domenica 25 aprile 2010

Scandali ciclici

Chi dice che in Italia non si seguono le regole?
Come ovunque nel regno animale, anche nel Belpaese ogni cambiamento è sottoposto agli inderogabili dettami di fisica, chimica e biologia, oltre alle conclusioni di un selezionato entourage di opinionisti della RAI.

Procederemo in questa sede con l’analisi delle regole del più tipico dei fenomeni italiani: lo scandalo.

Quando uno scandalo viene a galla tutti si incazzano. Vengono indetti processi lampo, intercettazioni scottanti vengono sottoposte al vaglio degli inquirenti. Chi siede al banco degli imputati potrebbe essere torturato, tanto sarebbero tutti in a favore.

Così dopo processi lampo si prendono misure drastiche di giustizia sommaria. Si mettono in atto giri di vite e si passa alla tolleranza zero.

Poi la cosa viene messa a riposo per un po’, come il formaggio di fossa in attesa che arrivino i vermi. Nel frattempo entrano in campo le prime teorie complottistiche, che i più prendono automaticametne per vere o comunque per sicurezza affermano che tanto sono tutti ladri, tanto rubano tutti, così tagliamo la testa al toro e morta là.

Poi si finisce per crederci. È un mondo marcio, un ambiente malato, si stava meglio quando c’erano i ladri e anche chi ha giudicato i ladri è un ladro. È qui che si comincia a parlare di giustizialismo. Un termine dispregiativo che esiste solo nella nostra madrelingua e indica chi ha la malsana abitudine di esagerare con l’applicazione della giustizia. In italiano, Batman e Robin Hood sono giustizialisti.

Così si riaprono i processi, si scoprono nuove intercettazioni. I ladri diventano vittime perché tanto rubavano tutti e loro sono solo le vittime designate di poteri più forti di loro.

Alla fine, visto che era tutto un magna magna e si punisce tutti o nessuno, si termina con l’amnistia generale. Allegria.

E intanto per l’inaugurazione di Via Moggi manca solo che l’intestatario crepi.

giovedì 22 aprile 2010

Amsterdam Graffiti

C’è un bambino che passa la palla al papà, che si lancia verso di lui e lo scarta con un agile gioco di gambe, scatta, si accentra e nel momento in cui è pronto per tirare ci ripensa e disimpegna verso il figlio. Fra di loro parlano francese, finché arriva la madre, che viene confinata fra i pali come si fa all’oratorio con i bambini scarsi e – appunto – le femmine. Lei però ce la mette tutta per non mettere in cattiva luce il suo sangue sudamericano. O forse boh, magari per altri motivi.

Io sulla panchina sull’altro lato del sentiero di ghiaia in teoria leggerei un libro per prepararmi per Samarcanda, ma quando c’è in ballo una partita di calcio gli occhi mi migrano in automatico dai righi di inchiostro modellato in segni al pallone con i piedi intorno. E non vale mica solo per me.

Arriva un altro bambino sui dieci anni, parla col padre. È chiaro che vorrebbe giocare anche lui. Papà lo incoraggia.

“Vai, digli che vuoi giocare anche tu. In olandese si dice ‘Mag ik spelen’”
“No, dai, sono in famiglia, e poi non si diceva ‘kan ik’”?
“No, ‘kan’ è più ‘posso’, come dire ‘posso fare qualcosa’. Qui è ‘mag’: ‘mag ik spelen’”

Attacco bottone con papà. Sono di Roma e lo si era già capito dall’accento. Sergio ha una discoteca laggiù e ci torna ogni fine settimana, tranne stavolta, con i voli fermi causa vulcano. Nei feriali vive ad Amsterdam, più comoda, condizioni più facili con i bambini, anche con una lingua in più da imparare. Tra poco il piccolo lo metteranno in una scuola apposita per chi non conosce la lingua. Intanto dice che già ora a scuola cercano di insegnare parlando il meno possibile, in modo da agevolare gli stranieri. Che sono tanti.

Si accorge che anche gli altri sono stranieri.

“Hai visto, la madre è spagnola, se parli italiano lentamente ti capisce”.

