giovedì 28 aprile 2011

Ultime volte

Pensavo che fosse meglio evitare il centro. Perché qualsiasi cosa faccia in questi giorni ad Amsterdam, non riesco ad evitare di rimuginare sul fatto che sarà l’ultima volta. Per questo motivo, nelle ultime due settimane ho limitato le mie escursioni al massimo fino al Westerparco dietro casa, in modo non del tutto inconscio.

Oggi però ho dovuto cedere. Le cose da fare si erano accumulate e ho dovuto convincermi ad uscire dalle pareti di mattoni scuri dello Spaarndammerbuurt. Non solo, ma ho cominciato quasi subito a prenderci gusto. Come quando entri in mare e ti devi abituare alla temperatura dell’acqua, ma poi uh! È tutto splish-splash.

È che adoro questa città, visceralmente. Stavo a casa per paura di doverla salutare un pezzo per volta, ma alla fine, quando una vecchia amante sta per partire per un viaggio, hai bisogno di vederla anche se farlo ti ricorderà che stai per perderla.

E mentre pedalavo sulle ciclabili del centro non potevo evitare di pensare a questa cosa delle ultime volte. L’ultima volta che passo per il Jordaan. L’unico posto al mondo dove abbia mai pensato di voler trovare una casa per attraccare e gettare l’ancora. I negozi negli edifici antichi, che è bello che esistano anche se non ci sono mai entrato. I bar con gli interni in legno che ti fanno sentire placido in soggiorno. Il mercato del Nord e la chiesa dell’Ovest. Le vie che dal centro si espandono a raggiera e segnalano l’inizio del Jordaan prendendo un’inclinazione di 45 gradi.

Pedalo su e giù dai ponti inarcati, facendo ciao ciao con la manina appena mi trovo davanti all’obiettivo di un turista. Un giorno mi sono riproposto di farlo ogni volta che me ne capita l’occasione. Così il turista ha una bella fotografia tipica col ciclista olandese che saluta e pensa “Ah, sono tutti così allegri e amichevoli laggiù”. E quel tipo biondo che fa ciao ciao è italiano, ma loro non lo sapranno mai, si godranno il loro souvenir senza sapere che è tarocco.

Stavolta la giapponese di turno mi sorride. Forse capisce che è l’ultima volta.

Faccio il giro dei supermercati del centro per svelare al mondo che voglio vendergli la bicicletta. Quando torno al Nieuwmarkt per slacciare il mezzo di locomozione, per un secondo mi viene voglia di andare a vedere le puttane e fare ciao ciao anche a loro. Poi mi viene in mente che avrò modo di tornare in zona in settimana per vedere la mostra fotografica. E comunque quella è l’area dei trans.

E mentre vedo posti per l’ultima volta, mi vengono in mente quelli che non rivedrò. Penso a Zuid, dove anche lo stadio è fatto di mattoni, costruito per le olimpiadi di inizio Novecento, un intero quartiere in laterite. Ci sono passato due settimane fa, rendendomi conto he forse non ci sarei tornato più. Così ho allungato il giro lungo le poche vie che non avevo mai visto. Ma non potrò mai mangiare al ristorante gestito dal tipo che viene dal paesino di fronte al mio, non vedrò mai concerti in quel locale che dall’esterno sembra una chiesa ortodossa. Tutte quelle cose che non fai mai perché sai di poterle fare quando vuoi.

E domani devo tornare a Chiesavecchia. L’ultima di almeno 600 volte. Seicento volte andata, seicento ritorno. Partendo da tre case diverse, ma sempre lungo il fiume. Spero che il tempo non sia troppo buono, per non pentirmi di aver lasciato a casa la macchina fotografica. Di proposito: non potrei reggere la pressione dell’ultima occasione per fotografare ogni cosa.

sabato 23 aprile 2011

Fiets te koop

Ho sempre vissuto leggero. Dall’Irlanda me ne sono andato dopo due anni con una valigia formato Ryanair, 15 chili in magliette, libri e CD.

Avere troppe cose mi dava l’ansia. Pesi che mi avrebbero impedito di andarmene il giorno in cui avessi ritenuto opportuno farlo.

Poi sono arrivato in Olanda e dopo pochi mesi avevo già chiuso le valigie in un punto meno accessibile del ripostiglio, senza neanche rendermi conto dell’alta portata simbolica dell’operazione. Un po’ alla volta ho scoperto il piacere di avere le cose giuste quando ti servono. Cose tipo il coltello del pane. Prima vivevo in modo piuttosto dignitoso con un coltello solo in casa, poi un giorno ho scoperto quanto una lama a mezzelune posa rendere più gratificante l’esperienza del tagliare il pane. Da allora non sono stato più in grado di privarmi di questo lusso.

