato il sorriso di Carlo Conti, che sembra il musetto della McLaren e per un attimo ho sentito il TG1 dire “E infuria la polemica sull’ennesimo caso di stupro…”

Da allora ci sto attento. Una forza mi attrae verso il primo, che qui è l’ultimo, ma quando poi ho ceduto a sta forza masochista, ci resisto al massimo un paio di secondi. Però le cose vanno meglio. Stasera c’era Quark e ho battuto ogni record, con una ventina di gradevoli minuti di TV.