Dopo un po’ il bambino parte.

“Kan ik spelen?”
“Ja, ja, kom, kom”

Lontano dal figlio, Sergio illumina una canna e osserva. I bambini giocano, parlano italiano, francese, spagnolo e olandese, che un po’ alla volta si capisce tutto. Tanto alla loro età non si parla mica di Hegel.

venerdì 16 aprile 2010

That long black cloud is coming down

I giornali dicono che oggi nel cielo alto dei Paesi Bassi c’è una nuvola di fuliggine nera che svolazza come se Iddio avesse intinto un calamaio nella stratosfera.

Lo dicono i giornali e lo direbbe anche la tivvù, se la gente capisse la lingua che parla, la tivvù, in questa nazione.

E allora deve essere vero. Così oggi, se guardi bene, il cielo è nero. No, non è la solita foschia, deve essere fuliggine, perché lo dice la tivvù anche se lo dice in olandese.

“Guarda che è bianco scuro”
“No, se ci fai caso è più antracite”

Finisce che guardi bene e ti ci convinci un poco anche tu.
Poi stasera il notiziario dirà che la nube non è visibile ad occhio nudo e l’incantesimo si spezzerà. E se non lo capisci, meglio, che le illusioni sono le soddisfazioni più belle.

mercoledì 14 aprile 2010

Arte

C’è sto tipo ad Amsterdam, che gira a fare graffiti. È chiaramente bianco, olandese, di buona famiglia. Lo so perché lo spray non lo spruzza sulle case come fanno quelli che la casa non ce l’hanno, ma li butta giù sui pannelli di compensato dei cantieri. Tanto i cantieri in città non mancano mai. Finiti i lavori, il pannello si smonta e se capita magari lo puoi vendere per un paio di euro.
E per la cronaca: meglio così che sui muri della case, che mi spiazzano, gli elementi testuali ai quali non posso assegnare un significato.

Si firma qualcosa tipo Laser e sopra la firma butta giù frasi sempre diverse, laconiche, romantiche, nostalgiche, vagamente poetiche, piuttosto banali. Roba tipo “E i nostri cuori si uniranno come [inserisci metafora]”. Del resto, dellamore è stato dettotutto, non te lo hanno insegnato alle medie?

Insomma, ogni volta che passo davanti a qualche cantiere, il buon Laser mi fa grugnire un po’, ma neanche troppo.

Poi un giorno mi fermo alla libreria americana allo Spui e mi accorgo che non solo vendono un libro di fotografie delle sue frasi da cantiere, ma gli hanno dedicato la vetrina per un mese.

Penso che qui ci sia troppa arte, in questa città. In un paese dove ti va sempre bene, dove comunque vada è un tuo diritto sbarcare il lunario, sono tanti quelli che provano a vivere d’arte e troppi quelli che ce la fanno. Così alla fine gli abusati quindici minuti di gloria non si negano a nessuno. Non a Laser. Neanche a chi ha pensato di mettere una scritta tipo quella di Hollywood sulla collinella di Westerpark (ovviamente c’è scritto Westerpark e non Hollywood, che se no magari avrebbe avuto anche un senso).

Che poi boh, forse è una cosa positiva.

No, la scritta di Westerpark no.

venerdì 9 aprile 2010

Case bianche squadrate

Consideravo, mentre pedalavo, che oggidì per starci veramente dentro bisogna farsi vedere distanti, freddi, come i rappisti criminali o quelli che si comprano il Cayenne.

Considerazione che parte dall’architettura, anzi, dalla geologia, perché per studiare i cambiamenti nel corso della storia si studia la geologia. Ma la geologia va bene solo per tempi più allungati. Per la storia più recente, quella degli esseri umani, quella sociale, c’è l’architettura, che poi altro non è che la modellazione degli elementi geologici da parte dell’uomo.

