giovedì 27 agosto 2009

Dicono che il diciannove settembre torno

Che domani si parta, non mi pare neanche strano.
Il biglietto l’ho comprato il 6 gennaio, 234 giorni fa. Nel frattempo ho vissuto sempre come se partissi il giorno dopo, metabolizzando l’idea stessa di andare.
La borsa l’ho preparata in un attimo: mentalmente lo avevo già fatto centinaia di volte.
Così come avevo già visto, dentro di me o in libri scritti da altri, Mosca, Kazan, Caterinburgo, Perm, Omsk, Irkutsk, Ulan Ude, Ulan Bator, Pechino.

Ma dopo?

È come se andassi a morire. Non che abbia intenzione di farlo. Ma con tutto il tempo che ho passato a pensare alle mie tre settimane in treno, mai ho pensato alla vita che verrà dopo.

Tutto è rimasto sospeso.

Non ho pensato al primo jet lag della mia vita da recuperare, al fatto che Tomas rimane anche la domenica e già il giorno dopo arriva mia prozia dalla Svizzera e chissà povera K, lei che sarebbe anche contenta di avermi per sé, che si lavora che senza ferie chissà quando rivedrò l’Italia.

Forse da qualche parte nella steppa una fisionomia mi farà pensare a quel coglione di Erik, ma intanto il mondo finisce.

Finisce che il contratto alla fine l’ho beccato, che ho cominciato a chiamare questo posto “casa”, mentre i miei, la loro, hanno quasi finito di rinnovarla. Intanto mio padre aspetta la raccolta felice, perché è arrivato il trattore nuovo. Finisce il giorno prima del derby e chissà se Ronaldinho dura. Finisce che il suo presidente, di Ronaldinho, è ancora anche il mio, almeno per diritto di nascita, che ad Amsterdàm i mezzi pubblici chissà se esplodono davvero, il giorno dopo l’introduzione del nuovo sistema di pagamento, quello che, dicono, uno sgarra quando vuole. Finisce che la bicicletta è riparata provvisoriamente e a Bas non glielo ho ancora detto che non ho deciso se comprare la Gazelle nuova, perché da qui a un mese ci sono più di diecimila chilometri e chissà quanto ci vuole

Finisce soprattutto che alla fine ho beccato gli svassi. E invece di mettervi i video mongoli dei CSI, che saprebbe di scontato, ve ne metto la prova, a voi, che degli svassi non ve ne frega una mazza. Buon viaggio a tutti voi. Fra tre settimane ho un volo da Pechino.



E alzate la mano solo se vi interessano gli svassi.

martedì 25 agosto 2009

Altre ventotto virgolette e parliamo di vergogna

Invece la parola che mi piace meno è “vergogna”.
“Vergogna” suona scivoloso e sapido, come una limaccia inzaccherata nel fango. La V che taglia l’aria come una lama, “rgo” e “gna” come due pernacchie con la faccia di Moggi e Schifani.

Solo “sgombro” suonerebbe peggio, non fosse per la S sibilante che impedisce di prendere sul serio la G gutturale e lo "mbr" che troviamo anche in "imbranato", buttando in burletta cotanta tracotante boria.

“Vergogna” però è una parola molto più importante. La più importante d’Italia, si direbbe, la più usata, la più descrittiva.
Da quassù in basso, l’Italia la seguo dai forum. L’alternativa sarebbe guardare il TG1 via satellite, quindi credo che mi capirete. Uno che l’Italia la vede da internet si accorge subito dell’onnipresenza del termine incriminato. Non ci credi, pensi sia un caso, ma ogni volta te lo trovi davanti di nuovo: “devi vergognarti”, “devono vergognarsi”.

“Vergogna” ha la peculiare caratteristica di trovare applicazione solo per gli altri. Anche quando è il soggetto a vergognarsi, lo fa solo per gesti di persone dalle quali si dissocia, di solito esponenti della fazione politica avversa. È un gesto retorico, dove si aggravano i misfatti dell’avversario ingigantendoli, ponendolo come simbolo della nazione, o meglio, di quello che non va nella nazione. In pratica, questi “mi vergogno” suonano come dei colossali “vergognati”. Sul sito del Corriere hanno pubblicato la lettera di un ragazzino che si vergognava dell’unità d’Italia.
Figliolo, dico io, non ti crucciare, credo che Garibaldi si sarebbe mosso anche senza di te.

