mercoledì 26 novembre 2008

Scheletri nell'armadio

È il momento delle confessioni. Dal punto di vista musicale non credo di avere grandi scheletri nell'armadio, a meno che non mi vogliate rinfaccaire l’ossessione per i Queen di un ragazzino di 12 anni.
La mia personale croce è il fatto che se ho superato la mia seconda ossessione, quella per i Beatles (che ora tra parentesi non riesco più a metabolizzare), lo devo soprattutto al duo di critici di Repubblica Ernesto Assante e Gino Castaldo, che per me è praticamente indivisibile. Infatti avrò cura di menzionarli sempre insieme, non sapendo distinguere le gesta dell’uno dagli atti dell’altro.

Magari definendoli come scheletri nell’armadio ho calcato leggermente la mano sul valore del duo. Non si può negare che abbiano letto il loro bravo sussidiario. Non per niente la mia storia ha inizio con la loro Storia del rock americano in 12 CD, pubblicata da Repubblica verso la metà degli anni Novanta e gentilmente sbobinata (siamo in era pre-masterizzazione) dal caro Daniele (ricorderete il già menzionato amico riservato che andrebbe nominato per cognome, ma ci tiene alla privatezza).
Devo ammettere che la portata dell’opus è piuttosto ambiziosa e mentre ai tempi mi lamentavo dell’esclusione di intoccabili del calibro del vecchio Jimi, ora sono grato di aver avuto modo di ascoltare gente come Count Five, Fugs, Dead Boys, Violent Femmes, Wall of Voodoo e Morphine, giusto per buttarvi là qualche nome che fa ganzo.



I 12 CD li ho affrontati in lenta successione, quasi cronologica. Sono partito dal rock californiano (Beach Boys sì, ma anche Spirit e Iron Butterfly), amato il disco sui cantanti folk (senza Bob Dylan!), passando per i due CD sugli anni Sessanta e le avanguardie di Gnuiorche, per terminare con anni Ottanta e Novanta.

I dischi sugli anni Sessanta sono capolavori: niente hippismo mieloso, ma prevalenza del lato oscuro, con Zappa, Box Tops, Count Five, Canned Heat, Quicksilver Messenger System.
Quello sulle avanguardie poi mi ha aiutato a realizzare che non è di virtuosismo che vive la musica, ma di filosofia e atti degli apostoli.

Il duo conosce bene la storia ed è bravo a recitarla. Non so se è per merito o a causa loro che tendenzialmente, più della musica e del suo ritmo, apprezzo le persone che ci stanno dietro e quello che mi vogliono dire. Ma occhio all’avverbio “tendenzialmente”, che suona male e se non avesse la sua importanza non lo avrei mai scritto.

Assante e Castaldo sono guide perfette per uno che vuole conoscere la storia della musica. Ricordo sempre con piacere quando leggevo su Musica di Repubblica le loro recensioni sui tesori nascosti, album in conflitto con le masse come The Modern Dance dei Pere Ubu.
Poi Musica è stato sepolto, probabilmente anche a causa loro.

I nostri eroi infatti non hanno la minima competenza per quanto riguarda la musica moderna. Ci hanno provato, ma non ce l’hanno mai fatta. Li ricordo indicare i Mower o gli Oi Va Voi come la salvezza del rock moderno. C’era un periodo nel quale le due righe del “Raccomandato se vi piace” (esercizio pericolosissimo!) in fondo ad ogni recensione di qualsiasi cosa di vagamente elettronico indicava sti cazzo di Oi Va Voi. E poi si sono dati al mainstream, James Blunt, Alicia Keys e là Musica ha chiuso, compianto da nessuno, anche perché a quel momento erano tutti stufi di sentirsi ripetere i soliti nomi. Oltre ai fenomeni temporaleschi come Oi Va Voi e James Blunt ricorrevano infatti fin troppo spesso i nomi di Springsteen, Prince e Stevie Wonder. Rispetto per i signori, ma spesso pareva che nel mestiere tutto facesse capo ad un membro di tale colorita trimurti.