È che un anno fa, quando abitavo a Zuid, c’era una casa in costruzione che vedevo ogni mattina pedalando, bianca, fredda, con cortiletto asfaltato e Porschcayenne nero parcheggiato sempre all’ingresso. Poi ho cambiato lato, dopo il trasloco a Diemen sono passato all’altra sponda. La casa non era ancora finita, ma ho assistito alla rapida crescita di un'altra praticamete identica: quadrata, bianca, Porschcayenne nero davanti all'ingresso. Giardino completamente acciottolato, siepe e alberi trapiantati, terrazzo sulla parte posteriore, lontano dal fiume, ma con vista sull'autostrada, interni perfettamente visibili di notte, non un oggetto, un soprammobile, un libro. Solo freddo, anche attorno al camino. Lusso e freddo. Troppa serietà.

Ora torno sull’altro versante. La prima casa bianca è finita, c’è una piscina affondata nell’asfalto del piazzale, ben in vista dalla strada. Sopra le finestre hanno issato tendine da esterni. Grigie, come le scaglie di tegola plastificata sul tetto. Il Cayenne è sempre là. Sembra una casa di plastica, con la plasticità della pietra. Qualche chilometro più in là ne hanno costruita un’altra. Devono avere uno stampo, da riempire di materiali di costruzione e infornare come le torte. Breve cottura e la casa è fatta. Ingegnere, occhio che non lieviti troppo. Bianca anche lei, con la sua siepe d’ordinanza: manca solo il Cayenne, ma in compenso hanno una Bentley. Nera, savasansdir.

Tutte ste linee rette, sta serietà e sto rigore marziale, l’impressione è che i nuovi ricchi si prendano un sacco sul serio.
Pensi che in fondo fa ridere, è tenero vedere la gente che si prende sul serio, inconscia del fatto che gli altri magari gli ridono alle spalle.

Poi se ne parla, della casa bianca, non sei neanche tu ad introdurre l’argomento, ma il tuo capo, durante una riunione. All’inizio è una conferma, tutti si fanno delle grandi risate alle spalle del poveraccio che si fa costruire la piscina rialzata, in modo che la si possa ammirare dalla strada. Poi lo guardi in faccia, il capo, negli occhi noti quel bagliore che nei fumetti indica l’invidia.

Allora forse hanno ragione i nuovi ricchi. Magari la gente gli ride alle spalle – quello sì – ma in fondo li invidia. E se uno invidia qualcuno, significa che vorrebbe essere nei suoi panni. Uno invidia il collega che prende cinquemila euro al mese per darti da fare quello che dovrebbe fare lui, mentre lui aggiorna la sua pagina su Facebook, per il semplice motivo che anche lui vorrebbe guadagnare lo stesso per fare lo stesso. Quindi uno che invidia chi si è fatto costruire la casa quadrata bianca vorrebbe farsene fare un’altra ancor più bianca e più quadrata.

Solo che non capisco perché si dovrebbe invidiare uno che ha una casa che quando la vedi ti si para automaticamente davanti l’immagine di come deve essere lui: ricco, solo, uno che alle medie deve aver sofferto le forme più contorte di bullismo. American Psycho senza neanche le palle di concedersi gli istinti omicidi. Uno che ti fa pena.

Il più grande male di questa società: troppo potere a chi si prende sul serio.

martedì 6 aprile 2010

Partire, però davvero

Ci sarebbe sto cosino qui che ho finito di scrivere tempo fa, fra pacchi e pacchetti nell’appartamento di Diemen, in attesa di un nuovo trasloco.

Mentre completavo la storia mi chiedevo perché lo stavo facendo. Perché scrivere un resoconto di un viaggio presentando unicamente la mia visione, senza alcun intento informativo. Perché sputare in pubblico la mia storia privata. Sentimenti, addirittura. E se poi uno legge?