La vergogna in conto terzi è la prova che aveva ragione Montanelli, o Biagi, o comunque quel tale di quei tempi là che diceva che il nostro è un paese di moralisti senza morale.

Io dico che la morale c’è, ma è l’autoindulgenza che ci frega: le cose immorali in Italia si fanno dopo aver trovato una scusa che consenta di farle, pulendole dall’immoralità.

Fra le scuse, la più tipica è “C’è gente che fa di peggio”, che è universalmente applicabile e consente quindi di evitare la vergogna in qualsiasi caso.

Forse anche per questo l’italiano è filosofo, perché deve imparare a relativizzare.

Un po’ di vergogna l’italiano la prova solo quando vede che all’estero qualcosa funziona meglio che entralpe. In questo caso il compaesano reagisce inizialmente dando la colpa alla nostra mentalità, per poi rendersi conto che l’italica inefficienza non è una cosa cattiva, ma un’espressione di creatività, di arte di vivere, in netta contrapposizione con la vita grigia di quei noiosissimi nordeuropei inflessibili.

E forse su questo c’ha ragione: senza vergogna si vive meglio.

domenica 23 agosto 2009

Trentasei virgolette per parlare di politicamente corretto

L’altro giorno, fra queste righe, ho scritto “frocio”. E siccome non sono maschilista, ho aggiunto “frocia”.

“Seguirà dibattito”, dicono alle presentazioni dei libri o alle proiezioni di diapositive. Il dibattito è seguito. Sulle righe di sto coso qui, ma soprattutto fra le varie incarnazioni del sottoscritto.

“Frocio” è un termine offensivo. Ma è anche un termine che ho sentito usare più di una volta da omosessuali per definirsi. È una parola che isolata dall’accento romanesco ha un suono dolce. Una parola di etimologia a me sconosciuta, che non richiama abitudini o parti del corpo spregevolmente associate agli omosessuali.

Rimane comunque che un omosessuale, trovandosi sto termine a manco un metro dagli occhi, ha tutto il diritto sentirsi offeso. Dopotutto è vero che anche gli africani e i loro discendenti fra di loro si chiamano “nigger”, ma questo non significa che chiunque possa fare lo stesso.

Negro, appunto. Una parola che viene dal latino, secondo me più elegante di “nero”. Una volta si poteva dirlo, poi gli americani han detto che no, e allora anche noi no.

Il fatto è che è un dato obiettivo: la maggior parte degli africani ha la pelle nera. Nel mio magico mondo fatato, “negro” si può dire, perché si può dire “biondo” e ad avere la pelle nera non c’è niente di male. Perché i capelli neri sì e la pelle no? Invece, nei verdi pascoli della mia mente non si dice “di colore”, perché se vogliamo essere obiettivi, siamo noi ad essere decolorati.

Neanche “handicappato” mi piace, perché è un calco troppo fresco. Nel mio italiano si direbbe “ostacolato”. “Handicap” è una parola inglese e per adattarla all’italiano ci vuole un po'. E hai voglia a dirmi che “handicappato” non si dice. Chi appartiene alla categoria si affretterà a precisare che gli ostacoli, o handicap, esistono eccome. Il termine per definire gli ostacolati è forse quello che cambia più rapidamente nella lingua italiana. Nel mio ventennio di vita conscia si è passati da “handicappato” a “portatore di handicap”, “invalido”, “disabile” e “diversamente abile”. Un termine nuovo ogni tre anni, che non si limita a far abdicare il predecessore, ma lo fa passare immediatamente dalla parte del torto.