Nel corso della sua vita, Homo Sapiens Sapiens accumula un catalogo di oggetti a cui non può rinunciare, una specie di documento che lo identifica, come gli anelli che conti sui ceppi degli alberi per calcolarne l'età.

A vent’anni non c’è nulla che hai bisogno, come diceva quel cantante. E poi un giorno provi il lettore DVD del coinquilino e tempo due giorni te ne compri uno. Sei segnato. Nel catalogo hai un timbro per il lettore DVD, che rimarrà là per sempre, zuppo di inchiostro grasso come quello dei posti di frontiera dell’Asia centrale.

Più avanti aggiungi timbri per l’ipodio e il telefonino che fa le fotografie. Una funzione che non usi, ma non riuscirai più a comprarne uno senza fotocamera. Non si sa mai che un giorno torni utile.

Poi con l’andare degli anni ti compri gli sci perché a noleggiarli sono soldi che non rivedi più. E quando vedi la panza che avanza ti convinci che la bici da corsa non sia un lusso. Magari ti iscrivi al corso di fotogafia per conoscere tipe (quelle un po’ artistiche d’animo sono le migliori) e ti tocca farti anche la macchina fotografica grossa, di quelle fatte per non sembrare digitali.

E queste sono le spese grandi, ma quelle che ti fregano sono le cose piccole che non ti accorgi neanche di incamerare. Il coltello del pane, l’appendicalzini dell’Ikea a forma di polpo, il mouse per il computer portatile. Non lo sai, ma non puoi più farne a meno.

Questo è il mio stato attuale. E ora sto per partire, quello che ho accumulato comincia a pesarmi. Soprattutto la bicicletta. Un anno e mezzo fa ho deciso per una volta nella vita di investire un paio d’europiotte per le due ore quotidiane di ciclo verso l’ufficio. Così ho comprato Cortina. Telaio in lega, freni a tamburo, fari alogeni con dinamo quasi impercepibile. Soprattutto, mi piaceva che un oggetto così olandese avesse il nome di un paese a 50 chilometri da quello dove ero nato. Il fatto che tale paese fosse un assembramento di chega rivestiva per me un ruolo marginale.

Per una bicicletta granturismo ho speso 100 euro più di quanto avevo speso in Irlanda per una macchina. Ma vuoi mettere l’affidabilità? Cortina mi ha lasciato a piedi solo due o tre volte, una delle quali eroica come un alpino sul Don, avanti 10 chilometri con un cristallo da un centimetro conficcato al centro del battistrada. Scarpe rotte eppur bisogna andar, come dicevano dall’altra parte del Don.

A Cortina ci tenevo così tanto che ogni mese pagavo 15 o 20 euro per parcheggiarla al calduccio. Per dire.

Se avessi voluto risparmiare, in ufficio ci sarei andato con i mezzi pubblici. O con l’elicottero. Ma la mia Cortina azzurra e argentata come un ghiacciaio patagonico mi faceva sentire libero. I primi dieci minuti del ritorno me li facevo con pedalate che erano calci nelle gengive di tutti i commerciali con i quali avevo lottato aspramente in giornata. Relativizzando sull’importanza di orari di consegna che sembravano passibili di pena capitale.

Poi a casa ci arrivavo stanco e soddisfatto, senza patema alcuno per non essermi mai iscritto alla palestra.

E ora, la mia Cortina, nessuno la vuole comprare. Io che vorrei tenerla per sempre, passo giornate a cercare di liberarmene. Mette in crisi il mio senso etico.

Ed è bene che per il prossimo anno avrò uno zaino da 80 + 10 a tenermi in guardia dagli eccessi.

lunedì 18 aprile 2011

Errori da fare

È che non sapevo come dirlo. Perché quando si chiede come va e se ci sono novità, non ci si aspetta mica una risposta vera. Si prepara già altro da dire per traghettare il discorso fuori dai convenevoli. E anche se le novità ci sono, ormai hai perso il La e devi aspettare la prossima battuta.

Così finisce che lascio perdere e dico “il solito”, come se stessi ordinando da bere giù al bar, anche se ormai mancano poche settimane e sarebbe ora che la gente sapesse.

E poi non va di ostentare. E quando la reazione istintiva sarebbe di uscire per strada e renderne partecipe il vicinato e il mondo, per non ostentare devi prendere bene le misure, bloccare ogni slancio alla sorgente, come quell’olandese che mettendo un dito in un buco in una diga ha evitato che questo paese tornasse sotto l’egida di Nettuno.

C’era poi il fatto che non tutti avrebbero capito. Un po’ come mia madre, alla quale comunque ho riferito tutto per dovere filiale. Dice che alla mia età posso fare quel che voglio, però mi guarda con sospetto. È difficile capire per una che ha dedicato la vita a lavorare e crescere i figli. Perché poi quando nella vita si deve scegliere fra due vie opposte, è fatica convincersi che entrambe possono essere corrette.

