Sì, lo so che non scrivo più molto. Però va bene così. Un
po’ che in Australia ho imparato che non è che ogni secondo vada investito in
qualcosa, un po’ – un gran bel po’ – che ho un lavoro che mi fa passare giornate a scrivere, così
che quando spengo il compiutro poi mi tengo ben lontano dallo studiolo.
Però va bene così, eh. Mi piace, il mio lavoro. Avevo
iniziato per avere un reddito. O forse più per giustificare la mia esistenza in
questa nostra società, che non è che spenda soldi, io. Poi ci ho preso gusto.
Mi piace la varietà, che ieri sono passato dal profilo dettagliato delle 18 candidate
a Miss Svizzera al motto per una campagna pubblicitaria per restituire il
maltolto agli ebrei. Mi piace poter scegliere le parole per un testo,
quelle che trovo più adatte e più belle, eliminare gli anglicismi. Ma senza
estremismi, che se no mi riduco come il mio amico toscano che nelle traduzioni
ci scrive spengere. Mi piace anche l’effetto
dietro le quinte, che io conosco ora
le campagne che l’Unione europea renderà pubbliche fra dieci giorni. O tradurre
il fantaviglioso resoconto della festa natalizia della principale azienda di
telecomunicazioni svizzera. Chissenefrega, direte voi e io non posso certo
darvi torto, però pare che all’interno di questo corpo, forse a livello dell’Es qualcosa me ne freghi. Ed è meglio così,
che se no sarei disoccupato, credo.
Non scrivo, ma in compenso leggo un sacco. Anche perché ho
scoperto che alla Mediateca di Tolosa, possa
Iddio sempre averla in gloria, hanno una sezione completissima di
letteratura italiana nella lingua di Moravia e Balotelli.
Ora sto leggendo Paolo Nori, che anni fa, lette una volta
tre righe in libreria, ho concluso che al massimo se me lo danno gratis. Verdetto:
linguaggio fine a se stesso, esercizi di vanità. Punto(.) E infatti la
biblioteca me lo ha dato gratis, ed è bene così. Bassotuba non c’è. Mi ha catturato il titolo, un’immediata smania
di sapere non tanto chi è Bassotuba, ma perché Bassotuba. Allora ne ho lette
tre pagine e ho pensato subito che il suo stile deve avermi influenzato un
sacco quando ho cominciato a scrivere in questo bugigattolo qui. In realtà no,
non aveva influenzato me, che mai l’avevo letto, ma diverse migliaia di altri
blogghettari in giro per l’etere. Blogghettari che io avevo più o meno
consciamente imitato. In pratica il
Velvet Underground della letteratura italiana.
Comunque leggendolo, sto romanzo ambientato nel ’98, anno
lontano in cui la gente si parlava al telefono e le traduzioni le ricopiava al
computer e poi le stampava su carta, ho capito che sto stile così, tipo
parlato, non è poi così fine a se stesso come sembra. Io pensavo che alla fine
fosse un gioco, un po’ per fare i diversi, un po’ per non prendersi sul serio.
Invece no, ogni imitazione delle imperfezioni della lingua parlata ha un
effetto che ti dà qualcosa di preciso, un
grammo di tenerezza, un sorriso storto, un bacino sulla spalla.
Alla fine della fiera, sono cose belle.
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