Me lo sto chiedendo mentre scrivo, e al contempo cerco di rispondermi. Informazioni non ce ne sono perché quelle le trovate da altre parti. Ve le racconta gente più informata di me. Gente che il viaggio lo ha fatto più lungo, più arduo, prima di me. I nomi non vi servono, probabilmente li trovate perfino sulla Lonely Planet. Io mi sono solo guardato attorno. A volte ho cercato di capire quello che vedeva Marco Polo, ma più che altro mi sono curato di quello che vedevo io. Non un viaggiatore, un ricercatore, un avventuriero, ma uno che si è preso tre settimane di ferie perché era il massimo che il capo gli concedeva e il giorno prima di partire è rimato in ufficio fino alle 7.30 a scrivere il piano di lavoro per chi lo avrebbe sostituito. Chi per tre settimane, ma solo tre, ha deciso di vivere per guardare, ascoltare e annusare (perché le fotografie e i suoni li trovate su internet, ma gli odori, al massimo qualcuno al ristorante) e mescolare tutto nel modo più soggettivo possibile, ché non pretendo mica di raccontarvi le cose come sono, mi accontento di come sembrano a me.

E le cose che ho visto (sentito, annusato, toccato con mani sporche di giorni), le avrei viste diverse se nel frattempo non fosse successo quello che stava succedendo dove passavo, e allo stesso tempo in Europa, con una manciata di ore di fuso orario di mezzo. Se non avessi incontrato la gente che ho incontrato, o se solo avessi avuto un telefonino più moderno, col quale chiamare casa dalla taiga e dalla steppa.

Un viaggio che mi ha cambiato, già dal sei gennaio duemilanove (giorno in cui ho comprato il biglietto), mi ha cambiato ancora sulla via e soprattutto dopo il ritorno. Continua a cambiarmi: l’ultima volta è stata domenica scorsa, con il trasloco. La prossima forse domani, quando chiamerò l’ambasciata uzbeca per i visti. La persona stessa che ha iniziato questo racconto, in ottobre, non è la stessa che lo ha terminato, sei mesi dopo. È una bottiglia che era convinta di aver trovato la pace, tappata e in attesa di invecchiare felice acquistando sapore, stappata poi in un momento di follia ad una festa nella quale tutti erano ubriachi e il vino migliore è stato trangugiato alla fine, perché era l’unico rimasto. Ora è stata riempita di nuovo e tappata ancora, ma spera sia Lambrusco da 2 euro, per essere aperta al più presto.

Si stava meglio prima, certo, era più facile. C’era la convinzione che l’andamento delle cose seguisse delle regole. Ma se è dato, nella vita, sbagliare ed esserne contenti, credo di averlo fatto.

Ora basta parole. Se hai tempo, se hai voglia di viaggiare, magari buttaci un’occhiata. E poi ti do anche un consiglio, un’ultima parola in questo tono laconico se se fosse un altro ad usarlo non lo sopporterei. Se pensi “bello, ma non lo farei” continua sulla tua strada, ma se pensi “mi piacerebbe”, per una volta, fallo davvero.

venerdì 2 aprile 2010

Cronaca di un sedicesimo trasloco


Domenica scorsa, prima di prendere la bici per andare a ritirare il furgoncino, prima di giocare a Tetris da bagagliaio con scatole, scatoloni e altri oggetti di geometria non per forza regolare, Lilù mi ha detto che ora che si cambia casa, vuole cambiare vita.

A Lilù piace cambiar vita, annuncia spesso di farlo. Lo annuncia così spesso che dopo un po’ ti stupisci se pensi che quando ha deciso di venire a vivere ad Amsterdam lo ha fatto davvero.

Stavolta però insiste, motiva, fornisce esempi pratici e possibili scenari. Quando la vedo lavare i piatti rimasti, di sua iniziativa, passare lo straccio nel bagno della nuova casa, allora capisco che forse stavolta è quella buona. Potrebbe farcela, magari anche per un paio di giorni.

Dice che ogni trasloco ti cambia il modo di vivere. Io dissento. Se così fosse, nell’arco degli ultimi 10 anni e 5 mesi avrei cambiato vita 16 volte, invece l’ho fatto solo 7 volte, contando le maggiori mutazioni di scenario e le ragazze che mi hanno sopportato più a lungo.

