martedì 25 ottobre 2011

Ciao Darwin

Arrivi quasi in fondo al mondo, ci rimani un paio di mesi e alla fine ti ci abitui. Così poi è strano prendere un volo che ti porta ancora più lontano e trovarci case come la tua e gente che parla inglese. In un ambiente tutt’altro che inglese. C’è un mare azzurro come il Coccolino, che sfocia in un cielo ingiallito di sole. Rocce arancioni che col blu dovrebbero fare a pugni, ma si sa, la Natura è un'artista affermata e nessuno oserebbe criticarla. In effetti devo ammettereo che il risultato è tutt’altro che malvagio.

Poi ci sono gli indigeni, quelli che sono qui da prima degli aborigeni: la prima persona che ci fissa negli occhi, appena arrivati all’ostello, è un opossum dagli occhi rossi attaccato a un tronco come una salama all’albero della cuccagna. E poi anche il parco cittadino è pieno di cosine strane, tipo alberi completamente rossi, uccelli giallorossi e lapwing, che sono gabbiani, però con il cappello del tipo baffuto di Mythbusters, solo giallo e fatto di carne. E invece dei soliti passeri, ibis bianchi e neri che ripassano il manto erboso col becco a forma di falce.

Insomma, trovare gli inglesi qui è come trovare un gruppo di schützen sull’Aspromonte. La prima cosa che salta all’occhio è tutta sta pelle bianca sotto sto sole a carbonella.

Darwin è una città grande come Faenza, che raccoglie la metà degli abitanti del Territorio del Nord, che pare sia grande quanto la Francia. Le città più vicine sono sulla costa orientale, a diverse migliaia di chilometri. Ieri, sul giornale del Territorio del Nord, la notizia del giorno era un ragazzo di 13 anni che guidava un pickup trainando un asino morto. Con tanto di foto dell’asino morto. Il punto focale era il fatto che il baldo giovine tenesse al suo fianco un fucile carico.

L’altro giorno invece c’era la storia di una donna che è sopravvissuta nel deserto bevendo il suo piscio. E poi il tizio che guidava ubriaco e nudo e ha preso a pugni un poliziotto e quello era il cocktail perfetto dei tre temi topici: macchine, risse e tanto ma tanto alcol. Il resto è tutto sport, ma niente calcio. Solo discipline di squadra con varie combinazioni di violenza per aggiudicarsi la palla. Tranne il mondiale di rugby, che non sembra essere molto popolare, a meno che non si tratti di sfidare i rivali delle isole accanto.

A Darwin abbiamo comprato un camper. In realtà è un furgone riconvertito con letti e mobilia, un Ford Econovan del 1994. Ce lo hanno venduto con dentro tutto: tavoli, chitarra, frigo portatile e fornelli da campo. Sto pomeriggio ero nel parcheggio dell’ostello che provavo a montare la tenda cantando Certe notti e fermandomi ogni tanto per pudore che qualche turista italiano mi sentisse. Anni di militanza indie snob non si cancellano facilmente.

Conteremmo di muoverci verso sud, fermandoci in qualche posto selvatico e dormendo nel furgone. Fino a Perth ci sono cinquemila chilometri, ma noi abbiamo ancora tempo, speranza e qualche soldo olandese. A Perth toccherà lavorare, ma pare che paghino bene.

Intanto ho cambiato la targa: pare che la vecchia con scritto “Nuovo Galles del Sud, verso il 2000” fosse un po’ antiquata. Invece quella nuova ha scritto “NT”, che vuol dire Northern Territory. La mia prima macchina aveva scritto “TN” (che vuol dire Trento, non Taranto o Terni), e questo potrebbe essere un segno del destino. O della mia decadenza da indie snob a nerd. Vedete voi.

mercoledì 19 ottobre 2011

Le conseguenze della Lonely Planet

La Lonely Planet dice che a Candikuning, se guardi bene bene nel mercato dei fiori, in un cantone ben imboscato ci trovi il cesso pubblico più pulito e occidentale dell’Indonesia.