Ora immagino che i due scrivano su Icselle, il patinato per noiggiovani della casa di Repubblica, che ho sfogliato due volte, per poi fuggire inorridito di fronte a tali e tante esplosioni di acne.
Uno tiene un blog sul sito di Repubblica, credo Assante, ci sono capitato un paio di volte, in una delle quali ricordo si parlava di due band che avrebbero salvato il rock nel corso dell’anno a venire (era gennaio e i nomi non li ricordo). I commenti erano tanti e tutti piuttosto volgari nei confronti dell'autore o di altri partecipanti rei di non capire un cazzo di musica.

Gli amici si sa, a volte imboccano il bivio sbagliato, altre volte si schiantano nello spartitraffico, non sapendo da che parte andare. Altre ancora, se sono fortunati, si fermano in mezzo alla strada a consultare la cartina, come i turisti all’entrata della superstrada di Moncovo.
A me il duo piace ricordarlo così, ben conscio della strada fatta, ma in attesa di capire dove andare.

giovedì 20 novembre 2008

Ho visto i Sigur Rós dal vivo, e anche tre ragazzini olandesi

Volevo scrivere del concerto dei Sigur Rós, ma preferisco quasi parlare di un concerto di un gruppetto olandese che ho visto venerdì sera.
Ho già scritto meno di una settimana fa che non è possibile giudicare un concerto secondo criteri oggettivi e il discorso vale a maggior ragione in questo caso.

Il fatto è che avevo una voglia matta di rivedere i Sigur Rós. Ed è stato un grande concerto, mille volte meglio di quando li avevo visti cinque anni fa. Stavolta hanno organizzato tutto in grande. Senza gli archi degli Amina, che solitamente li accompagnano, ma con maggior talento e una certa cura nella scenografia. Uno schermo con proiezioni video e telecamere puntate sugli strumenti più strani, piogge di coriandoli e il buon Jónsi che brilla con il viso ricoperto di lustrini.

Che poi uno cerca di evitare di dire che sembrano elfi, perché è un po’ la cosa più scontata che si possa fare, ma sembra che loro ci tengano proprio.

E attaccano con Svefn-g-Englar, che è quella che fa “ici-ùù”, ed è un’emozione. Suonano un paio di pezzi di Von. Poi mi perdo. Cerco disperatamente di raccogliere la concentrazione, ma non ce la faccio. Comincio a pensare ad altre cose, poi mi risveglio, cerco di seguire, ma dopo venti secondi sono perso di nuovo. E mi rendo conto che è un peccato, ma ormai sono perso. E ci sanno fare i Sigur Rós, i pezzi suonano diversamente dalla versione su CD, o almeno così credo io, ma c’è chi non è d’accordo. Mi rendo conto di starmi perdendo qualcosa di grande. K è estasiata, ma io sono perso. Inutile, le melodie sono lente, sono un gruppo da gustare da seduti.



Forse non avrei dovuto sprecare preziosi minuti di concentrazione con il gruppo spalla, i For a Minor Reflection, che confermano a voce il mio timore che siano sul palco solo in quanto islandesi (anche il cantante ci rivela che “ai nostri concerti fino a ieri venivano 20 persone”). Bravi, per carità, ma sono una copia degli Stone Martens, e il loro post rock dilatato e in crescendo richiede una concentrazione che dovrei risparmiare per dopo.

Forse invece è normale, la musica dei Sigur Rós è fatta per perdersi. Bah, mettiamola così. Però venerdì… Magari detta così suona come se preferissi un gruppo di dilettanti ai discendenti diretti di Odino. In realtà no, l’ho già scritto che vedere i Sigur Rós dal vivo è sempre un’emozione. L'unica differenza è che venerdì c'erano le chitarre. Anzi no, pensandoci bene non c'erano chitarre, ma solo basso, batteria e l’imitazione di un organo Hammond.
E già qui ammetto la mia parzialità, per me il suono dell'Hammond è nettare d'ambrosia. Comunque quando scrivevo che c’erano le chitarre intendevo che c’era elettricità, energia, cattiveria, rock.
E non voglio neanche dire che i Sigur Rós dovrebbero suonare più pesante, anzi. Penso solo che vadano gustati in pieno relax, da seduti e in piena concentrazione. E dopo una giornata di lavoro, quando ci si avvicina ai trenta, l’unico modo di sentirsi vivi è dedicarsi a qualcosa che pompa.