Comunque ad una settimana o quasi dall’evento, nella mia vita è cambiato quanto segue:

- Ho imparato ad abbassare la tavoletta del vater (il cesso nuovo sa di piscio sedimentario di generazioni precedenti, roba che manco lo avessero affittato ad una famiglia di gatti).
- Sono ufficialmente un atleta, non solo dall’inguine in giù (invece di un’ora e venti di bici al giorno ne faccio due e dieci, a cui aggiungere due rampe di scale – strette, ripide – con la bicicletta in spalla come i bersaglieri: un esercizio piuttosto completo, direi).
- Non ho scritto nulla per una settimana (in questo momento lo sto facendo di strafugo dal lavoro, solo perché è venerdì santo e non ho molto da fare. Il numero dei pacchetti accatastati in soggiorno non accenna a calare).
- Ho la barba (il rasoio è in fondo alla valigia blu. O nel cestone dei libri?)
- Invece di una coinquilina ho una convivente (definizione di suo padre, attendo solo di comunicare la notizia a mia nonna. Magari un giorno le dirò anche che la mia PACS non è cattolica).

Per quest’ultimo motivo, e forse un po’ anche perché ulitmamente lo nomino solo parecchio invano, il Signoriddio deve averci gettato contro il malocchio. Che poi se ci pensi, è il colmo che la divinità ti mandi contro il diavolo. È un po’ come se il Presidentissimo nominasse Beppe Bergomi ministro dello sport. Tradotto per le mie lettrici (è ormai risaputo che questo bugigattolo qui lo leggono solo le ragazze), come se Veronica Lario diventasse il ministro della famiglia. In questa legislatura.
Signoriddio o signoriddei, a seconda che uno sia monoteista o politeista, ieri era il primo aprile e invece del solito pescetto di carta, dietro la schiena mi sono trovato la sfiga in persona.



Il programma è semplice: dopo lavoro si va a Diemen, all’appartamento vecchio, lo si pulisce, si consegnano le chiavi e si porta via l’ultima roba con le biciclette rimaste là: l’ammiraglia di Lilù e la mia di riserva (in gergo tennico: “il muletto”).

Tutto liscio fino alla consegna delle chiavi, a parte quella mezz’ora di straordinari proprio il giorno sbagliato e il fatto che devo trascinarmi dietro il portatile (“lappetoppe”, si dice qui) per connettermi a distanza al computer dell’ufficio e controllare una consegna proveniente dalla California (quelli, si sa, si alzano tardi), nell’appartamento deserto, fra l’aspirapolvere e lo spazzolone. Ma questo non basta per parlare di sfiga.

Tutto ancora più che liscio verso le 10, quando carichiamo sulla bicicletta diversi prodotti per la pulizia della casa, un sacchetto di patate, un contenitore di vetro pieno di farina, il sopraccitato portatile, vestiti, tende e soprattutto un mociovileda completo di secchio d’ordinanza. Don Chisciotte allampanato, con il suo destriero, mocio in resta e secchio a mo di scudo. Mi spiace per Lilù, ma con il completo da pioggia addosso e la bicicletta con le borse gonfie di vestiti dietro, non posso far altro che assegnarle il ruolo di Sanciopanza.

Salutiamo Koko, l’alpaca del minizoo dietro l’angolo, lui che ogni sabato mattina ci belava la sveglia (muggiva? barriva? grufolava? ragliava?). Spinti da timore reverenziale verso l’elevata quantità di mulini lungo l’oremmezza di ciclabile da Diemen a Spaardammerbuurt, decidiamo per la prima volta di caricare Ronzinante e il muletto sulla metro.

E questo ci sta, ci sta che piova, faccia freddo e tiri un vento che manco nel Mare di Weddell. Ci sta anche che ci si metta mezz’ora per capire come varcare le mura della metro con bardatura completa. Alla fine basta spingere il mociovileda oltre il cancello come il cavallo di Troia, il sensore ci vede snelliti, saluta le nostre tessere ricaricabili con un bip e ci apre le porte della terra di Stramezzo.