Ebbene, sono stato al mercato di Candikuning, ho superato lo sbarramento di bancarelle tutte uguali, con sarong, cartoline e spezie comprate al supermercato all’angolo e rivendute al quintuplo, e alla fine ho trovato due corridoi pieni di vasi di fiori appesi alle pareti a coprire ogni spazio libero. Non che fossi spinto da inderogabili necessità corporali, ma ho cercato il famoso bagno, giusto per curiosità. Impossibile stabilire quale fosse, perché tutti gli edifici intorno al mercato avevano cartelli con scritto “Toilet – 2000 Rupiah”.

Sono le conseguenze della Lonely Planet. Scrivono che un posto è buono per andarci al cesso, e i fedeli lettori cercano il cesso. E gli autoctoni sono poveri ma furbi, e si accorgono subito di cosa vuole davvero la gente. Non so se se ne chiedano il motivo, perché non è gente da farsi troppe domande, ma ci tengono ad offrirti quello che cerchi. Magari meno pulito di quello originale, ma per loro è la sostanza che conta: tu cerchi il cesso, eccoti il cesso.

In certi posti la Lonely Planet è l’unica guida disponibile. In Indomalesia non ne ho mai viste altre. Al massimo qualche Routard qua e là, ma anche i francesi di solito scelgono la guida australiana. E comunque di solito i posti segnalati sono gli stessi.

Quindi finisce che il mattone tascabile del pianeta solitario, invece di descrivere una realtà, la cambia. Così gli ostelli elencati nella categoria “budget” vedono aumentare all’improvviso il numero di clienti. Di solito investono in infrastrutture e di conseguenza aumentano i prezzi. Spesso aumentano i prezzi e basta.

Se l’inviato della Lonely Planet dice di aver visto i delfini in un punto di un fiume, ecco che ogni barcarolo locale si inventa uscite giornaliere a vedere i delfini. Ho sentito descrizioni di specchi d’acqua con decine di barche a motore ad inseguire e circondare due pinnuti terrorizzati. E poi quelli che in origine erano i posti piú pittoreschi dove stare nelle città, come il Malioboro a Jogjakarta o Jalan Jaksa a Giacarta, diventano microcosmi di pizzerie, cartoline e free wi-fi con consumazioni a prezzi quasi occidentali. L’effetto è così evidente che se la Lonely Planet consiglia di visitare il mercato, due templi e un palazzo, in ogni posto trovi tour organizzati che ti portano a vedere esattamente quel mercato, quei due templi e il palazzo.

Alla fine viene da pensare che le cosa migliore da fare sia comprare la guida ed evitare i posti che consiglia.

venerdì 7 ottobre 2011

Notte insonne a Jogjakarta

Se fossi il presidente dell’Indonesia, o almeno una specie di dittatore illuminato, per prima cosa rifarei i fusi orari. Perché qui il sole sorge alle 5 e la notte cala esattamente 12 ore dopo, alle 17. Se poi ci metti che Allah sveglia discepoli e miscredenti prima dell’alba, ne deriva che qui la vita comincia ogni giorno fra le 4 e le 4.30. Per dire, i musei aprono alle 6 e chiudono alle 2, o anche all’una, come capita di scoprire dopo aver camminato qualche chilometro in salita per raggiungerli appena troppo tardi. E la gente, che deve pure dormire, lo fa qua e là, senza orari fissi e senza mai superare le tre ore consecutive. Al mercato trovi cinesi col cappello piatto di corteccia intrecciata che sgomberano il pesce dal bancone e ci si sdraiano beati. Chi vende cibo per strada passa le notti all’interno della sua cucina mobile, che è una cassetta di un metro e mezzo per mezzo metro con due ruote da bicicletta. Lo stesso fanno i tabaccai nelle loro edicole, fra bustine di caffè e sigarette al chiodo di garofano, mentre sugli autobus c’è un materasso di fianco al posto di guida. Nelle reception degli alberghi, le stesse persone che fanno turni di 24 ore sono in grado di scontare il loro debito con Morfeo sonnecchiando fra un cliente e l’altro.