O sbagliate.

In effetti me lo sono chiesto se stavo per commettere un errore. Alla fine ho concluso che era meglio vedere il mondo sbagliando che indovinare restando. Anche se fra un anno sarò qui a cirrodermi il fegato per quello che ho buttato via, potrò comunque pubblicare su Facebook una mappa dei paesi visitati molto più colorata.

Così si parte, fra due settimane. Si prende la strada lunga, si passa per casa dei miei, si visitano tutte le famiglie di Lilù in ogni angolo della Francia, poi due matrimoni, uno in Francia e uno a Genova, e poi a metà giugno si arriva a Parigi e si parte per la Malesia.

Amsterdam – Parigi – Valle – Montélimar – Parigi – Blois – Paese ignoto al centro della Francia - Tolosa - Nizza - Genova - Parigi - Kuala Lumpur

Qui comincia il viaggio vero. Abbiamo un permesso di lavoro/turismo per l’Australia. Dalla Malesia vorremmo prenderci tre mesi per scendere con calma verso Darwin, passando per l’Indonesia ed evitando di prendere aerei, tranne quello per il Borneo e quello da Bali a Darwin.

E poi un anno per girarlo un po', sto grande paese rosso e giallo. E poi si vedrà anche di tornare, però dove ditemelo voi.

giovedì 14 aprile 2011

Origini

ui treni italiani non si legge. Al massimo si compilano parole crociate o si sfogliano i giornaletti gratuiti. E se proprio vuoi mettere i piedi sul sedile di fronte, lo fai con le scarpe addosso, ché sotto i piedi è pieno di funghi.

Se ti togli le scarpe devi essere uno di quegli eccentrici turisti da su per l’Europa. Ti si siedono vicino solo gli immigrati.

Oggidì la gente il biglietto lo fa, ma non lo timbra. Dici gli immigrati, ma gli italiani pure. Se passa la bigliettaia, questa ricorda che il biglietto va obliterato e conclude con “la prossima volta..."

E poi c’è chi dice che la gente è diventata intollerante.

A Treviglio sale uno zingaro che lascia biglietti da visita fotocopiati su carta blu. Disoccupato, due figli piccoli, malattie in famiglia. Tre minuti dopo torna, riprende i biglietti e fa tintinnare euro, incoraggiando ad aggiungerne altri alla pila, come se la gente fosse disposta ad investire per un tintinnio più corposo. Poi scende dal treno e torna dai due figli e dalle malattie in famiglia.

A Verona ne sale un altro che lascia biglietti identici, ma su carta arancione. Che tutte le famiglie zigane abbiano due figli e gli stessi problemi di salute? Qualcuno ci crede e diverse fra le italiche genti contribuiscono con i loro pezzi al tintinnio.

E poi c’è chi dice che la gente è diventata egoista.

A casa dei miei si parla del mio Senegal e di quello locale, che passa ogni mattina a chiedere soldi ad una selezione di indirizzi collaudati.

Io disapprovo con fermezza e zelo, poi la mattina dopo ne incontro un rappresentante per strada. Un venditore ambulante d’aria, con un sorriso docile che ha portato dalla Nigeria. Parla un italiano preciso e corretto. Gli allungherei un paio di piotte bicolori, se solo ne avessi in tasca.

Alla fine sì, sono alto, biondo di barba e azzurro d’occhiali, vengo da un posto dove tutti in Italia credono si parli tedesco, mi tolgo le scarpe prima di mettere i piedi sul sedile di fronte, però alla fine della fiera song’italiano pur io.

sabato 9 aprile 2011

Comuni denuclearizzati

Ormai tornare in Italia è come andare in villeggiatura. Quaggiù c’è il sole ogni giorno e la gente non sembra stupirsene più di tanto, i meli sono in fiore e anche i ciliegi selvatici, che visti da lontano, isolati nei boschi sempreverdi, sembra che abbia nevicato a macchie. Dietro le quinte pandori di roccia con lo zucchero a velo in cima.

Forse però ora è davvero villeggiatura. È casa, ma è sempre meno famigliare. E non riesco più a godermi i riti del ritorno. Leggo la Repubblica a colazione e trovo troppi politici per i miei gusti, bevo il mio chinotto e me lo ricordavo meglio. E checché ne dicano tutti la pizza che fanno nel paesino di sopra non è meglio di quelle della Ferdinand Bolstraat.

Hanno anche tolto Brand:New da Sky.

In compenso ascolto la mia radiossessione quotidiana dal vivo, per la prima volta, dopo centinaia di mezzore di podcast. È la stessa cosa, solo con qualche interferenza, ma sentirla dal vivo ti ci fa sentire la vita dentro, come nello iogurt.