E mi sa che conta anche l’effetto sorpresa. Degli islandesi conoscevo già tutto, mentre il gruppo di venerdì, che mi rendo conto di non aver ancora chiamato per nome (si chiamano Daily Bread), hanno meno di vent’anni e vengono dalle campagne della Frisia.
Ma di questo non dovrei stupirmi: non serve essere più di tanto forbiti per capire che da quando esistono gli mp3 la musica è arrivata anche negli angoli più remoti, come la Frisia, o la Val di Non, per fare un esempio casuale.

E poi anche il luogo ha la sua importanza. Il Nieuwe Anita è uno squat di assoluto pregio. Si entra in una stanzina che è un soggiorno, poi c’è la sala fumatori e il palco al piano inferiore.
Ci si sente a casa. Invece i Sigur Rós li hanno fatti suonare alla Heineken Music Hall. Un palasport senza sport, in piena zona commerciale. Un po’ di rispetto imporrebbe l’organizzazione di un simile evento in un teatro. O mi sbaglio?

Comunque al Nieuwe Anita c’era una ragazzina timida e bruttognola che ce la metteva tutta, dibattendosi fra Hammond, microfono e cornetta del telefono (amplificata!), mentre il suo batterista si fermava o cambiava tempo quando meno ce lo si aspettava.
“Sexy garage dance” dichiarano i rampolli, facendo un riassunto banale quanto verace dell’andazzo generale delle cose nel campo della musica moderna. Sesso, suoni ruvidi e ballabilità: voce, batteria, basso. Ma niente fighettismo da gruppetto inglese, invece il sudore e la convinzione di una band americana. Unica concessione al glamour, il fatto che a fine concerto non si vendano CD, ma solo magliette fluorescenti.

Eh sì amici, la morale della favola è questa: un po’ di sana energia cruda fa bene all’organismo. Ma la melodia fa bene al cuore, tant’è vero che il ricordo del concerto dei Sigur Rós migliora ogni giorno e credo che domani comprerò i biglietti per i Gotan Project.

mercoledì 12 novembre 2008

L'alcolismo di Saviano

È bello vedere che tutti stanno parlando di Saviano. Io su di lui posso aggiungere una cosa sola: ha praticamente la mia età.

Ho cercato di leggere ogni suo articolo, aprire la sua mente e sfogliarla, come se fosse un giornale appallottolato, pensando sempre che a giorni lo avrei potuto perdere.
Rubandogli le parole ho cercato di spiegare la camorra ai miei amici stranieri evitando i luoghi comuni del settentrionale che parla del Sud e cadendo di sicuro in errore più volte.

E ora all’improvviso mi sembra di capire. Negli ultimi mesi ho parlato molto con qualcuno che stava cercando di eliminare l’alcol dalla sua famiglia. La birra nel Nordeuropa si sa, è una passione. Nei paesi piccoli poi non c’è molto da fare e spesso bere è l'unico hobby. Così l'alcol ha reclamato la sua parte e anche oggi il maschio di famiglia si sente in dovere di manifestare la sua virilità con cadenza settimanale.
E per favore, evitiamo i discorsi su come noi italiani siamo superiori in questo. Anche Casadei cantava “Non beve, non fuma, ma che uomo è”.

Ma fatemi finire. L’alcolismo entra discretamente e quando diventa normalità non ci si accorge neanche della sua presenza. Viene dato per scontato, come la sveglia alle 7, i doveri coniugali o il campionato di calcio. E tutti credono di vivere felici e non pensano neanche che potrebbero avere un problema, semplicemente perché non conoscono la vita senza problema.

Ma il problema esiste, come esiste anche chi si accorge che esiste. E questa persona non ha vita facile. Viene considerata anormale, ingrata per il suo prendere le distanze dalla famiglia, capricciosa, debole, anche se il solo fatto di allontanarsi dai padri implica un coraggio che non accetta compromessi.

Spesso questa persona è donna. Le donne sanno porsi obiettivi e impegnare un’intera vita per raggiungerli. Saviano invece è uomo. Un femminiello, pare scrivano sui muri di Scampia, forse nel senso che ha gli attributi come solo una donna può avere. E anche lui vive in un sistema alcolizzato fino alla cirrosi, talmente abituato al cancro che sono le cellule sane ad essere considerate malate.

