Se mi chiedi cosa ne penso del Sudafrica, ti dirò che ne so
meno di prima. Perché cosa deve fare uno per capire? Deve ascoltare bene quello
che gli raccontano, ma anche mettere in dubbio e verificare di persona. Mettere
i pensieri sul tavolo e riordinarli un po’ alla volta. Solo che dopo 3 settimane i pensieri sono ancora in
tavola.
Mettere in dubbio è facile. Perché non può essere che tutto
quel filo spinato e quelle guardie armate rispondano a una situazione reale. I bianchi erano abituati così sotto
l’apartheid, e rimanendo fermi in un posto è difficile rendersi conto che le
cose cambiano, dice Lilù. Infatti quando facciamo un giro nel famigerato
centro di Giovannisburgo, pur essendo gli unici bianchi per un paio d’ore, la
sensazione è che la gente sia tranquilla, non ci squadri neanche più di tanto,
e i palazzi e gli edifici sembrano puliti e neanche troppo disordinati. Molto
meglio del centro di Dakar, per dire. Eppure le cose accadono: dove abita
Claudia sono entrati tre volte nel giro di un anno, e chi mi può dire che in
quelle due ore non siamo semplicemente stati fortunati? Vai in certe zone di Parigi e
vedi che ti va peggio, ribatte Lilù e la sua voce è ancora una volta
quella della saggezza. È sempre così quando c’è gente che sta peggio di altra, più si acuiscono le differenze
sociali e più la situazione diventa violenta. Perché se tu la tivvù al plasma
non sai cos’è, rimani felice nella tua beata ignoranza, mentre se ne vedi uno
dalla finestra che dà sul soggiorno del vicino, ti viene quantomeno da chiederti
per quale strano motivo non puoi averne una anche tu.
Ad esempio quando entri in Swaziland ti senti subito più
felice, perché vedi che anche la gente che hai attorno lo è. Non hanno la
macchina, ma nei giardini hanno delle giacarande e delle buganvillee con colori che manco sotto l’effetto della
segale cornuta. Spesso vivono in queste specie di muffin di fango con il
tetto di paglia (si chiamano rondavel), che sono mille volte più belli dei
casoni di mattoni e lamiera del paese di Mandela. Ufficialmente gli swazi sono
molto più poveri dei sudafricani, eppure hanno espressioni molto più rilassate,
sono più amichevoli e parlano molto meglio l’inglese. Se si cominciasse a parlare di ricchezza in termini di istruzione e
felicità, chissà come cambierebbero i valori. Eppure lo fanno solo in Bhutan.
Ma cosa pensavi, che si potesse distruggere un sistema in
una generazione? No. Infatti spesso me lo ripeto. Ma il razzismo alla rovescia è il modo giusto per farlo? Favorire i
sudafricani neri a scuola non è forse un modo di rimarcare la differenza fra
neri, bianchi, meticci, asiatici e neri immigrati? Anche perché appena dalla
scuola ci esci, il vantaggio si annulla e vanno avanti solo quelli con meriti
reali.
Alla fine, dal
Sudafrica ne esco un po’ razzista. Riparto con un pregiudizio contro gli
afrikaner bianchi, quelli che parlano afrikaans, con i loro quintali cuciti
addosso a forza di braai, i bakkie da diporto, il fucile e il baffo da
americano che tiene in ostaggio scuole con armi semiautomatiche. Per loro recupero
urbano significa creare un centro commerciale in un quartiere povero,
dove impiantare i più importanti fast food in franchising. A Kimberley, se
chiedi dov’è il centro, ti mandano a quello commerciale. A Bloemfontein invece
il centro c’è, ma è uno stagno sul quale si affacciano McDò, negozi di mobilia
in stile caccia grossa e lo stadio.
Sempre a Bloemfontein, la sorgente floreale dove tutti sembrano andare solo per le immagini
evocate dal nome, incassiamo l’unica
mezza fregatura di questo paese così criminale. Servita da bianchissimi
afrikaner. Arriviamo in città sul tardi e il tipo dell’unico alloggio a buon
mercato indicato sulla guida del Pianeta Solitario ci dice che non potremmo
capitare in un momento peggiore: in città c’è un pericolosissimo festival of the blacks (I’m not racist,
but that’s what it is) e tutti gli alloggi in città sono pieni. In centro manco
andarci, che quelli sono tutti bevuti. Ci dice che per fortuna il suo vicino Julius
è un tipo ospitale e fa favori alla gente in caso di emergenza. Così per un
paio d’ore ci tocca sorbirci i monologhi del vicino, che decanta il senso di
ospitalità della sua gente e ci racconta di come io l’Europa l’ho vista tutta, ci sono stato per 21 giorni, chiosando
con un sì, lo so che voi italiani non
mangiate carne di dubbia provenienza. In garage Julius ha una piattaforma girevole
di ferro da applicare sul retro del suo pickup per poter stare seduto
comodamente mentre spara alle belve. Al cesso tiene copie di riviste sulla
pesca in alto mare.
Quando a bordo del suo divano di pelle che galleggia a largo
di un soggiorno sconfinato ci rivela che noi europei siamo tutti ricchissimi
rispetto a loro, decidiamo che è ora di andare a mangiare qualcosa al centro
commerciale, cosa che facciamo dopo essere stati presentati al figlio che ci
racconta di come gli capiti spesso di invitare
ospiti a dormire qui da noi. Al ritorno, sul letto c’è una ricevuta
intestata a una fantomatica “Guesthouse Genevieve”. Sono le 9 di sera e la casa
è vuota. A giudicare dai rumori, Julius ha abbandonato il plasmone per la
televisioncina di camera sua. Sembra che
ora si vergogni ad esibire il suo baffo da Arizona. La mattina dopo
rivedremo solo la moglie, che la sera prima sembrava così a disagio con noi e
ora si sforza di rompere il nostro lapidario silenzio con sorrisi e abbozzi di
conversazione. Ci risparmieremo il beneficio della risposta.