È qui che ci si para dinnanzi il dilemma decisivo. Come raggiungere la pensilina sopraelevata? Io faccio per andare verso l’ascensore, aperto e illuminato come il trono di San Pietro, ma Lilù mi precede e imbarca Ronzinante sulla scala mobile, per guadagnare qualche secondo. A quale pro, ci si chiede con il senno di poi, considerando che abbiamo appena sentito la metro passare e dovremo comunque attendere dieci minuti. Ma questi sono quesiti che il cittadino del mondo non si pone: soffia il vento, infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar, come recitava un antico adagio.

Aizzato dal miracolo della scala che si muove da sola, Ronzinante si imbizzarrisce e si impenna lanciando un nitrito metallico disperato. Mi giro e vedo Lilù crollare come il partigiano di quella fotografia di Robert Capa, sotto il peso di Ronzinante e rimanere sdraiata come un crocefisso dissacrato in una guerra troppo santa, mentre la scala la trascina verso l’alto. Fisicamente, non solo l’anima come succede a quelli che risorgono.

Sulla cima del suo personale Calvario, il crocefisso viene soccorso da due diemeniani in attesa della 51 per Centraal, io la raggiungo di corsa e lei con voce flebile fa appena in tempo a mormorare “torna giù e prendi la bici, prima che te la ciulino”. In inglese.

Tranquilli, la bici c’è, anche la sfiga ha un limite, la porto su, con l’ascensore ovviamente, mentre Lilù si lecca le ferite. I Signoriddei hanno pensato di punirla in questo periodo di penitenza quaresimale per mezzo di contusioni sui punti più peccaminosi del suo giovane corpo, seno e inguine, non trascurando, con sottile ironia, l’osso detto anche sacro. E pensare che di solito mi piacciono, gli dei dotati di spirito.



Ma non è mica finita qui, eh, che non si pensi. Carichiamo Ronzinante e il muletto, spada, scudo, lappetoppe e mociovileda sulla 51 e in venticinque minuti di studio dello spostamento dei pesi durante frenate e accelerazioni siamo a Centraal. La casa nuova è a dieci/quindici minuti di pedivella, le porte di Itaca ci si parano di fronte. Ma prima di quelle di Itaca ci sono i cancelli della metro da varcare di nuovo, perché ad Amsterdam non basta fare il cecchin, ma da un paio di mesi ti tocca fare anche il ceccaut.

È qui che Lilù si accorge di aver perso il tesserino nella colluttazione con la scala mobile. La blasfemia non aiuta, ma in questo caso ci supporta comunque più dei controllori ai cancelli. Non ci sono cristi, ci tocca tornare a Diemen Zuid. È quasi mezzanotte e nel vagone la colonna sonora è l'imprecazione francofona (che poi diciamocelo, sempre di quei due o tre epiteti si tratta, ancora una volta non c’è confronto con il genio italico). Intanto io me ne sto là, bici in una mano, mociovileda nell’altra, tenendomi in equilibrio con la fronte appoggiata alla sbarra, in un silenzio tale che la mia neoconvivente deve sospettare un’ultima cena a base di pane e Xanax.

Ovviamente a Diemen la tessera non si trova, ma si trovano due controllori un po’ più disponibili degli strani ceffi di Centraal, che ci indicano la via per Damasco.
Per fortuna Amsterdam è più vicina. Ci trasciniamo a casa sotto la pioggia, in una scia ancora interrotta di “putain”, “bordel” e “merde”, che alla fine se non mancasse ogni accenno alla divinità crederesti che stia imprecando in padovano. A casa ci accolgono i pacchi ancora da spacchettare, con un sorriso sornione e la manina ad indicare le poche ore rimaste prima della sveglia anticipata, perché mi tocca mediare fra i californiani di prima e il traduttore in Corea.

Nei giorni successivi, a causa a turno di californiani, coreani, computer che non si connette perché il tennico ci ha dato la parola chiave sbagliata, i pacchi hanno modo di spassarsela bellamente alle nostre spalle. E questo fine settimana abbiamo già prenotato la macchina che ci dovrebbe portare a nord, per tornare lunedì sera, con i pacchi ancora là a sfottere.

Mi sa che questo trasloco la vita me la sta cambiando davvero. Sto imparando la pazienza. Altro che tavoletta del cesso.