È che per me, tutte queste forme di correttezza politica puliscono solo esteriormente. Come si diceva prima che se non ci fosse il razzismo non ci sarebbero problemi a parlare di neri, vale anche il discorso secondo il quale accettando le differenze di orientamento sessuale qualsiasi epiteto non offensivo andrebbe bene per i gay, mentre quelli offensivi non avrebbero ragione di esistere (c’è per caso qualcuno che chiama “figattoni” gli etero?). La cosa è ancora più evidente con chi trova ostacoli fisici o mentali nella società: basterebbe ammettere che un problema c’è.

Succedeva con mio cugino nei suoi due anni di vita da tetraplegico. Io non sapevo che termini usare per parlare del suo stato, mentre lui ci avrebbe quasi scherzato sopra.

Bisognerebbe smetterla di dire che siamo tutti uguali e cominciare ad apprezzare le differenze.

mercoledì 19 agosto 2009

Uh uh hù

Sappiate che per me, la parola ma proprio in assoluto la più bella della lingua italiana è e deve essere Gufo.

È una combinazione perfetta di vocali e consonanti, un monumento all’arte e alla tecnologia della modellazione dell’aria. La lingua blocca la laringe, per poi stapparsi in una G, sulla U la cavità orale si stringe a mantice finché il labbro inferiore addenta gli incisivi superiori, questa è la F, dove l’aria striscia contro i denti finché la bocca si fora come una camera d’aria nello sfogo della O.

Gufo.

Non UFO, manca l’esplosione iniziale e tutto il fenomeno risulta afflosciato. Non Tufo. La T, che in italiano è plosiva e dentale, causa un suono troppo alto, come un sasso gettato in un lago fra schizzi di saliva, mentre una delle particolarità della G velare è proprio quel suono forte ma cupo, che viene da dietro e si fa strada verso le labbra. Tufo parte davanti, con un rinculo che gli dà la rincorsa per tornare da dove la parola era iniziata. Gufo viene direttamente dal profondo, è tutta aria a chilometro zero, arriva dalle corde vocali per direttissima, in un moto violento, ma plastico e armonico.

Gufo. Uh uh hù, cantavano gli Stones in Sympathy for the Devil.

lunedì 17 agosto 2009

Essere spesso soli in mezzo a mill'altri

In questa città ci sono centinaia di cose da fare, ma non c’è mai nessuno con cui farle.

Venerdì volevo andare a vedere gli Oneida. Ma in più di un anno qui non ho ancora trovato nessuno che si interessi della musica che dico io.
Come ultima risorsa ho chiesto alla mia collega francese, che aveva lo stesso problema. Voleva andare ad un cinema all’aperto e nessuno la voleva accompagnare, soprattutto perché il film sarebbe stato in tedesco. Così è finita che per solidarietà sono andato con lei, reclutando tra l’altro alcuni altri colleghi.

Poi alla birretta dopofilm è stata lei a parlarne, di come ci si senta soli, qui, in mezzo a migliaia di persone.

In Irlanda non era così. Vivevo in una città che era uno sputo, dove nonostante la fama e il paio di eventi clù non c’era molto da fare che non fosse prettamente legato all’ambito dell’alcolismo, così si tendeva a coinvolgere ogni nuovo arrivato nelle spire della nostra grande famiglia di zingari del pub e sbevazzarcela fra di noi, se proprio era sbevazzare che si doveva.

Tempo un paio di mesi e anche Od la francese timida era alcolizzata.

Qui invece ognuno ha le sue attività. Fra i miei colleghi c’è chi suona, chi bazzica le case occupate, chi fa volontariato fra froci e froce, chi tiene famiglia e chi gira per ristoranti. Poi si scopre che nonostante tutto ognuno si sente solo a modo suo.

In questo regno sottomarino ma asciutto, tutto si svolge all’aperto. Le case stesse hanno pareti intere di vetro, senza tende, attraverso le quali è possibile godere di teneri quadretti di vita famigliare.

‘Azzo c’entra? Direte voi.

È che in questo paese grande a malapena come tre o quattro Trentini con Suttirolo annesso ci abitano una quindicina di milioni di capi di esemplare umano.