E occhio comunque, perché il cancro ha mille metastasi e anche noi crediamo di vivere una vita normale.

domenica 9 novembre 2008

Nel quale mi muovo agevolmente nel mondo della musica live

Recensire un concerto secondo criteri oggettivi non è solo impossibile, ma è anche un’enorme cazzata. Cazzata perché cazzata è non solo il tentativo di giudicare obiettivamente una cosa non logica come la musica, ma anche e forse ancor di più il fatto stesso di provare a farlo.

Si può dire “hanno suonato bene”. Ma pensandoci bene, quanto influisce veramente la qualità dell’esecuzione in un concerto? Per i virtuosisti magari anche tanto, ma per me, e mi permetto di metterci anche la maggior parte di voi, o miei uno lettori, nisba.
Dico che ci metto anche voi perché ho trovato un forum con interventi su un concerto che ho visto recentemente, e una vasta disquisizione sull’acustica ha portato alla sola conclusione che tutti avevano un’opinione diversa. Ne deduco quindi di non essere l’unico a non averne un’idea.

Gli ostacoli all’obiettività sono tanti e benvenuti. Il luogo, la gradazione alcolica del sangue, la stanchezza, la compagnia, la familiarità con i dischi dell’artista. Un concerto di musica classica, se visto in uno stadio, con dieci amici e parecchia birra in corpo, non può che far schifo.

Quante ovvietà, no? Perdonatemi. Mi serve solo per parlare del concerto di venerdì permettendomi di non esprimere un parere che non ho e che non mi interessa avere. O meglio, il mio parere ce l’ho, decisamente positivo, ma mi rendo conto che riflette più la situazione che la prestazione.

La verità è che se non fosse venuto Tomas mi sarei divertito la metà. Tomas è un amico dell'Erasmus, l’Erasmus è finita quasi sei anni fa, ma Tomas e io ci incontriamo ancora più di una volta all’anno, ovunque l’uno o l’altro si trovi al momento. Ci siamo ivisti a Colonia e io sono andato a trovarlo a casa sua in Svezia, mentre lui è venuto a trovarmi dove ho studiato, poi in Toscana, ad Amburgo, a Dublino e ora ad Amsterdam.

Un ottimo amico: uno che sa usare il cervello, ma non si prende mai troppo sul serio. Una dote che spesso a me manca. Uno col quale posso passare una giornata a parlare, oltre che un uomo dalle mille storie. Tanto più stavolta, dopo che è stato sulle prime pagine dei giornali svedesi dopo aver recitato nel ruolo maschile in una storia di mobbing, sesso e sindacati. Roba che in Italia ne basta la metà per essere rispettato, riverito ed invitato in qualche isola piena di brutta gente.

Quando Tomas mi ha detto che sarebbe venuto a trovarmi ai primi di novembre, gli ho risposto che per quel fine settimana avevo già i biglietti per un concerto di un gruppo electropop brasiliano e lui, appassionato di Rufus Wainwright e Billy Bragg, nonché ottimo musicista, ma sempre aperto alle novità, soprattutto quando suonano strano, ha accettato senza pensarci un secondo.

E poi è venuta anche Aurélie, la mia nuova collega francese, che non ce la faceva più a restare da sola nella casa offertale per il primo mese dalla ditta, nella bucolica Ouderkerk aan den Amstel.

E per una volta conoscevo bene le canzoni. I due album dei CSS sono stati per un paio di settimane la colonna sonora perfetta per andare a lavorare in bici. Tant’è che mentre suonavano mi veniva in mente il tratto preciso del tragitto nel quale quella canzone passava, visto che, mettendo sempre l’album quando parto da casa e percorrendo ogni volta lo stesso tragitto, i pezzi successivi iniziano bene o male allo stesso punto.

E la birra era buona. Tomas ci teneva a provare quelle belghe per una volta che era libero dagli stretti vincoli antialcolici scandinavi.

Quindi l’atmosfera era quella giusta. La sala grande del Melkweg era illuminata stile abat-jour di una luce azzurrognola, rilassante e quasi marina. Il gruppo ha suonato solo un’oretta, ma è stata un’ora piacevole, come può essere solo un’ora di musica semplice e ben ritmata, quando si conoscono tutte le canzoni.

