Confesso di essere un uomo malato. Non so perché non ne ho
mai parlato prima, ma la mia malattia si
chiama prosopagnosi (anzi, prosopagnosia, a quanto pare). Lo ho scoperto da poco, sfogliando un vecchio Venerdì di Repubblica.
Non è una malattia grave, ma è cronica: niente chemio, ma in
compenso grandi rotture di balle.
In pratica il succo è che tu vedi una persona e ti imprimi in
mente la sua faccia, poi la rivedi il giorno dopo e non riesci a riconoscerla.
Mi è capitato all’università di puntare una tipa tutta la
sera e di non riconoscerla la sera successiva. Vabbè, nulla di nuovo, ma a me è capitato anche da sobrio. È
successo anche l’ultima volta che ho visto Sorellina Giugiù, che deve essersela
legata al dito, tanto è vero che ora tutto il ramo della famiglia dotato di R
moscia lo sa. In pratica ero seduto al tavolo di un bistrò di Parì e non sapevo
che attendevamo visite. Così quando lì per lì ti arriva Giulì, finché quella non si qualifica io rimango
interdetto.
Aveva cambiato pettinatura. Fondamentale. Perché uno per
rimediare alla prosopagnosi si basa sui vestiti e sui capelli. Forse anche la
bocca, credo. Comunque, quello che è certo è che ho una grande memoria per il guardaroba della gente.
La prosopagnosi si rispecchia anche sui miei gusti in fatto
di donne. Guardo i capelli e il sorriso, e che ci sia una particolarità, o
anche un difetto affascinante che rende unico il profilo. Mai piaciute, a me,
le modelle. Almeno di faccia. In compenso però sono in grado di disinnamorarmi
di una partner che incontra un
parrucchiere maldestro. È capitato, porella.
Da poco mi sono reso conto che la prosopagnosi è il motivo
per cui mi sento un pesce fuor d’acqua nel mio piccolo mondo natìo.
È che con mille abitanti si presume che tu conosca tutti.
Per voi cittadini specifico che non è un’iperbole. Tutti. O almeno tutti i nativi, che gli immigrati
vanno e vengono. Infatti in paese gioco sul sicuro, seguo la legge del Tu saluta tutti. Ma quando giro per bar
la sera non so mai in onore di chi alzare la mano e distendere il sorriso. Mi
capita spesso di parlare con qualcuno per
ore senza sapere chi è. Mi è stato addirittura riferito che in giro per la
Valle c’è chi mi dà dell’altezzoso, perché me ne sono andato e ora faccio il zittadino e non saluto più.
Chissà chi mi credo di essere.
Invece io chi sono lo so piuttosto bene, è con gli altri che
faccio fatica. E starmene in un posto pieno di gente che non conosco mi rilassa
oltremodo.