‘Azzo centra? Dirà qualcuno che la grammatica l’ha imparata sul forum della Gazzetta.

Non capisci? Ribadirò io, pur conscio della comprensibilità di tale incomprensione. Tutti questi capi umani, per convivere, devono scendere a compromessi. Il compromesso è che ognuno svolge le sue funzioni proprie e private in pubblico, mentre chi gli sta attorno si impegna a far finta che non esista. Un po' come in quel film di Lars da Treviri, Dogville, dove i contorni delle case sono disegnati sul terreno, ma tutti si comportano come se fossero reali. Film che peraltro non sono mai riuscito a sforzarmi a guardare, dopo essere stato sottoposto ad un breve sunto della trama.

In pratica qui ognuno si fa i fatti suoi. Non per timidezza o riservatezza, ma per convenzione sociale.

Il mio amico Davide usa lo stile capitolino per attaccar discorso con la gente. Finisce ogni volta che le tipe pensano che ce stia a provà.

E i tipi fors’anche. In una paese dove l’omosessualità non ha nulla di strano, parlare ad uno sconosciuto lascia trasparire il desiderio di imbarcarsi insieme verso lidi sconosciuti a bordo di una nave con coperte e lenzuola.

Ma questa, signori miei, altro non è che l’esplicazione canonica della situazione. Quella che accontenta tutti anche quando nessuno ci crede davvero. Io mica ci credo, eh. Credo che la verità sia un’altra, anzi, forse un paio di altre.

Prima di tutto trattasi di grande città, popolata dai temibili (grandi) zitadini, gente che se favellasse l’italico idioma ripeterebbe spesso e con convinzione “cioè” e anche “voglio dì”. Gente che, noi valligiani lo sappiamo, se gli muori davanti non viene certo a disturbare la tua eterna quiete.
Quindi, un po’ è il vostro ragazzo di valle che si deve adattare.

Ma non del tutto. La lista di chi lamenta solitudine presso il vostro umile sputasentenze annovera membri provenienti da luoghi affatto circoscritti, quali le capitali delle repubbliche italiana e francese. Quindi non uscitemi ogni volta con questa storia del ragazzo di campagna, perché da un po’ avrebbe anche rotto.

E se trovate qualcuno che voglia venire a vedere lo zoo con me ditemelo. Pare che per i zitadini sia da sfigati interessarsi di bestie che non facciano le fusa o lecchino la faccia del padroncino.

E comunque occhio, che l’entrata costa diciassette euri. Meglio che ve lo dica subito.

giovedì 13 agosto 2009

Io nel mondo dei proattivi

Ultimamente non riesco più a scrivere. Ne ho iniziati diversi, non ne finisco uno.
È una questione di stresss.

È che sono diventato uno di loro, uno di loro nella definizione che darebbe un ventenne con la maglietta del Che.
La prima a dirmelo è stata la seconda Aurélie. “Marco, you have changed”. E ora per i nuovi colleghi è diventata la mia presa per il culo ufficiale. “Marco, you have changed”.

Non ne ho parlato subito su sto coso, perché in un mondo dove il precario è il nuovo eroe, vedersi rifilare un contratto a tempo indeterminato non può che minare la credibilità della mia rubrichina a milleventiquattro x settesessantotto.

Sembrano passati pochi mesi da qualche mese fa, quando sospiravo sprezzante di mirabile speme decantando l’incedente estinzione dei termini del prezioso foglio vidimato. E non a sproposito. Quando il capo ti dice che non gli servi, che sia vero o no, hai tutto il diritto di macchiare le braghe.

Poi, però, ecco la genialata, gli faccio una proposta: vuoi tu, capo, il cui nome si traduce con Martino Signorino, che io cambi ruolo? Basta noiose traduzioni di manuali per putrellatrici e cotillon, è giunta l’ora di passare fra i proattivi, l’elite di questa nostra azienda, quelli che le traduzioni invece di farle le fanno fare agli altri. E io che sono italico sono pienamente conscio di come in presenza di un lavoro sporco sia importante avere altri a cui darlo da fare.