Una delle cose che mi piacciono della musica è che anche se uno fa un errore mentre suona, come ne hanno fatti tanti i CSS, l’esibizione non risulta per nulla compromessa. In una gara di pattinaggio artistico basta uno svarione per compromettere la prestazione. In un concerto no. Niente tensione. L’importante è il risultato complessivo. Mi fanno ridere quelli che odiano il calcio e poi giudicano un concerto secondo i criteri puramente sportivi della prestazione. La musica è soggettiva. Puoi aver fatto tre gol per me e magari zero per il mio vicino.

Cosa ricorderò di questo concerto? Che alla fine Aurélie ha perso l’ultimo bus e abbiamo fatto le cinque per farle compagnia, come ai buoni vecchi tempi. Che Tomas e io abbiamo promesso di rivederci sulla Transiberiana. E una delle caratteristiche di Tomas è che ama trasformare in realtà le idee più strane.

domenica 2 novembre 2008

We're a happy family, we're a happy family, we're a happy family, me & my mum and daddy


Cosa fareste se vostro figlio fosse una rock star? Intendo una di quelle vere, quelle tipo sesso, droga e rock’n’roll. Sareste più felici per il vostro pargolo che si realizza o preoccupati per la sua aspettativa di vita?

Non è una domanda facile. I genitori sono stati eliminati dalla biografia del rock. O meglio, c’è la mamma di Elvis, per la quale il figlio ha inciso il primo singolo, la mother Mary di Paul McCartney, quella che dice words of wisdom tipo “let it be”. Ma gli altri?

Che ruolo ingrato, il genitore della rock star. Uno si fa mille grattacapi per le sorti del figlio eroinomane per poi venir completamente epurato dalla sua vita.
O almeno così sembra.
Leggendo il qui già pluricitato "Please Kill Me: The Uncensored Oral History of Punk" ci si accorge che non solo i genitori hanno un ruolo importante nella vita dei figli famosi, ma la loro importanza è maggiore di quanto si possa credere.

Prima di leggere cotanto tomo ero convinto che tutti i musicisti provenissero da realtà degradate, povertà e genitori assenti. Gente che ha dovuto imparare presto a fare tutto per conto suo. In realtà così non è. Vi siete mai chiesti dove un musicista che non lavora perché ripudia la società abbia trovato i soldi per comprare la Fender o la batteria?
La risposta è: dai genitori. La verità è che molti dei musicisti sulla scena gnuiorchese erano bambini viziati (occhio: molti, non tutti). Gente che la famiglia alle spalle non solo l'aveva eccome, ma che non disdegnava di farsi lavare le mutande o partecipare al pranzo domenicale.

Maureen Tucker ricorda come la madre continuasse a sostenerla finanziariamente mentre lei rifiutava di lavorare per suonare la batteria nei Velvet Underground. Così racconta come durante la riunione del gruppo nel 1993 abbia finalmente deciso di portare la madre (e i cinque figli) in tournée in Europa, per ringraziarla del suo supporto.

Ma non tutti sono così riconoscenti. Diversi patemi d'animo deve aver sofferto la signora Asheton di Ann Arbor, madre di Ron e Scotty degli Stooges, che ricordano la maleducazione del vecchio Iggy, che quando gli capitava in casa era solito aprire il frigo e servirsi liberamente, aprendo cartoni di latte e bevendo direttamente dalla bottiglia, o assaggiando ditate di torte appena sfornate.

E cosa avrà detto la madre di Jerry Nolan dei New York Dolls quando il figlio le ha chiesto di far alloggiare l’intero gruppo a casa sua durante una tournée in Florida? Cosa avrà pensato quando Jerrino, luce dei suoi occhi, ha cominciato a sparire nel cesso con quel capellone che si faceva chiamare Johnny Thunders, per poi tornare in stato visibilmente alterato?

Probabilmente è vero che uno per diventare famoso deve avere un grande ego, ma come si può trattare così la propria mamma? Quella che ti ha comprato la chitarra perché una volta hai preso un bel voto e non ti ha mai rinfacciato di essertela cavata con poco?

È rinfrancante scoprire che almeno la brava Moe Tucker ha ripagato la sua mamma portandola a cena a Praga con Lou, i ragazzi e Vaclav Havel, l’uomo della rivoluzione di velluto. Ma gli altri? Anni di tour in giro per il mondo e neanche una cartolina. Neanche il modellino della Torre Eiffel.

Meditate fratres, e quando sarà il vostro turno, pensate alla famiglia.