L’estate arriva tutto d’un colpo, senza che neanche te la
preannunci la signora del meteo, che di solito qui fa le previsioni fino alla
settimana dopo e di conseguenza non ci imbrocca mai.
Dopo il lavoro è bello uscire di casa e sbucare sul molo
degli esuli catalani, che nel frattempo sono sbarcati da una sessantina d’anni
e hanno lasciato il posto a quel gruppo di profughi che ha occupato il
parcheggio. Che poi forse sono zingari, ma non posso mica andare là a
chiederglielo:
Sai, è per il mio blog
Fratello, ma tu lo sai dove te
lo devi mettere il tuo blog?
A volte mi ficco sotto una spalla un libro, proprio come i
francesi degli stereotipi tengono le baguette, e vado a leggermelo in riva al
fiume. Altre volte vado snello, che un libro bello è un peccato leggerlo troppo
in fretta.
Allora cammino fino alla fine della bancina, dove il fiume
forma una cateratta, dove c’è una lunga passarella di metallo, che quando è
aperta ti porta direttamente al parco del museo d’arte moderna. Per arrivarci
dalle vie cittadine ci vuole almeno un quarto d’ora, perché bisogna prima
aggirare l’ospedale col suo cupolone da chiesa, che se non lo sapessi, che è un
ospedale, diresti piuttosto un monastero. La passerella è uno dei miei posti
preferiti, perché sono sospeso sul fiume, con l’acqua che cade dalla cateratta
come vetro liquido, talmente forte che mi viene il riflesso di tenermi fissi
gli occhiali. Dalla passarella getto un’occhiata a un isolotto di sassi, con un
albero piantato in cima come una bandiera. Là l’anno scorso ho visto un martin
pescatore, quasi irreale nel suo frullo arancione vivo in mezzo a questi colori
di mattone. Quest’anno invece c’è una garzetta, un trampoliere così bianco che
ti chiedi come fa, senza manco potersi lavare. Dietro la nuca ha un riporto di
piume bianche che svolazzano al vento mentre lui se ne sta là col becco pronto,
aspettando che la corrente gli porti un pesce da fiocinare.
Arrivare al di là della passarella non importa più di tanto.
La vista sulla città è magnifica, ma lo è dappertutto attorno al fiume, con i
coni dei campanili che sembrano stalagmiti. Entro nel parco giochi e visto che per
una volta non c’è nessuno mi arrampico sulla parete da scalata per i bambini.
Abito in via del crocefisso, un nome che in questo paese
così laico fa ridere o lasciare increduli, ma soprattutto una parola che
nessuno sa scrivere. È una strada inutile all’occhio automobilistico, perché si
fa prima a fare il giro, troppo stretta fra alti muri che nascondono giardini
fitti di foglie che non ingialliscono mai. Il giardino che vedo dalla finestra
del mio salotto è curatissimo, nascosto da un albero fitto che emana lo stesso
odore della negritella, un’erba di montagna che profuma di cioccolato. Lilù e
io, per vedere cosa si nascondeva dietro l’albero, una volta abbiamo visitato
l’appartamento di fronte, fingendo di volerlo affittare. Cosa c’era? Un
albicocco, fiori, rampicanti. Un giardino segreto, insomma.
Da sotto le fronde,
ogni sera fra le 9 e le 10 si sente un fischio che sembra quello del richiamo
di un cacciatore. Non ho ancora capito chi sia, da dove venga e a cosa serva,
ma in queste sere tiepide i rumori sono ancora più vividi, come quello l’acqua
che precipita dalla cataratta, o le urla degli studenti che attraversano il
ponte per andare a bere. Eterno sociologo, mi chiedo se prima che arrivasse MTV
la gente per strada emettesse già quelle urla stridule che secondo me derivano
da sovraesposizione a quelli di Pimp My Ride quando vedono la macchina rifatta.