Si scopre che Martino aspettava già da un po’ questa mossa, proattivo come un profeta che anticipa la conversione del più scorato degli peccatori. Vieni figliolo, mi accoglie a braccia aperte, tanto che uno invece di bearsi della genialata si chiede quasi perché non gli sia venuto in mente prima.

Questo ci serve, figliolo, non gente che spali merma al fronte, bensì pubblicani, esattori di tributi, gente che il greppio lo faccia scrostare a terzi. Persone che quando per un lavoro da tre ore ne hai due a disposizione, la terza ce la mettono di tasca propria.

E scendo in campo al momento giusto, la settimana dopo che Cesare ci ha lasciati per i luminosi lidi della cassa malati, un paio prima che un'altra collega partorisse la stessa idea. Ah, le gioie dell’esaurimento nervoso.

Intanto si capisce subito che la mia non sarà una gitarella a Sharm. Lavoro quasi cinquanta ore in settimana, la mia manager, che in italiano si chiama caporeparto, la settimana scorsa ne ha fatte 65,5. Il tutto nel paese d’Europa dove la gente se la prende più comoda. Dopo tre settimane, Cesare torna a farci visita. Il suo sguardo è molto più sereno del nostro.

Avete capito bene, voi che credete che fuori dal mondo latino siano tutti noiosi e stressati. Voi, che almeno una volta nella vita avete sognato di trasferirvi a Barcellona (categoria, questa, che non esclude il vostro imbrattafile). Qui al piano terra dell’Europa il 33% dei lavoratori fa part-time e quelli che lavorano quattro giorni in settimana sono tantissimi. Padri e madri di famiglia e non solo. Nelle classifiche europee, al secondo posto viene la Danimarca col 9%. Gli italiani intanto credono ancora nella legge del non sputare nel piatto dove mangi.

Non per niente nel reparto superlavoratori siamo tutti stranieri. Tutti tranne Cesare, il già citato esaurito.

Ma il segreto di queste aziende americane è che tutto ruota attorno al vile mammone, o denaro, per voi che non avete letto la Bibbia. Fra noi e il cliente infatti ci sono i nostri propri personali addetti vendite, i salespeople, le genti delle vendite. In pratica, chi decide il prezzo e le prestazioni ha una formazione economica e non linguistica e noi ci troviamo con bagget da strozzini da imporre ai poveri tratuttori, che sono il quarto e ultimo anello della catena cliente-prodotto. Perfino San Siro si ferma a tre.

Non solo, ma ci tocca pagarli in miseri dollari americani, facendogli perdere al cambio valuta.

Manon è finita qui, dobbiamo anche negoziare i prezzi e se non lo facciamo i colleghi gnuiorchesi ci scrivono e-mail che sanno d’aglio.

E lo dicevo già un paio di rubrichine fa, che l’America inquina il mercato. È la seconda volta che mi trovo a rigirare progetti in un'azienda appena passata oltreoceano ed è la seconda volta che vedo arrivare un giro di vite sulle spese esterne e sull’efficienza. L’azienda americana vuole il processo, lo standard, vuole trasformarci in soldati che non sprecano moneta di rame. E vuole tagliarci le ferie, non pagarci gli straordinari, lascare i traduttori senza companatico. Il tutto motivandoci a perseguire il bene dell’azienda.

E i traduttori tendono a starci, accettare sempre, anche quando potrebbero permettersi di non farlo. E questo seplifica la vita a quelli nel mio ruolo, ma io, che vengo dal loro stesso ghetto, provo una grande empatia.

A volte vorrei dirglielo, ai traduttori, che si svendono, mandargli un qualche genere di descantabaucchi. E un giorno lo farò. Anzi, forse è già ora. Valter, che abiti in Piemonte, sì, proprio tu, quanti Valter con la V credi che ci siano che fanno il traduttore in Piemonte? Perché, Valter, ti vendi a 7 centesimi di dollaro a parola? Sei conscio del fatto che sei bravo e anche se me ne chiedessi 10 o 11, di centesimi, io ti darei lavoro lo stesso? Lo sai che quando correggevo il tuo test per quell’azienda tedesca che comincia con Sie e finisce con Mens ero tentato a penalizzarti perché mandavi a remengo il mercato? Poi non l’ho fatto, ma solo perché a dieci anni mi hanno beccato che rubavo le macchinine al tabacchino e mio padre mi ha inculcato il valore dell’onestà, con metodi retorici e non solo, ché allora si poteva fare.

