domenica 26 ottobre 2014

I bianchi e i neri



Se mi chiedi cosa ne penso del Sudafrica, ti dirò che ne so meno di prima. Perché cosa deve fare uno per capire? Deve ascoltare bene quello che gli raccontano, ma anche mettere in dubbio e verificare di persona. Mettere i pensieri sul tavolo e riordinarli un po’ alla volta. Solo che dopo 3 settimane i pensieri sono ancora in tavola.

Mettere in dubbio è facile. Perché non può essere che tutto quel filo spinato e quelle guardie armate rispondano a una situazione reale. I bianchi erano abituati così sotto l’apartheid, e rimanendo fermi in un posto è difficile rendersi conto che le cose cambiano, dice Lilù. Infatti quando facciamo un giro nel famigerato centro di Giovannisburgo, pur essendo gli unici bianchi per un paio d’ore, la sensazione è che la gente sia tranquilla, non ci squadri neanche più di tanto, e i palazzi e gli edifici sembrano puliti e neanche troppo disordinati. Molto meglio del centro di Dakar, per dire. Eppure le cose accadono: dove abita Claudia sono entrati tre volte nel giro di un anno, e chi mi può dire che in quelle due ore non siamo semplicemente stati fortunati? Vai in certe zone di Parigi e vedi che ti va peggio, ribatte Lilù e la sua voce è ancora una volta quella della saggezza. È sempre così quando c’è gente che sta peggio di altra, più si acuiscono le differenze sociali e più la situazione diventa violenta. Perché se tu la tivvù al plasma non sai cos’è, rimani felice nella tua beata ignoranza, mentre se ne vedi uno dalla finestra che dà sul soggiorno del vicino, ti viene quantomeno da chiederti per quale strano motivo non puoi averne una anche tu.

Ad esempio quando entri in Swaziland ti senti subito più felice, perché vedi che anche la gente che hai attorno lo è. Non hanno la macchina, ma nei giardini hanno delle giacarande e delle buganvillee con colori che manco sotto l’effetto della segale cornuta. Spesso vivono in queste specie di muffin di fango con il tetto di paglia (si chiamano rondavel), che sono mille volte più belli dei casoni di mattoni e lamiera del paese di Mandela. Ufficialmente gli swazi sono molto più poveri dei sudafricani, eppure hanno espressioni molto più rilassate, sono più amichevoli e parlano molto meglio l’inglese. Se si cominciasse a parlare di ricchezza in termini di istruzione e felicità, chissà come cambierebbero i valori. Eppure lo fanno solo in Bhutan.

Ma cosa pensavi, che si potesse distruggere un sistema in una generazione? No. Infatti spesso me lo ripeto. Ma il razzismo alla rovescia è il modo giusto per farlo? Favorire i sudafricani neri a scuola non è forse un modo di rimarcare la differenza fra neri, bianchi, meticci, asiatici e neri immigrati? Anche perché appena dalla scuola ci esci, il vantaggio si annulla e vanno avanti solo quelli con meriti reali.

Alla fine, dal Sudafrica ne esco un po’ razzista. Riparto con un pregiudizio contro gli afrikaner bianchi, quelli che parlano afrikaans, con i loro quintali cuciti addosso a forza di braai, i bakkie da diporto, il fucile e il baffo da americano che tiene in ostaggio scuole con armi semiautomatiche. Per loro recupero urbano significa creare un centro commerciale in un quartiere povero, dove impiantare i più importanti fast food in franchising. A Kimberley, se chiedi dov’è il centro, ti mandano a quello commerciale. A Bloemfontein invece il centro c’è, ma è uno stagno sul quale si affacciano McDò, negozi di mobilia in stile caccia grossa e lo stadio. 

Sempre a Bloemfontein, la sorgente floreale dove tutti sembrano andare solo per le immagini evocate dal nome, incassiamo l’unica mezza fregatura di questo paese così criminale. Servita da bianchissimi afrikaner. Arriviamo in città sul tardi e il tipo dell’unico alloggio a buon mercato indicato sulla guida del Pianeta Solitario ci dice che non potremmo capitare in un momento peggiore: in città c’è un pericolosissimo festival of the blacks (I’m not racist, but that’s what it is) e tutti gli alloggi in città sono pieni. In centro manco andarci, che quelli sono tutti bevuti. Ci dice che per fortuna il suo vicino Julius è un tipo ospitale e fa favori alla gente in caso di emergenza. Così per un paio d’ore ci tocca sorbirci i monologhi del vicino, che decanta il senso di ospitalità della sua gente e ci racconta di come io l’Europa l’ho vista tutta, ci sono stato per 21 giorni, chiosando con un sì, lo so che voi italiani non mangiate carne di dubbia provenienza. In garage Julius ha una piattaforma girevole di ferro da applicare sul retro del suo pickup per poter stare seduto comodamente mentre spara alle belve. Al cesso tiene copie di riviste sulla pesca in alto mare.

Quando a bordo del suo divano di pelle che galleggia a largo di un soggiorno sconfinato ci rivela che noi europei siamo tutti ricchissimi rispetto a loro, decidiamo che è ora di andare a mangiare qualcosa al centro commerciale, cosa che facciamo dopo essere stati presentati al figlio che ci racconta di come gli capiti spesso di invitare ospiti a dormire qui da noi. Al ritorno, sul letto c’è una ricevuta intestata a una fantomatica “Guesthouse Genevieve”. Sono le 9 di sera e la casa è vuota. A giudicare dai rumori, Julius ha abbandonato il plasmone per la televisioncina di camera sua. Sembra che ora si vergogni ad esibire il suo baffo da Arizona. La mattina dopo rivedremo solo la moglie, che la sera prima sembrava così a disagio con noi e ora si sforza di rompere il nostro lapidario silenzio con sorrisi e abbozzi di conversazione. Ci risparmieremo il beneficio della risposta.