Troppe cose da dire ci sarebbero, così che finisce che non
ne dico nessuna. Allora facciamo diverso, facciamo che stavolta provo a dirne
qualcuna, anche a caso.
C’è da dire che parrà scontato, parrà una di quelle risposte
che ti darebbe un turista di Tulsa, Oklahoma, ma se uno mi chiede qual è la
città più bella al mondo, io gli devo dire Venezia. Perché non ce n’è.
Perché a parte che non ci sono macchine, neanche volendo. Perché in ogni angolo
c’è una storia, un dettaglio che ha qualcosa da raccontare. Storie di viaggi,
da Marco Polo a Corto Maltese, come piace a me. Quasi roba da Salgari, che però era di Verona e chissà come l’avrebbe
presa. Noi troviamo un anziano veneziano che devia la passeggiata serale
per raccontarcene qualcuna. E finisce che la gente entusiasta riesce sempre a
contagiarmi.
Comunque a Venezia c’era l’acqua alta, i gabbiani a galla
che sostituivano i piccioni e i cinesi che sguazzavano, mentre gli autoctoni
bestemmiavano trasportando portantine per farci camminare i cinesi, con quella
R che hanno solo in laguna, che non è moscia, ma è spazzata via con il dorso
della lingua. Un cinese nell’acqua alta ci cade a pesce. Io cerco di mantenere un
contegno, ma sotto sotto me la rido, mentre lui spiana lo schermo dell’iPhone con la mano a tergicristalli.
Come un pesce. Ti saresti dovuto vedere, cinese, che scendevi direttamente dalla
gondola all’acqua alta e non hai considerato che la pietra sott’acqua è
scivolosa.
Sulla terraferma invece c’è una persona molto molto vicina a
me, che dopo tre anni di disoccupazione ha praticamente smesso di cercare
lavoro. Non che avesse mai cominciato davvero, che tanto c’era la scusa della crisi e se non ce la fanno i miei amici,
perché dovrei farcela io? Così mi sa che finirai anche tu, caro parente mio, a
raccogliere le mele, che a te magari fa schifo, ma credimi, guadagneresti il
triplo del gestore d’azienda che vorresti diventare. Sembra stizza, ma è il
cuore che parla onesto.
E infine c’è quel tipo sull’aereo, sulla cinquantina
brizzolata, che prima parla di Marchionne e Benetton col fratello italiano di
Depardieu e poi qualcosa d’un tratto mi distoglie dall’Autobiografia di
Morrissey ed è lui che mi apostrofa oh,
dovresti guardare sotto il sedile, che mi sono caduti gli occhiali, così,
senza un per favore, uno scusa o meglio uno scusi, che a me hanno insegnato a dare del lei. Poi, appurato che gli occhiali
gli erano finiti sotto il culo, torna sulle sue e si mette a sfogliare Libero.
E allora io penso che devono essere questi, sti capi di cui mi racconta chi lavora in Italia, che ti allungano
ottocento euro messi male al mese e dire grazie che ti pagano per quel merda di
lavoro che fai.
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