Però devo ammettere che mi piace, stare dall’altra parte del tavolo. Mi piace perché comunico con esseri umani da tutto il mondo. Ma non può essere tutto qui. Non so perché mi piaccia. Di solito nelle cose parto pieno di entusiasmo e dopo circa tre settimane mi stufo all’improvviso. Qui di settimane ne sono passate quasi il doppio e continuo a resistere. Boh, so solo che non sono i soldi, perché l’aumento non me lo hanno neanche dato. Non è la gloria, perché di contribuire al benessere dell’azienda me ne sbatte in maniera strettamente circoscritta.

Per ora me lo spiego in un modo solo: fare il traduttore è nocivo per l’autostima.

domenica 9 agosto 2009

Vorrei leggere come magno

Nel centro di Amsterdàm c’è piazza Spui e a volte ci sono io che faccio il giro delle librerie.

Allo Spui c’è l’American Bookshop, con quattro piani di libri fotografici, riviste, tutte le guide turistiche esistenti, una parete intera di romanzi da mezzi pubblici e un piano di narrativa in edizione tascabile, tascabile ma nobile.
All’altro angolo c’è la concorrenza, che è Waterstone, libreria inglese, con saggi, sport, viaggi, rosa, design e lo stanzone panoramico con poltroncine per sfogliare le Taschen nell’ambientino che fa per loro.
Là di fronte, alla libreria universitaria, offrono saggi molto specialistici, che ti fanno venir voglia di essere ogni volta architetto, politologo, sociologo. Il tutto in un palazzino in stile De Stijl.

Le giro tutte e non compro niente. Appunti mentali e torno a casa. Con internet non si compete.

Fare il giro delle librerie è come levarsi di torno per un po’, trovare spunti, scoprire argomenti che non sapevi che ti interessassero, ti capita in mano il sapore del tuo prossimo mese, esci da te stesso per una mezz’oretta. Insomma, tutta roba che altri ottengono facendo yoga o buttando giù sostanze poco biologiche. È una cosa che ho imparato su in Irlanda, le domeniche grigionere a rifugiarmi da Charlie Byrne’s, che a volte uno crede sia stato concepito all’uopo.

Questi spunti sono meccanismi che si innestano per caso, secondo criteri censurabili, perché di solito i libri che capitano in mano sono quelli con le copertine più belle, e secondo percorsi ricorrenti, viaggi-saggi-sport-romanzi solo T, ché a forza di cercare Theroux e Thompson, quelli li conosco tutti e gli altri molto meno.

Ma la cosa che mi blocca è l’anglocentrismo. In tutti questi negozi la maggior parte dei libri in vendita sono in inglese e mentre entrando in una libreria italiana si trovano traduzioni di ogni genere, nel regno anglosassone vige l’autarchia. Librerie grandi il doppio delle Feltrinelli più monumentali, dove quasi tutto è opera di gente che parla inglese.

E qui vale il principio dello sciroppo Fabbri, che se lo allunghi troppo poi non sa più di niente.

Nella saggistica il dominio anglofono è assoluto. Fra la narrativa si trovano un paio di eccezioni. Gli autori italiani di solito sono Eco, i Wu Ming/Luther Blissett, che sono diventati popolari in Inghilterra come curiosità da trasmissioni sportive, un Saviano sempre in offerta, il Milione e il Decamerone. Manco Primo Levi.

Così l’altro giorno ho fatto una lista degli spunti e mi sono accorto di quanto le mie frequentazioni domenicali stessero anglificando il mio panorama. T.C. Boyle, Philip Roth, Eggers, Salinger, un Fante digerito male, Franzen, Redmond O’Hanlon, Hornby che è come un ragazzino che guarda Friends ma è sempre divertente da leggere, Coe, Zadie Smith, Kureishi, Safran Foer.