Ci pensavo l’altra sera, che mi piacerebbe riuscire ad addormentare qua e là, come capita, come fanno loro. Ci pensavo verso mezzanotte, mentre mi giravo nel letto come una scaloppa nel soffritto, ascoltando le risate ubriache della strada. Risate stridule, senza contegno, esplosive. Si direbbe ragazze inglesi, ospiti di qualche losmen del ghetto turistico di Sosrowijaya. Poi però deduco che deve esserci anche qualche autoctono: si sente un motorino, che qui come nei paesi alpini è l’accessorio più importante per avere una vita diversa da quella ascetica di un monaco. Il motorino rimane acceso per ore, perché qui sulla benzina si risparmia il più possibile, ma nessuno sembra aver capito che spegnere il motore è un ottimo modo per limitare i consumi.

Poi finalmente mi addormento, cullato dal rombo plastificato del ventilatore, che almeno è più regolare dei bassi dei motorini, finché a svegliarmi ci pensa Allah, che alle 4 esplode in un turbinio di sacri decibel. Ecco, io la storia del muezzin non l’ho mai capita, perché mi sembra un ottimo modo per perdere proseliti, piuttosto che guadagnarne. Credo che se il prete mi chiamasse ogni mattina presto del marciapiede sotto casa, incitandomi a pregare, ecco, io la divinità la chiamerei in causa in constesti ben lungi dal sacro.

Mi dicono che anche ai musulmani a volte danno fastidio gli urlatori troppo zelanti. Deve essere il caso del misterioso personaggio che qui ogni mattina, cinque minuti dopo che il muezzin ha smesso di ricordarti quanto grande sia Allah e di come neanche Maometto stia a scherzare, vira a dritta la manopola del volume dello stereo con una canzone pop indonesiana. Sempre la stessa, con un ritornello in inglese che dice che “every little thing is gonna be alright”. Evidente citazione marleyana, perché per qualche strano motivo, forse per una questione di gradi centigradi, l’ex allenatore della nazionale dell’Etiopia sembra essere l’idolo indiscusso di qualsiasi paese tropicale, indipendentemente dalla longitudine. La grande peculiarità indonesiana è che qui l’uomo dai capelli di corda se la gioca alla pari con Eric Clapton e credetemi, per scoprirne il motivo sarei disposto a pagare diverse migliaia di rupie (1 rupia = 0,00008 euro).

Con la parentesi musicale il quartiere prende vita. Al di là di un paio di centimetri di cartongesso si sveglia la ragazza svizzera. L’accento da educatrice bacchettona che ha quando parla inglese col suo ragazzo americano fa passare il mio desiderio di prendere sonno in secondo piano rispetto a quello di colpirla ripetutamente con un metro di legno, prima sulle nocche e poi sui denti. Con grandi manovre di ricompattamento di un bagaglio gonfiatosi di batik e marionette di cuoio si prepa per visitare il tempio di Borobudur, che come tutto qui va visto all’alba, fra gli sbadigli di turisti che si aggirano in cerca di una sfumatura rossa del cielo che li mondi dal peccato di aver puntato la sveglia su di un orario da sanzione penale.

Con loro si svegliano decine di galli (le battaglie fra galli sono passatempo nazionale) e gli uccelli da gabbia, che mi dicono essere per i locali uno dei cinque oggetti di cui vantarsi, insieme a moglie, cavallo, coltello e casa, anche se direi che il paniere qui è leggermente meno aggiornato di quello dell’ISTAT.

Verso le 5.30 dai vicini è come consuetudine l’ora di risvegliarsi in musica, con una riproduzione in ciclo dell’unica canzone in loro possesso, ahimè quella degli Evanescence (perché, ne hanno fatte altre?). A questo punto, con il sole già alto, decidiamo che è ora di alzarci e trasciniamo le nostre stanche membra verso la sala colazione, dove diversi altri sguardi corrucciati ci rivelano che non siamo i soli a non essere abituati ai ritmi locali. Da queste parti il jet lag non si accontenta di colpirti quando arrivi, ma tiene il colpo segreto in canna per quando credi di averlo sconfitto. Con buona pace di chi viene qui per riprendersi dai ritmi della vita lavorativa.