La sera vado al tendone, poiché esso è la massima espressione della vita valligiana. Il rito consiste nell’affittare una grande struttura rimovibile e farci suonare sotto un gruppo cover (venerdì), un deejay tunzettante (sabato) e un’orchestra di liscio (domenica). Rito iniziato da uno dei 38 paesi della Valle, nessuno sa quale, e poi copiato da tutti gli altri, perché se lo fa il paese vicino lo dobbiamo fare anche noi. E se lo fa la Pro Loco, lo devono fare anche i pompieri, gli alpini e la parrocchia. Così l’estate in Valle c’è più scelta che abitanti e anche i musicisti, che per forza di cose sono sempre gli stessi, devono sgobbare con l’alacrità di un idraulico lituano.

Giù al cimitero, dove inizia il paese, c’è scritto “comune denuclearizzato”. L’aveva fatto mettere mio padre quando era assessore alla fine dei chimici anni Ottanta. Poi per anni era rimasto là, mentre ci si chiedeva perché non “comune esente da mutazioni genetiche” o “comune privo di bestiame clonato” ed eccolo là, di nuovo attuale dopo un tunnel di decenni. Forse il tunnel era una grande curva parabolica, che senza accorgercene ci ha risputati all’imboccatura. Dico forse. Forse invece non siamo noi a tornare indietro, ma le cose.

martedì 5 aprile 2011

T'amo, alcolizzato del parco

Gli alcolizzati del Westerparco si trovano ai bordi dello stagno con le sculture orrende. Se ne fregano del vestito da sposa decapitata e bevono birra da poco.
Parlano, sgrugnano, fanno per picchiarsi, ma poi non si picchiano mai. Poi oggi si sfogano su di un pallone giallo-borussia, ma solo per smaltire un po’ la rabbia alcolica. Arriva una signora alcolizzata col carrello a motore, di quelli a tre ruote fatti apposta per gli anziani. Lei pacheggia e scarica lattine. È festa grande e lei ha le scarpe da ginnastica colorate come quelle che usano i marocchini locali per fare i rappisti ganghisti. Ma sarà vietato guidare i carrelli a motore con lo Spirito nel sangue?

Uno ha una chitarra e scatarra versi in inglese, ma senza suonare. Parlano di amore incompreso o comunque cose negative, cose che allora capisco anch’io che scegli l’alcolemia.

Passa un poliziotto che saluta deferente e loro ricambiano con un sorriso, perché con tutta la gentaglia che c’è in giro, un agente in rampichino ti permette di berti la tua birra tranquillo e beato.

Da queste parti la gente vuole bene agli alcolizzati dei parchi. Forse perché è il paese che se gli dici che non compri il giornalino degli alcolizzati loro ti dicono grazie, scusa per il disturbo e ancora buona giornata. Sono socievoli perché qui “asociale” è un insulto.

Neanche le ragazze hanno paura degli alcolizzati. Ne ho viste due che giocavano a calcio malissimo e che arriva un alcolizzato ad ambire alle loro inarrivabili brame bionde e loro invece di scazzarsi o scappare via gli sorridono e gli danno corda tranquille e gentili. Per almeno mezz’ora.

E poi c’è sta bionda che si è seduta qua davanti, perché magari non l’ho ancora scritto, ma anch’io nel parco mi siedo vicino agli alcolizzati e ogni tanto mi chiedono chi sono, ma gentili ed educati, anche se vorrebbero fare i duri. Poi quando sentono che ho un accento da sopra il livello del mare mi parlano in inglese perfetto, imparato guardando i film alle televisioni dei centri di accoglienza.

Comunque parlavo della bionda, e mica solo perché è più bionda del biondo locale ed è una di quelle bionde che noteresti anche se fossero more, ma questa arriva e si siede tranquilla di fianco ad un alcolizzato. E in questo momento qui, in cui ho scritto ste righe qui, sono dieci minuti che ascolta l’alcolizzato e ci parla traquilla e non è mica un’assistente sociale.

Ora invece ne arriva uno con la giacca di pelle e un berretto rosa con il pon pon e c’è quello che sembra il prete alcolico di Father Ted che lo vuol prendere a pugni. Identico è, al prete alcolico di Father Ted, solo che questo ha dei calzettoni da montagna spessi come scaldapolpacci da Flashdance.

Alla fine non lo prende mica a pugni. Sono gente posata, gli alcolici olandesi, anche se vorrebbero atteggiarsi da alcolici americani.

Mi alzo perché anch’io dovrò pur torare a casa, no? e uno con lo sguardo minaccioso mi sorride e dice che gli piace il mio portatile rosso. Io sorrido e basta, però gli voglio bene.