Parlando di musica, ho sempre teorizzato che il predominio angloamericano derivi dalla lingua. Le scimmie artiche e gli Oasis ci sono in tutto il mondo. E chi ha detto che la versione inglese sia la migliore? E allora capace che convenga allargare la banda e andare ad ascoltare un po’ da un'altra parte.

Lo dico perché ho come l’impressione che il discorso valga anche per i libri.

Ora, siccome nelle intenzioni sarei un uomo di azione e siccome culturalmente tifo Europa, starei cercando di leggere meno inglese.

È che è dura. L’altro giorno mi sono sfogliato il sito della Minimum Fax e ho scoperto che anche là è tutto angloamericano. In italiano, ma è angloamericano.

E allora la ricerca continua, accetto consigli, basta che nessuno muoia di morte innaturale e non ci siano di mezzo assassini e commissari. Intanto il prossimo mi sa che parlerà ancora inglese.

giovedì 6 agosto 2009

Cicli di cicli

…maggio, giugno, luglio, agosto, fra una settimana fanno quindici mesi qui in questa terra che è a pari livello con pesci e delfini.
E finché la matematica resta un’opinione ben sostenuta, quindici diviso tre fa cinque.

Cinque non è un numero magico, non ha le implicazioni religiose del sette o l’onnipresenza del tre. Al massimo gli si concede la virtù di essere tollerato dai precisini che amano le cifre tonde.
Comunque questo particolare cinque è il numero medio di mesi di sopravvivenza di una bicicletta di proprietà del vostro scribacchino in questo paese così quassù, così quaggiù.

Tre biciclette in un anno e un quarto dunque. E le ho amate tutte.
La prima era una Batavus Torino verde e viola. Cinque cambi, linea anni ’80, comprata al mercatino di Waterlooplein in un giorno piovoso di fine maggio, con il venditore isterico per la pioggia e per la mia indecisione. Perché scegliere una bicicletta non è mica facile, quando ti sembrano tutte uguali. Per fortuna che c'è K che ne conosce i punti critici.
Che poi uno dice “mercato” e pensa a roba da bancarella, e se sono biciclette, allora sono rubate. Qui invece no, i mezzi sono raccolti dai noleggi e sono grossi calibri dai capelli appena appena ingrigiti. Il mio Batavio era un George Clooney bello ed elegante nonostante l’età leggermente avanzata.

Mi era diventato fedele, docile ai miei comandi, nonostante la ruota giusto un po’ storta, lo facevo trottare verso l’ufficio, pensando a come trasformare la scritta “Torino” in “Trentino”. Era una bicicletta di campagna, non ha retto la città. Il 17 ottobre pioveva, ero stato in centro a vedere Heavy Metal in Baghdad, che è un documentario su sti ragazzi iracheni che suonano in un gruppo peso, sulla ciclabile è arrivato uno con un motorino dalla targa blu, di quelli che sono autorizzati a girare sulle ciclabili a patto che tengano una velocità decente, si è spaventato, ha inchiodato, ho inchiodato anch'io, lo ho visto al rallentatore, cadere, poi scivolare a terra per dieci metri per fermarsi solo contro la mia ruota posteriore. Bilancio: nessun ferito, ma la ruota posteriore del Batavio da buttare.

È andata bene, ridendo trascino il biciclope ad una sola ruota fino a casa, una cosa come tre o quattro chilometri e poi vado a dormire pensando solo a sostituire la ruota.

Il giorno successivo giro una mano e qualche dito di negozi e tutti mi dicono che è un modello particolare e cambiare la ruota mi costa più del valore della bestia.

Bestemmio, mentre Dio pensa “Sai che novità”.

Comincio subito a cercare mezzi di seconda mano su internet. Uno mi porta a casa di uno di quelli che qui come in America chiamano gianchi. La bestia che mi propone si tiene a malapena su due ruote, è chiaramente rubata e se c’è una cosa che l’etica impone in questo fondale idrorepellente è “mai comprare biciclette rubate”.

Per un rampichino blu giro di bus in bus nel freddo di novembre. Lo vedo, lo provo, lo compro. Appena parto mi accorgo che è troppo piccolo per me. Lo uso lo stesso, ridicolo sulla mia bici palmare blu, che sembra la biemmeicchese dei ragazzini delle culture di strada, dopo una settimana si spegne la luce, poi la ruota posteriore mi cade in depressione e non c'è più verso di sollevarla. La ruggine arriva nell’arco di due settimane, nonostante il telo protettivo, e la palmare pedala da sola sul viale del tramonto.

Allora torno al mercato, dallo stesso personaggio, stavolta felice e disponibile, sarà il tempo. Sempre con il prezioso consiglio di K, allargandomi un po’ compro una meravigliosa Sparta verde scuro, che fila dieci volte meglio del Batavio e diventa presto la mia beniamina.
In sette mesi di vita, neanche una foratura.
Poi due settimane fa si incanta il cambio. L’eroica creatura sopravvive ancora un ritorno a casa dal centro e un’andata verso il lavoro, per poi cedere miserandamente sulla via del ritorno.

A Chiesavecchia, il villaggio dove lavoro, ci sono due negozi di biciclette. Uno è il temuto De Haan, in pieno centro, dieci metri dall’ufficio e prezzi degni del paesino di ricconi dove risiede, fra anziani matti e pittoreschi e giocatori dell’Ajax.

L’altro è Bas, che vive defilato e aggiusta biciclette per sportivi di livello vario. È uno che parla poco, ma è anche un ragazzo onesto. Un ragazzo onesto che è appena partito per tre settimane di ferie.

Bestemmio, e gli dei mi canzonano.

Porto la Sparta a De Haan, dove mi dicono che riparare la fedelissima mi costerà 120, mentre per riprendermela intonsa ne bastano 11 e cinquanta.
Pago 11, 50 e bestemmio. Gli dei continuano la mano di briscola.

E ora, dopo una settimana di bus mi attendono altri 15 giorni senza ciclo, roba che se fossi una ragazza, beh, la battuta fatela voi. Ritardi, deviazioni, biglietti, per chi gira in bus, sono cose da mettere in conto. Ma uno che è abituato ad essere il tassista di se stesso, uno che di pedivella, in centro ci arriva in mezz'ora, partendo quando vuole, andando dove vuole, libero, a queste cose non ci è più abituato. La bicicletta è il sogno americano del pendolare.

Anche perché qui si dà per scontato che uno abbia un paio di pedali sempre sottomano. Capita infatti che intorno a mezzanotte del venerdì uno proponga di andare dall’altra parte del centro a prendere una birra. Senza pedali non si fa. E poi va bene, ti caricano sul mezzo di un altro, rischi l’osso del collo almeno un paio di volte, fai partire raggi che manco i denti di chi si prende i pugni nei cartoni animati, ma alla fine ci arrivi, in centro. Poi però, dopo quella birra devi andare a caccia del 357 notturno, che per modici 3,50 ti concede un giro panoramico della periferia della durata di ore una, per poi lasciarti a un chilometro da casa.

Ed è bene che sia così scomodo, perché altrimenti uno, dopo essersi giocato sei ruote in un anno, avrebbe quasi voglia di lasciar perdere ed evitare ogni mezzo con meno di tre ruote alla volta.

Una domanda però resta: perché tutti i rampichini che ho avuto in Italia sono sempre durati decenni e queste utilitarie a pedali dopo pochi mesi si spaccano?
Forse perché, come si evince dal massiccio uso di componenti da sfigati quali copriruota, campanello e fanali, qui la bici non è sport, ma un mezzo di trasporto e pedalando con la fedele protesi musicale conficcata nelle orecchie i chilometri si macinano che è una meraviglia. Devo averne fatti, qui, in un anno, il triplo che in tutto il resto della mia vita, senza sentirli.

Ma non è valido. Sul piano son buoni tutti.